Omelie 2016 di don Giorgio: PRIMA DOPO LA DEDICAZIONE

23 ottobre 2016: PRIMA DOPO LA DEDICAZIONE
At 13,1-5a; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20
Il brano di Matteo
Il terzo brano della Messa è la conclusione del Vangelo di Matteo. Poche righe, ma ricche di aspetti interessanti, soprattutto la frase finale: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Ma andiamo con ordine.
Undici, e increduli
Cristo è già risorto e, prima di ascendere in cielo, vuole riunire attorno a sé per l’ultima volta i suoi discepoli. Sono undici, e non dodici, per di più increduli. Già questo fa capire quanto già ai suoi inizi ciò che sarà la futura Chiesa porta i segni del tradimento e della infedeltà. Cristo, prima di andarsene, non pretende una chiesa perfetta: è una chiesa monca. Ed è qui la sfida del Risorto: una sfida che percorrerà i duemila anni della storia del cristianesimo, fino ad oggi. I profeti e i mistici, lungo i secoli, non pretenderanno mai una Chiesa del tutto perfetta, ma una Chiesa coscia della sua imperfezione, e perciò tendente al meglio, e il meglio non va cercato nella strutture, ma nella interiorità dell’essere umano. Ecco perché la prima cosa che Cristo ha fatto è farci dono dello Spirito santo.
Discepoli
Inoltre, Matteo parla di “discepoli”, e non di apostoli, pur riferendosi agli undici facenti capo al gruppo apostolico. Sì, discepoli, perché la parola “apostolo, che significa inviato, presuppone che uno sappia già ciò che deve fare. Ma, prima di andare a insegnare agli altri, bisogna fare un apprendistato: quello del discepolato. Non si è mai maestri, e Cristo ci ha detto apertamente di non farci chiamare maestri, e tanto meno dottori o laureati. Si è sempre discepoli o scolari: per noi credenti, non finisce mai la scuola. Si è discepoli, e tali si rimane per tutta la vita.
“Andate…”
Essere discepoli non significa stare tutto il giorno sui libri o frequentare solo le conferenze o riunioni, o restare nel gruppo a farsi trascinare. Bisogna “andare” fuori: ecco l’invito di Cristo agli undici e a tutti noi, preti o laici. Non significa tanto percorrere luoghi geografici, ma ogni luogo è buono, purché ci sia da imparare e da testimoniare. Oggi si usa il termine “periferie”, ovvero quelle zone che ci circondano, ma che preferiamo non visitare, perché “lontane” dalle nostre comodità o dai nostri pregiudizi culturali o religiosi. Ma perché prendere sempre le parole nel loro aspetto esteriore, quando dimentichiamo che le vere periferie sono quelle dell’anima? Dentro di noi, ci sono zone inesplorate, che lasciamo inesplorate perché ci fanno paura: potrebbero rivoltarci l’anima. Se noi affrontiamo le zone periferiche nel loro aspetto fisico e sociale e dovessimo lasciare inesplorate le zone periferiche dell’anima, non risolveremmo nulla: il nostro impegno sarà solo apparente, di moda, senza effetto. Quando apriamo il nostro essere a tutte le voci dello spirito interiore, cadranno automaticamente pregiudizi razziali, culturali, socio-politici e religiosi. Non ci sarà più il centro o la periferia. Davanti a noi ci sarà solo l’essere umano.
“Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni…”
Qualcuno magari si aspettava che Gesù dicesse: “Io sarò con voi…”. No, Cristo risorto usa il presente: “Io sono!”. Non vorrei ripetere le solite cose dicendo che “Io sono” è la qualifica stessa di Dio. Dio non ha né il passato né il futuro: è solo il Presente. L’essere divino non ha tempo: così anche il nostro essere. I Mistici erano azzardati nelle loro intuizioni e non dogmatici come i teologi: affermavano che anche “noi siamo”, ciascuno di noi può dire: “Io sono!”. E la ragione è profonda: sta nel nostro stesso essere che è divino. Ma a fare da ostacolo è l’io, o ego, che si pone per traverso, cercando di separare il nostro essere in nome dell’avere, che è l’opposto, il vero nemico dell’essere.
Quando Cristo risorto promette: “Io sono con voi tutti i giorni…” vuole ricordarci la sua presenza mistica, interiore, sempre pronta a risvegliare il nostro essere dal suo sonno, intontito dall’avere. Dunque, la presenza di Cristo non è tanto all’esterno di noi, all’esterno dell’anima della Chiesa, ma nel suo interno.
Era la comunità a prendere decisioni
Vorrei ora dire qualcosa sul primo brano della Messa. Anche qui si parla di una chiamata e di una missione: Paolo e Barnaba, con altri, vengono scelti per essere poi inviati in luoghi lontani, in mezzo ai pagani, ad annunciare la Parola di Dio.
Ma va detto che agli inizi non c’era ancora ciò che poi verrà chiamata la gerarchia, nei suoi vari comandi piramidali: papa, vescovi, preti, diaconi e laici. La sovranità, di diritto, risiedeva nella comunità in quanto tale: era la comunità di base, e non verticistica, che si amministrava, che eleggeva i suoi rappresentanti, che trattava con le altre comunità, che decideva nelle cose della disciplina e del culto, che giudicava i suoi membri. Certo, c’erano già i carismatici, i profeti, i maestri, i presbiteri, gli episcopi, ovvero gli ispettori o amministratori, ma era la comunità nel suo insieme che decideva. Questo, ripeto, avveniva agli inizi del cristianesimo. Poi, con l’andare del tempo, si costituirà la gerarchia piramidale che prenderà in mano ogni potere di decisione.
Qualcuno potrebbe pensare: certo, sarebbe bello se tornassimo ai primi tempi della Chiesa, quando la comunità contava, nel suo insieme. Oggi, tutto si decide dall’alto. C’è la scelta di un nuovo vescovo? Chi lo sceglie? Il papa. Si finge di chiedere prima dei consigli o di fare qualche inchiesta, ma tutto viene dall’alto. E poi succede che le nomine non sempre corrispondano alle esigenze reali di una diocesi. Ma soprattutto le nomine vengono dall’alto anche per la scelta dei parroci o dei preti collaboratori. Tutto dall’alto. E tutti sappiamo che talora gli spostamenti dei preti da una parrocchia all’altra sono una scelta obbligata che poi trascina le altre scelte.
La Chiesa purtroppo è ancora monarchica: il problema è che tutto si giustifica in nome di chissà quale motivazione biblica, quando in realtà è tutto da dimostrare, come è tutto da dimostrare che la gerarchia debba essere per forza composta di maschi.
Arriverà il momento in cui la Chiesa sarà costretta a cambiare fisionomia, e allora qualcosa cambierà, anche se poi sorgeranno altri problemi, perché non è cambiando la struttura che le cose cambieranno. Un teologo protestante, Harnack, ha definito le prime comunità cristiane “democrazie pneumatiche” (da “pneuma” che significa spirito). Sta qui il segreto: restituire alla Chiesa o, meglio alle chiese, la loro spiritualità, quella interiore.

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