Il caporalato arriva in tavola: così resiste la filiera del cibo senza regole – Cos’è l’Agro pontino

 

da AVVENIRE
22 giugno 2024
I nodi.

Il caporalato arriva in tavola:

così resiste la filiera del cibo senza regole

Andrea Zaghi, Torino
Le imprese agricole che lavorano male, che sfruttano la manodopera e riescono comunque a vendere e prosperare, queste imprese continuano ad esserci e hanno mercato
Aree grigie e zone d’ombra. Ma anche processi e impianti produttivi non corretti, provenienze delle materie prime dubbie quando non illecite, controlli distratti e superficiali. Nonostante vi siano regole, protocolli, capitolati e certificazioni non tutto l’agroalimentare nazionale brilla in trasparenza.
Non si tratta solo di malaffare criminale, ma di negligenze e colpevoli leggerezze. Diciamolo subito: il vero agroalimentare italiano è tutt’altra cosa. Eppure l’episodio dell’Agro Pontino – seppur gravissimo, con un immigrato lasciato morire dopo aver subito l’amputazione di un braccio – non è il primo. Così come non isolati sono i ritrovamenti di alimenti fuori norma, i casi di racket e gli episodi criminali nei mercati e nei campi. Stando alle numerose rilevazioni, il giro d’affari delle cosiddette agromafie supera i 20 miliardi di euro e spazia dall’abigeato al controllo degli appalti di forniture alimentari attraverso tutti gli strumenti possibili dell’estorsione e dell’intimidazione. Ambiti nei quali il caporalato ha un ruolo di primo piano insieme allo sfruttamento dei lavoratori anche regolarmente presenti in Italia (come proprio Avvenire ha rivelato).
«La malavita comprende la strategicità del settore in tempo di crisi economica», dice Coldiretti che, con le altre organizzazioni agricole, chiede controlli severi su tutto l’agroalimentare. Che pure ci sono (solo quelli riportati dall’ultimo rapporto dell’Ispettorato Centrale della Tutela della Qualità e Repressione Frodi arrivano a 54.615). Senza dire di quanto viene fatto dai Carabinieri e dalle altre forze dell’ordine. Eppure tutto questo non basta.
Perché le imprese agricole che lavorano male, che sfruttano la manodopera e riescono comunque a vendere e prosperare, queste imprese continuano ad esserci e hanno mercato, agevolate anche dalla struttura della stessa filiera agroalimentare: troppi produttori spesso troppo piccoli che stentano ad arrivare direttamente ai mercati che contano e che devono affidarsi ad intermediari di ogni genere. Una condizione che vale per tutto lo Stivale agricolo. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto Flai-Cgil, l’Agro pontino e la provincia di Latina sono tra le aree dove lo sfruttamento dei braccianti è più radicato, ma ci sono anche Caserta e Napoli, la Capitanata, le campagne piemontesi, quelle siciliane, il Fucino abruzzese, il Veneto. Delle 405 aree di caporalato diffuso oltre la metà è al Nord. Perché sfruttare e dare lavoro in nero “conviene” soprattutto adesso, con i costi delle materie prime che salgono e i margini che scendono.
Gli sforzi per fare pulizia però ci sono. «Ogni anno nei grandi mercati italiani avvengono centinaia di controlli sia da parte del personale ispettivo dei mercati stessi che in raccordo con le autorità preposte (NAS, Forestali, autorità sanitarie ecc). I controlli riguardano il rispetto delle norme, sulla tracciabilità sui residui, sul rispetto delle norme di commercializzazione», dice Fabio Massimo Pallottini, presidente di Italmercati, una rete che riunisce i 22 principali mercati all’ingrosso nazionali, e che ha adottato «un codice etico che contrasta il caporalato». Il fatto è che, stando ad un’indagine Ismea-Italmercati, in Italia oggi ci sono 137 strutture (sei volte di più che in Spagna e Francia) da cui passa circa il 50% dell’offerta ortofrutticola, il 33% di quella ittica e il 10% delle carni. Si tratta molto spesso di mercati piccoli, a rilievo locale. I clienti prevalentemente sono i negozi al dettaglio. Quella dei mercati all’ingrosso è quindi una realtà frammentata. Troppo. Da qui, è il parere di Italmercati, la necessità di mettere mano ad una riforma profonda con due parole d’ordine: accorpamento ed efficienza. «Si deve – dice Italmercati – individuare un numero, magari ridotto, di mercati strategici che garantiscano un sistema più efficace ed efficiente, non tralasciando i principali requisiti alla base di queste strutture: garantire ai consumatori servizi di tracciabilità e sicurezza alimentare».
Una posizione simile a quella adottata da Federdistribuzione il cui presidente, Carlo Alberto Buttarelli, sottolinea: «C’è sicuramente un tema di normative che, pur essendoci, devono essere applicate meglio e con più attenzione; ma c’è anche una questione di cultura e di autocontrollo da parte di tutta la filiera alimentare». Le imprese della distribuzione moderna hanno sottoscritto nel 2017 un protocollo per contrastare il caporalato e per eliminare le aste a doppio ribasso che generano una sorta di compressione dei costi agricoli. «Ai nostri fornitori – dice Buttarelli – chiediamo l’adesione alla “Rete del lavoro agricolo di qualità”’ oppure di assumere la certificazione Grasp (Risk Assessment on Social Practice, cioè Controllo dei Rischi nelle Pratiche Sociali, ndr) che è specifica per la tutela dei lavoratori». Ancora Buttarelli precisa: «La produzione agricola è caratterizzata da molte imprese troppo piccole che finiscono per essere preda di grossisti e intermediari senza scrupoli».
Trasparenza, dunque. Eppure tutto questo non basta ancora. Ieri, il segretario generale della Fai-Cisl nazionale, Onofrio Rota, ha insistito: «Se davvero vogliamo dichiarare guerra al caporalato dobbiamo partire da una politica dei prezzi più giusta ma soprattutto da una efficace emersione di chi diventa irregolare: chi vuole lavorare e non ha commesso reati non può rimanere nel limbo allo scadere del contratto, parliamo di persone cui dobbiamo riconoscere dignità».
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Cos’è l’Agro pontino

