Archiviata l’inchiesta su Carola. “Aveva il dovere di sbarcare”

da AVVENIRE
23 dicembre 2021
Caso Rackete.

Archiviata l’inchiesta su Carola.

“Aveva il dovere di sbarcare”

Nello Scavo
La comandante della Sea Watch era stata arrestata a Lampedusa. Critiche dei giudici anche ai decreti sicurezza di Salvini
È stata definitivamente archiviata l’accusa contro Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, che su ordine della procura di Agrigento il 29 giugno 2019 era stata arrestata dopo avere violato il divieto di sbarco dei naufraghi soccorsi nel Canale di Sicilia. Nel corso delle operazioni di attracco la nave aveva urtato una vedetta della Guardia di finanza.
Ora, proprio su richiesta di quei magistrati (il procuratore aggiunto Salvatore Vella e il pubblico ministero Cecilia Baravelli) che ne avevano chiesto e ottenuto l’arresto, il giudice per le indagini preliminari di Agrigento ha archiviato il caso non ravvisando elementi di colpevolezza contro Rackete, difesa dagli avvocati Leonardo Marino e Alessandro Gamberini. Anzi ritenendo che lo sbarco fose necessario date le condizioni a bordo.
In particolare il gip Micaela Raimondo, nel provvedimento di archiviazione scrive che “come statuito dalla Suprema corte nel confermare l’ordinanza di non convalida di arresto (la Cassazione aveva infatti invalidato l’iniziale provvedimento di fermo del gip, ndr) e di rigetto di applicazione di misura cautelare”, non può in alcun modo “essere qualificato come luogo sicuro” una nave in mare che “oltre ad essere in balia degli eventi metereologici non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”. Su questo presupposto si basava infatti il divieto di sbarco, che secondo l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini (Lega) non doveva essere consentito anche perché i migranti erano al sicuro sulla Sea Watch e la loro presenza costituiva un potenziale pericolo per il nostro Paese. L’ordine che venne controfirmato senza esitazione dai due ministri pentastellati Danilo Toninelli (Infrastrutture) e Elisabetta Trenta (Difesa).
All’accusa di rifiuto di obbedienza a nave da guerra si era aggiunta quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per avere fatto entrare sul territorio italiano 53 immigrati. “Ha agito – scrive il gip – nell’adempimento del dovere perchè non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli”. Il giudice cita un rapporto dell’Alto commissario Onu in Libia nel quale si sottolinea “che migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in Libia versano in condizione di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture”.
“Rilevato, in definitiva, che la condotta di Carola Rackete – si legge ancora nel provvedimento – consistente nel condurre i naufraghi recuperati in acque internazionali in un porto italiano a fronte di un espresso divieto di ingresso nelle acque territoriali ed in assenza di autorizzazione, risulta scriminata dalla causa di giustificazione”. In altre parole Rackete, viste la situazione a bordo e le condizioni in cui si trovano i migranti al momento del soccorso e poi durante la navigazione, aveva il dovere di sbarcarli. “Il provvedimento interministeriale adottato il 15 giugno 2019, nel vietare l’ingresso, il transito o la sosta dell’imbarcazione nel mare territoriale italiano, non faceva riferimento – spiega il gip – a specifiche ed individualizzanti situazioni di ordine e sicurezza pubblica che avrebbero potuto far ritenere pericoloso lo sbarco in Italia dei naufraghi”.
Nonostante la genericità del divieto le forze di polizia e la magistratura agrigentine hanno continuato a investigare per individuare tra i naufraghi eventuali autori di reati commessi in precedenza in altri Paesi. Tanto è vero che grazie al lavoro della squadra mobile della questura di Agrigento fu chiesta la convalida del fermo di 3 cittadini extracomunitari salvati dalla Sea Watch, accusati poi da altri migranti arrivati in Italia in epoca precedente di reati gravi gravi quali l’associazione a delinquere, tortura, sequestro di persona a scopo di estorsione. Si trattava infatti di ex guardiani (di diverse nazionalità) di un campo di prigionia per migranti “gestito dal famigerato trafficante libico Osama al Khuni Ibrahim”, scrive la procura. Osama è il cugino di Bija, il trafficante-guardacoste oggetto di sanzioni Onu. Anche Osama nelle settimane scorse ha subito le sanzioni del Consiglio di sicurezza e un alert dell’Interpol. A tutti gli effetti Osama al Khuni è un funzionario pubblico del governo di Tripoli, ricevendo regolarmente lo stipendio da direttore del centro di detenzione sotto il coordinamento del Dipartimento contro l’immigrazione illegale.
Struttura che per la cattura in mare dei migranti e il loro trasferimento nei campi di prigionia è direttamente finanziata ed equipaggiata soprattutto dall’Italia.
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