Omelie 2023 di don Giorgio: VIII DOPO PENTECOSTE

23 luglio 2023: VIII DOPO PENTECOSTE
1Sam 3,1-20; Ef 3,1-12; Mt 4,18-22
I tre brani della Messa hanno un tema in comune: la vocazione.
La prima lettura parla della vocazione di Samuele, nella sua lettera agli Efesini l’apostolo Paolo parla della propria vocazione, mentre il brano del Vangelo racconta la vocazione dei primi quattro discepoli: i due fratelli Simone e Andrea, e altri due fratelli, Giacomo e Giovanni.
Vocazione è un termine ricorrente nel mondo ecclesiastico, e anche nel mondo sociale e politico, benché con sfumature diverse. Vocazione deriva dal latino “vocatio”, che significa “chiamata”. Una chiamata che avviene attraverso la voce (“vox”, in latino, da cui “vocatio”).
Ero tentato di riportare ciò che avevo scritto nell’omelia di qualche anno fa, dove spiegavo i diversi significati della parola “vocatio” nelle sue varie composizioni: pensate a: ad-vocatio, con-vocatio, in-vocatio, ecc., tutte interessanti.
Diciamo subito che nessuno dei vari significati di queste parole chiarisce del tutto il significato profondo della vocazione nella sua accezione religiosa e biblica, laddove la chiamata è frutto di una libera iniziativa di Dio e di una libera accettazione da parte dell’uomo, chiamato per l’appunto da Dio a svolgere una missione a favore dell’umanità.
Chiariamo subito. Il nostro rapporto con Dio è sempre asimmetrico. Vuol dire che c’è un’infinita sproporzione tra il bene che Dio vuole per la sua creatura e la libera iniziativa dell’essere umano, che si rivolge al suo Creatore per invocarlo o per rispondere alla sua chiamata.
Questa asimmetria o sproporzione ha un nome, ed è Grazia. Dire Grazia già ci porta lontano, direi infinitamente lontano da una società, in cui tutto è relazione d’interesse, secondo quel principio di giustizia economica, per cui io ti do ma con un contraccambio. Pensate allo Stato, che dice al cittadino: ti do un servizio, ma tu devi pagare le tasse.
Ma la cosa ancora peggiore è quando questo principio entra nel campo ecclesiastico, per non dire religioso, per non dire spirituale. E noi credenti arriviamo al punto di pensare che Dio si comporti allo stesso modo: lui ci dà, a patto però che noi diamo qualcosa a lui.
La Grazia o Gratuità divina è forse l’aspetto più misterioso, diciamo più incomprensibile secondo la nostra logica del dare per avere.
La Chiesa che cosa ha sempre predicato? Fai il bravo, e così andrai in paradiso. E anche certe soddisfazioni personali che cosa sono? Sento dire: “Oggi sono contento perché ho fatto un’opera buona”. Fare del bene può dare una certa soddisfazione anche spirituale, e ci si sente a posto, appunto “soddisfatti”.
È vero che Dio è sempre Dio, ovvero l’Infinito, e noi saremo sempre creature precarie, ovvero limitate. Ma quando ci chiama per una particolare missione, e ogni essere umano è già una chiamata divina, ovvero ad essere se stesso, forse che Dio si accontenta del minimo, o non vuole forse che tendiamo a quel meglio che punta al massimo?
Se è vero che tutto è grazia, ciò non significa forse che tutto è un invito al meglio, per quel massimo, che dovrebbe essere l’aspirazione del vero credente?
Due cose mi colpiscono, quando rileggo il primo brano di oggi: anzitutto quando l’autore sacro dice: “La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti”. Per i profeti era cosa grave quando Dio faceva mancare la sua parola, le sue visioni o manifestazioni. Intendiamola anche così: cosa grave è quando la gente non sente più il bisogno della parola di Dio, perché ai aggrappa alle parole umane, che sono niente se non attingono alla Sorgente divina. Non è vero che la società di oggi è muta: anzi, mai come oggi siamo immersi in una infinità di parole, parole che ci fanno affondare in un oceano di imbecillità. Il problema oggi è di difenderci dalle parole inutili e menzognere. Ed è qui il problema. Noi non sentiamo più la voce di Dio, che è interiore, perché siamo fuori in balìa di parole carnali che bloccano l’accesso al mondo dello Spirito.
Dicevo all’inizio che vocazione deriva dal latino “vocatio”, che deriva da “vox”, voce. La voce è quella dello Spirito, il quale, proprio perché spirito, non usa il nostro linguaggio carnale. Per ascoltarlo bisognare rientrare in noi.
La seconda cosa che mi colpisce quando risento il primo brano è quando Eli dice a Samuele: «È il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene». Sta qui il segreto di ogni vocazione: far sì che Dio faccia ciò che a lui pare bene, ovvero fare la volontà di Dio, che è il nostro bene, nel senso che Egli vuole che noi partecipiamo al Bene Sommo. Quando diciamo che Dio ci ama vuol dire che Dio ama Se stesso in noi, vuole il suo Bene per noi. Perche Dio possa amarci così, ovvero possa amare Se stesso in noi, ossia volere il suo Bene per noi, noi dobbiamo fare spazio a Lui dentro di noi.
Passiamo al brano tolto dal Vangelo secondo Luca, dove si parla della chiamata di quattro pescatori che lasciano tutto per seguire Gesù. Poche righe, ma essenziali: Gesù chiama, e la risposta è immediata: lasciano tutto. Non è di questo che vorrei parlare, ma delle parole di Gesù: “Vi farò pescatori di uomini”. Parole diventate famose, ma che andrebbero spiegate: non è facile capirne il senso inteso da Gesù, visto che “pescare” di per sé significa togliere i pesci dal lago o dal mare, per farli morire.
Già il profeta Abacuc affermava che Dio «tratta gli uomini come i pesci del mare», ed ecco ora Gesù che chiama alcuni ad essere “pescatori di uomini”, come fossero pesci del mare, per condurli nel mare infinito di Dio.
Sarebbe interessante, ma in pochi minuti mi è impossibile fermarmi sul significato che la parola “mare” aveva presso le antiche culture del vicino Oriente: era simbolo del caos primordiale, della morte, del nulla e del male, luogo tra l’altro popolato da mostri dai nomi più impressionanti, di solito feroci animali: Leviatan, Rahab, Behemot…
Non mi dilungo citando tutti gli eventi legati al mare, vorrei solo citare il Salmo 18,17.20, dove si immagina che Dio salvi Davide dai suoi nemici: «Stese la mano dall’alto, mi afferrò, mi sollevò dalle grandi acque, mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene».
E allora c’è il mare visto come sede del maligno, e c’è il mare visto come oceano infinito di Dio.
Gli apostoli dovranno pescare, cioè tirare fuori, estrarre gli uomini dal mare come sede del male o della morte, per immergerli nelle acque della vita.
Per pescare i pesci ci vogliono esperienza e anche una certa arte (saper gettare le reti, anche nel momento opportuno e nel posto giusto; per pescare gli uomini dal male l’esperienza è quella di chi vive l’unione intima con Dio, e l’arte è quella di saper trasmettere o comunicare alla gente quei valori del spirito, indicando la strada: la strada che porta nel mondo interiore.

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