La pianura bonificata in provincia di Latina è una delle aree italiane a maggior concentrazione di imprese agricole, nelle quali vengono spesso sfruttati migliaia di indiani di religione sikh
Un trattore nei campi dell’Agro pontino, in provincia di Latina (Maria Feck/laif)
Oltrepassato il cartello con scritto “Latina”, quando si iniziano a notare squadre di operai chinati nei campi a raccogliere frutta e verdura, significa che si è entrati nell’Agro pontino: la zona agricola a sudest di Roma dove lavorava Satnam Singh, il lavoratore indiano morto mercoledì pomeriggio, due giorni dopo aver perso un braccio in un grave infortunio sul lavoro. Singh aveva 31 anni ed era arrivato in Italia dopo la pandemia insieme alla moglie. Lavoravano in un’azienda tra Borgo Santa Maria e Borgo Montello, due frazioni di Latina. Entrambi non avevano un permesso di soggiorno né un contratto regolare. Lavoravano per molte ore al giorno, fino a 14, per pochi euro all’ora e in condizioni durissime.
Nell’Agro pontino migliaia di persone straniere vengono sfruttate allo stesso modo, sottomesse a intermediari – i “caporali” – che assicurano un posto di lavoro e un affitto in cambio di una cospicua parte dello stipendio. Negli ultimi anni sono state fatte diverse denunce e inchieste, che tuttavia non sono riuscite a smantellare questo sistema fondato quasi totalmente sull’illegalità e sul mancato rispetto dei diritti minimi dei lavoratori.
Le persone, per la maggior parte straniere, vengono sfruttate così come viene sfruttata la terra di quest’area, che non ha veri confini. L’Agro pontino inizia a ovest dal canale “acque alte”, noto anche come canale Mussolini, tra i comuni di Cisterna e Latina, mentre il limite a est è segnato dai monti Lepini e Ausoni. È un territorio prevalentemente pianeggiante, diviso tra le zone interne più fertili, di origine vulcanica, e quelle meno produttive, più vicine alla costa tirrenica, che fino agli anni Trenta del Novecento erano paludi.
La sua conformazione, la fertilità del suo terreno e le bonifiche hanno contribuito a far diventare l’Agro pontino una delle aree italiane a maggior concentrazione di imprese agricole. A nord, nella pianura tra i comuni di Aprilia, Cisterna e Cori, si coltivano soprattutto cocomeri, uva e kiwi, di cui la provincia di Latina è il primo produttore europeo. Tra Latina, Sezze, Pontinia e Sabaudia ci sono campi di carciofi, zucchine, agrumi e spinaci. A Latina e Fondi si trovano due tra i centri di smistamento di ortofrutta più importanti d’Europa dove ogni giorno vengono stoccate, lavorate e vendute tonnellate di frutta e verdura.
In questa zona lo sviluppo intensivo dell’agricoltura è iniziato durante il Ventennio fascista, in seguito alla bonifica delle terre che fino ad allora erano prevalentemente paludi. Nel 1927 il geografo Roberto Almagià la definì «palude pestifera, pel cui risanamento da secoli e secoli tante energie si consumarono, tante iniziative sorsero e caddero infrante […], oppur si spensero a poco a poco come esauste da una lotta impari contro un nemico gigantesco».
L’idea di bonificare le pianure pontine venne messa in pratica con il progetto che il regime chiamò “guerra alle acque”, cioè la legge del 1928 che finanziò bonifiche di paludi in molte regioni italiane. L’obiettivo di Benito Mussolini era di bonificare 8 milioni di ettari di terreni paludosi, circa un terzo di quelli presenti nel paese, ma a metà degli anni Trenta il governo si disse soddisfatto di aver raggiunto la metà dell’obiettivo iniziale.
