PER MELONI E I SUOI FAMILIARI
LE ISTITUZIONI SONO UN AFFARE DI FAMIGLIA
“Il familismo consiste nel pensare la gestione pubblica come un’appendice della propria parte, anzi la casa nella quale la propria parte trova comoda sistemazione e vantaggio. A considerare le vicende governative di questi due anni, sembra che un pezzo di paese abbia girato le spalle alla modernità e ambisca a ristabilire la priorità della famiglia”
di Nadia Urbinati (politologa)
La famiglia viene prima di tutto: una massima non necessariamente morale che fa dei consanguinei il nostro primo prossimo, al cui bene orientare le nostre azioni.
Questo spiega perché la famiglia entra in rotta di collisione con l’imparzialità, tanto da indurre il primo teorico della giustizia, Platone, a ritenere la famiglia l’ostacolo maggiore insieme alla proprietà al perseguimento del bene generale.
Pur senza giungere a questa conclusione radicale, il primo teorico dello stato moderno, Thomas Hobbes, volle cautelare le istituzioni dalla mescolanza con gli affari e i sentimenti personali, famigliari o religiosi.
Lo fece con l’artificio della rappresentanza, per cui chi opera nelle istituzioni indossa la “maschera” della sovranità che impone l’uso pubblico del giudizio e, così facendo, protegge la pace civile.
Un argomento che rivela assai bene da dove provenga l’ostilità secolare alle “fazioni” e alle “parti” che, come il familismo, sono l’alter della giustizia come imparzialità.
Torsione familistica
Il familismo consiste nel pensare la gestione pubblica come un’appendice della propria parte, anzi la casa nella quale la propria parte trova comoda sistemazione e vantaggio.
A considerare le vicende governative di questi due anni sembra che un pezzo di paese abbia girato le spalle alla modernità e ambisca a ristabilire la priorità della famiglia (di consanguinei e militanti di partito). Prima vengono questi legami primari, poi viene il rispetto delle regole e della legge.
Anzi, regole e legge sono esplicitamente contestate o raggirate se e quando mettono in discussione la fedeltà a quei legami; fedeltà, si badi bene, proclamata non da ordinari cittadini, ma da cittadini eletti o scelti per occuparsi delle istituzioni dello stato.
Gli uomini e le donne di questo governo abitano i palazzi della Repubblica con la stessa ineticità con la quale un padrone abita la sua azienda.
Con la differenza che il padrone ha tutto il diritto di essere utilitarista e familista poiché il calcolo del suo interesse guida legittimamente i suoi giudizi e le sue scelte, mentre questo non si può ammettere con chi è incaricato a svolgere funzioni pubbliche.
Una delle conseguenze del familismo, di sangue o di parte, consiste nel considerare la fedeltà il valore guida. La legge non dà sufficiente affidamento perché sorretta dal principio di imparzialità che, come dice la parola stessa, contrasta con la fedeltà a una parte.
Un esempio di questa torsione familistica lo si è visto recentemente, quando la presidente del Consiglio ha fatto intendere di non fidarsi delle forze dell’ordine di stanza a palazzo Chigi, preferendo la protezione dei suoi fedeli, delle sue guardie pretoriane.
COLPEVOLE È LA LEGGE
La fedeltà genera naturalmente comportamenti volti alla segretezza (e timori di complotti).
Poco si deve sapere di quel che avviene nel palazzo; e sono gli attori a decidere in quale forma parlare alla cittadinanza, se privata (i podcast) o pubblica (le rare e ben addomesticate conferenze stampa). Il pubblico è vissuto come un rompiscatole e trattato di conseguenza: la stampa umiliata e le sue prerogative di indagine limitate.
Affari di famiglia sono anche i comportamenti dei ministri. Il pm di Palermo ha chiesto la condanna di Matteo Salvini a sei anni di carcere per aver impedito, quando era ministro dell’Interno nel primo governo Conte, lo sbarco a Lampedusa di 147 migranti, con l’accusa di averli sequestrati a bordo della nave spagnola Open Arms, che per questo ha esposto denuncia. Salvini (col «totale» sostegno di Giorgia Meloni) ha iniziato un attacco propagandistico senza precedenti alla magistratura, sostenendo che egli rischia la condanna per aver fatto il suo dovere.
Colpevole è la legge e chi la applica, non lui che ha difeso i confini! Nel 1958 uscì una ricerca del sociologo americano Edward C. Banfield tradotta in italiano col titolo “Le basi morali di una società arretrata”.
Il libro fece molto discutere, e fu non senza ragione criticato di giudicare con mente paternalistica le aree “arretrate” di diverse regioni dell’Europa meridionale, e dell’Italia in particolare.
Banfield denominò «familismo amorale» un comportamento della gestione del bene pubblico modellata sui valori del clan, arcaici e privati.
Tra gli aspetti di questo familismo ve ne sono alcuni che calzano bene con il comportamento dell’attuale governo: coloro che, persone o istituzioni, affermano di agire nell’interesse pubblico non sono ritenuti fededegni, ma anzi nemici dell’Italia (tra questi i giudici, i giornalisti curiosi e le opposizioni incalzanti).
Solo chi si occupa di governare deve avere voce in capitolo, tutti gli altri devono tacere (i cittadini sono trattati come sudditi); si giustifica la trasgressione della legge se e quando questa non si incontra con l’interesse della parte che governa; il disinteresse è malvisto e comunque non ha la forza di resistere al principio della fedeltà; la corruzione è prevedibile poiché il bene della propria parte viene prima, costi quel che costi.
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