Omelie 2014 di don Giorgio: Penultima Domenica dopo l’Epifania

23 febbraio 2014: Penultima dopo l’Epifania
Bar 1,15a; 2,9-15a; Rm 7,1-6a; Gv 8,1-11
In preparazione alla Quaresima, che inizia il 9 marzo, le ultime due domeniche del tempo dopo l’Epifania si concentrano sulla misericordia di Dio nei riguardi dei peccatori. Da qui i due titoli complementari di domenica “della divina clemenza” e di domenica “del perdono”. Mi soffermo sul brano del Vangelo. Si tratta di un episodio molto noto: Gesù perdona una donna colta in fragrante adulterio. La prima osservazione è questa: secondo gli studiosi, il brano sarebbe stato inserito nel quarto Vangelo, ma non rispecchia lo stile dell’autore. In breve, questa pagina è fuori posto. In alcuni manoscritti antichi compare addirittura nel Vangelo secondo Luca. Ma c’è di più. Nei primi secoli l’episodio non è stato accettato dalla Chiesa ufficiale, fino a quando san Gerolamo non l’ha inserito nella sua traduzione latina della Bibbia (tra il IV e il V secolo dopo Cristo). Perché è successo questo? L’episodio dell’adultera faceva così tanto paura? A causa della rigida disciplina ecclesiastica allora vigente a proposito della colpa di adulterio, la Chiesa gerarchica dei primi secoli temette che il comportamento di Gesù potesse essere frainteso. Per evitare equivoci, il brano è stato tolto dal Vangelo. Tra parentesi. Oggi potremmo anche sorridere davanti a questo atteggiamento censorio della Chiesa, ma non sorridiamo troppo: la Chiesa, fino ad oggi, ha interpretato un po’ a modo suo la Parola di Dio. I Vangeli, ad esempio, sono una prova di interpretazioni ai fini ecclesiastici di parole e di fatti di Gesù, che perciò non corrispondono esattamente a quanto Gesù ha detto o ha fatto. Ecco perché insisto nel dire che bisogna tornare alla radicalità del Vangelo: radicalità non vuol dire estremismo, ma significa tornare alle radici, alle origini, alla fonte genuina. Un conto è bere l’acqua alla sorgente, un conto è bere l’acqua alla foce, dopo che si è inquinata percorrendo chilometri e chilometri di strada, tra boschi e prati. Ma la Chiesa non ha aspettato troppo tempo: fin dall’inizio si è preoccupata di incanalare l’acqua sorgiva a modo suo. Vi faccio solo un esempio, che servirà anche a capire l’episodio dell’adultera. Gesù ha narrato numerose parabole: tra quelle più note c’è la parabola della zizzania e la parabola della semente. Dopo averle narrate alla folla, sembra che il Maestro si sia subito preoccupato di spiegarle, almeno ai suoi discepoli. In realtà, gli studiosi concordano nel dire che la spiegazione non è di Gesù, ma della Chiesa primitiva. C’è di più. Gesù narrando le due parabole ha puntato l’obiettivo sul Padre celeste, come a dire: Attenzione, voglio rivelarvi qualcosa del vero volto di Dio: la sua bontà, la sua infinita pazienza ecc. Quindi la visuale originaria di Gesù era nettamente teologica: riguardava cioè Dio stesso. Ma la Chiesa primitiva che cosa ha fatto? Si è subito preoccupata di spostare l’obiettivo verso il basso, verso i credenti, facendo così di una visuale teologica una visuale moralistica. In breve: voi credenti dovete comportarvi così e così. Questo atteggiamento tipicamente moralistico della Chiesa è continuato lungo i secoli, fino ad assumere esasperazioni anche disumane, tradendo la visuale teologica. Il nostro popolo è sempre stato educato in funzione di una morale: tu devi comportarti così, non devi fare questo o quello. Ancora oggi parlare di teologia al popolo di Dio sembra un lusso per pochi, un privilegio per eletti. Eppure basterebbe aprire qualche squarcio di cielo infinito, e i credenti respirerebbero un’aria nuova.
Questo atteggiamento rigidamente moralistico della Chiesa ha fatto sì che il brano di oggi venisse prima eliminato dai Vangeli, e successivamente, quando è stato finalmente inserito nel quarto Vangelo, benché fuori posto, sia stato interpretato al di là della originaria intenzione di Gesù. Vediamo perché.
Anzitutto, proprio perché è fuori posto, il brano dell’adultera non ha un contesto. Dobbiamo perciò leggerlo a sé stante. Diciamo subito che l’episodio in realtà non è incentrato sulla questione dell’adulterio, ma offre una prospettiva più ampia e complessa sul tema del peccato e sul rapporto tra Gesù e i peccatori. In parole più semplici: l’adulterio sarebbe solo un pretesto o l’occasione per allargare il discorso.