In realtà, come racconta lo storico Francesco Filippi nel suo libro Mussolini ha fatto anche cose buone, la metà dei 40mila chilometri quadrati di bonifiche annunciati dal governo era da ricondurre a progetti avviati dai governi liberali dei primi due decenni del Novecento, prima dell’ascesa al potere di Mussolini. Nell’Agro pontino furono bonificati circa 770 chilometri quadrati, un processo che era stato avviato in epoca medievale e portato avanti nei secoli successivi, con ritmi e successi alterni.
Dopo la bonifica fu costruita una fitta rete di canali per raccogliere le acque dei torrenti e dei fossi, e soprattutto si progettò una nuova organizzazione del territorio, diviso in appezzamenti agricoli tra i 9 e i 30 ettari da affidare ad agricoltori. Ogni cento famiglie corrispondeva una cosiddetta borgata di servizio che aveva il compito di amministrare i terreni. Intorno alle borgate si sviluppavano i servizi come le scuole, il forno e i negozi, la cisterna per la raccolta delle acque, la chiesa, i magazzini e gli uffici. Furono costruiti 743 chilometri di strade pubbliche e una rete dell’alta tensione lunga 640 chilometri.
Molti terreni furono affidati a ex combattenti emigrati da altre regioni, in particolare dal Friuli Venezia Giulia, dal Veneto e dall’Emilia-Romagna: tra il 1932 e il 1943 arrivarono nell’Agro pontino circa 34mila persone. Tra gli anni Sessanta e Ottanta la costruzione di molte seconde case, favorita per lo più da operazioni di speculazione edilizia, contribuì a un breve periodo di sviluppo turistico della zona. Si tornò alle coltivazioni intensive dalla fine degli anni Ottanta, grazie all’arrivo in Italia di migliaia di persone straniere, in particolare indiani di religione sikh.
Braccianti al lavoro nei campi dell’Agro pontino (Maria Feck/laif)
I primi nuclei sikh arrivarono nelle regioni del Sud. Si trattava di giovani maschi con visto turistico in cerca di un lavoro temporaneo, in attesa di migrare altrove o tornare in patria. Solo negli anni Novanta i flussi iniziarono a essere più consistenti e interessarono anche le regioni del Centro e del Nord, dove arrivavano persone e famiglie in cerca di lavori più stabili. Quelle stesse famiglie divennero un tramite per l’immigrazione di altre persone, amici e parenti. Cominciarono a formarsi piccole comunità che negli anni sono arrivate a comprendere migliaia di persone.
I sikh sono concentrati nelle province di Brescia, Cremona e Bergamo in Lombardia; Reggio Emilia, Parma, Modena in Emilia-Romagna; Vicenza in Veneto; Latina nel Lazio. Quasi tutti hanno lo stesso cognome – Singh, come il lavoratore morto mercoledì – che vuol dire «leone», mentre le donne prendono l’appellativo Kaur, «principessa».
I dati ufficiali dicono che in provincia di Latina ci sono poco più di 10mila aziende agricole, dove lavorano 10.800 lavoratori a tempo determinato e poco meno di mille lavoratori a tempo indeterminato. Secondo le stime dei sindacati, il numero effettivo di lavoratori sarebbe molto più alto: tra i 25mila e i 30mila. La prevalenza di lavoro irregolare è dovuta al fenomeno del caporalato. Nella regione indiana del Punjab, da dove proviene la maggior parte dei lavoratori sikh, sono presenti diversi intermediari in contatto con caporali in Italia o direttamente con le aziende agricole che hanno bisogno di manodopera.