Anzitutto, non c’è alcuna sincerità da parte degli accusatori della donna. A loro non interessava tanto il suo adulterio, quanto invece colpire Gesù, provocando in lui una risposta che lo avrebbe messo alle strette. Dice l’autore del brano che gli scribi e i farisei hanno posto la domanda a Gesù: “Tu che ne dici?”, per «metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo». Dal loro punto di vista, qualunque risposta possa dare, Gesù dovrà per forza compiere un passo falso: se contesterà la pena della lapidazione, si mostrerà trasgressore della legge e passibile lui stesso di condanna; se l’ammetterà, contraddirà il principio della misericordia verso i peccatori, per il quale si è reso famoso e provocherà reazioni negative nei suoi seguaci.
Gesù come reagisce di fronte alla domanda-tranello dei suoi avversari? Dapprima con un silenzio già eloquente che li tiene sulle spine, poi con una contro-domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
Gesù sfugge al tranello, ponendo una condizione imprevista che spiazza i presenti. La legge che cosa dice? Che a lanciare le pietre devono essere i testimoni dell’accaduto. Bene, si facciano avanti, ma prima si guardino dentro, e s’interroghino: Io sono a posto in coscienza? Con che diritto lancio una pietra contro un colpevole, quando io stesso sono un peccatore? Solitamente si dice che i più rigidi moralisti sono dei complessati, e condannano gli altri per coprire le loro magagne.
Gesù ci costringe a guardare dentro di noi e a considerare la nostra posizione nei confronti del peccato, di qualsiasi peccato. Non vorrei che cadessimo nel semplicismo: siccome siamo tutti peccatori, e allora giustifichiamo tutto. Càpita una ingiustizia? Meglio tacere! Si commettono disfatti? Meglio tacere! Siamo governati da criminali? Meglio tacere! Non penso che questo sia l’insegnamento del brano dell’adultera.
Non dobbiamo leggere il comportamento di Gesù come di chi vuole assolvere ogni peccato, calpestando ogni morale. Proprio per evitare questo equivoco, la Chiesa primitiva ha tolto il racconto dai Vangeli. Ma ha fatto male, perché per educare alla maturità non si tolgono gli ostacoli, ma si affrontano. E la Chiesa purtroppo ha sempre ritenuto i suoi credenti tanto infantili da tenerli ben protetti, isolati dal resto del mondo.
Il bello del racconto evangelico avviene, quando gli accusatori, costretti a fare individualmente i conti con la loro coscienza, se ne vanno.
Certo, meraviglia un poco questa resipiscenza quasi miracolosa dei nemici di Gesù. Forse è la prima volta che sono rimasti folgorati dalla parola del Maestro. Come convertiti! Penso che non sia in tale senso che andrebbe letta la reazione dei presenti che si allontanano. Gesù, mettendoli ciascuno di fronte all’altro, li ha denudati della loro palese incoerenza. E se ne vanno per la vergogna, non perché si sono ravveduti.
L’uscita di scena degli accusatori non è la conclusione, inaspettata, di tutta la vicenda, perché resta ancora irrisolta la situazione della donna: se scribi e farisei non hanno potuto eseguire la condanna prevista, quale sarà la decisione ultima di Gesù stesso, rimasto solo con lei? In contrapposizione all’atteggiamento tenuto dagli avversari nella prima scena, Gesù non considera la donna un puro oggetto di discussione e non consente che rimanga una presenza muta e passiva. Anzi, si alza, e prende l’iniziativa del dialogo. La interpella col titolo «donna», che è abituale in lui di fronte a un’interlocutrice che considera degna di rispetto e di attenzione: lo usa con la donna cananea, con la donna piegata dalla paralisi, con la samaritana, con la madre a Cana di Galilea e sotto la croce, con Maria Maddalena. Quindi la interroga: «Dove sono? Nessuno ti ha condannata?». E lei: «Nessuno, Signore». E Gesù: «Neppure io ti condanno». E conclude: ««Va’ e d’ora in poi non peccare più». Non so se Gesù abbia aggiunto queste ultime parole. Secondo me le ha aggiunte la Chiesa, per paura che qualcuno fraintendesse ancora il comportamento di Gesù.
In quel “neppure io ti condanno” c’è tutta la forza rivoluzionaria di Gesù. Gesù non condanna, ma è lì, accanto alla donna: non se ne è andato come gli altri. È rimasto, ma non condanna, non lancia la pietra, come voleva la legge. La legge! La legge la fanno coloro che trovano comodo poi applicarla sugli altri. Gesù è venuto per sostituire la legge con la grazia, che è un’altra cosa. La grazia va oltre la legge, l’ipocrisia della legge.
Gesù non condanna, non perché fa finta di nulla, non perché giustifica il male. La grazia entra nel cuore, e trasforma. Non c’era bisogno che Gesù dicesse: “Va’ e d’ora in poi non peccare più”. La grazia trasforma i cuori, ma non garantisce sul futuro. Sa benissimo che siamo deboli: che magari peccheremo ancora. Cominciamo ora a rientrare dentro di noi, e comprendere che, senza la grazia, noi saremo sempre in balìa della “pesantezza” esistenziale (“pesanteur”), di cui parlava spesso nei suoi scritti la filosofa e mistica francese, Simone Weil.

1 Commento

    Lascia un Commento

    CAPTCHA
    *