Bella Farnia, un ex residence ora abitato da una numerosa comunità di indiani (Maria Feck/laif)
Il percorso per arrivare in Italia è più o meno sempre lo stesso: gli intermediari vendono un biglietto aereo e il permesso di lavoro stagionale, spesso a prezzi così alti che i lavoratori si indebitano per acquistarlo, e sono costretti a riservare parte dello stipendio, già basso, a saldare i conti con i caporali. Esistono poi i cosiddetti “caporali dei servizi”, cioè intermediari che in cambio di soldi aiutano le persone senza permesso di soggiorno a trovare un affitto oppure le portano tutti i giorni nei campi. Il reclutamento viene fatto anche attraverso i social network e i gruppi WhatsApp.
Spesso capita che ai braccianti vengano fatti contratti irregolari, nei quali risultano 3 o 4 giornate lavorate in un mese quando in realtà sono 26 o 28. In questo caso si parla di lavoro “grigio”. In altri casi, com’è accaduto a Singh e alla moglie, le persone lavorano senza un contratto. Fino all’inizio degli anni Duemila le condizioni erano persino peggiori: la paga era tra 1,5 e 2 euro all’ora e i braccianti erano costretti a lavorare tutti i giorni, senza riposi. Il contratto provinciale dei lavoratori agricoli prevede una paga base di 9 euro lordi all’ora.
Come hanno dimostrato alcune inchieste giornalistiche, molti lavoratori per reggere ritmi massacranti sono costretti a doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici, che inibiscono la sensazione di fatica.
Braccianti indiani al lavoro nelle serre dell’Agro pontino (Maria Feck/laif)
Dal 2008 Marco Omizzolo, sociologo e giornalista, ha iniziato una lunga ricerca sul campo che è in corso tuttora. Grazie al suo lavoro sono emersi aspetti nascosti della filiera agroalimentare italiana, in particolare nell’Agro pontino, dove ha lavorato per tre mesi nei campi per vivere in prima persona lo sfruttamento. Nel 2016 ha incoraggiato e organizzato scioperi e manifestazioni a cui parteciparono migliaia di braccianti. In un’intervista al sito Confronti, Omizzolo ha spiegato che «l’interesse dei padroni non è solo economico, ma anche antropologico: la trasformazione del bracciante in un dipendente assoluto. Lo sfruttamento non ha solo a che fare con il lavorare tante ore e essere pagati poco, ma si tratta di un modello sociale complesso che, all’aspetto economico, aggiunge la subordinazione di tutta la persona alla volontà dominante dei padroni e al loro network fatto di liberi professionisti, commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro e, a volte, anche esponenti politici».
Anche grazie agli scioperi, dal 2016 aumentò la consapevolezza dei lavoratori stranieri. Ci fu una risposta collettiva a un problema ormai molto radicato e difficile da risolvere, anche a causa della violenza e delle minacce di cui si servono i caporali per controllare i lavoratori. In un anno furono presentate circa 150 denunce contro lo sfruttamento. Ma negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, le condizioni di lavoro non sono migliorate.
Sabato 22 giugno c’è stato uno sciopero del settore agricolo «contro il caporalato, contro lo sfruttamento e il lavoro nero» proclamato dalla CGIL di Latina, di Roma e di Frosinone dopo la morte di Satnam Singh.

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