Omelie 2019 di don Giorgio: PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA

24 febbraio 2019: PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Dn 9,15-19; 1Tm 1,12-17; Mc 2,13-17
Giornata della Divina clemenza
Se leggete attentamente il foglietto della Messa di oggi, troverete come sottotitolo queste parole: domenica “della divina clemenza”, e se leggete attentamente i brani della Messa scoprirete che c’è una parola in comune: “misericordia”.
E allora, ecco la domanda: che rapporto c’è tra clemenza e misericordia? Sono la stessa cosa? Per lo meno c’è una certa attinenza, e quale?
Anche qui partiamo dal significato etimologico.
Per la parola “clemenza”, qualsiasi dizionario riporta diversi sinonimi, tra cui: comprensione, indulgenza, pietà, tolleranza. Quando sento la parola “clemente” penso anche al clima temperato, alla stagione non rigida. Ecco, proprio la parola “non rigida” mi dà qualche spunto per riflettere.
Sembra quasi che essere clemente significhi: chiudere un occhio, non essere troppo duro nei provvedimenti, ecc. Ma a che pro? Ecco la domanda. E che significa poi che Dio sia clemente? In che rapporto stanno tra loro clemenza e giustizia? La giustizia può essere clemente? In che rapporto sta la clemenza con la legge?
Non sembra che la clemenza sia una virtù che dica molto della essenza divina. Dio non è essenzialmente una realtà che si ritrae dall’essere ciò che è. E allora che cos’è l’essenza divina?
È vero quanto dicevano i grandi Mistici medievali, ovvero che di Dio non possiamo dire nulla di positivo, ovvero di ciò che Egli è, perché è del tutto inconoscibile in quanto essere Supremo; ma possiamo dire di Lui negativamente, ovvero di ciò che Egli non è. Tuttavia, se dobbiamo scegliere un termine, dobbiamo scegliere la parola migliore.
Clemenza e… misericordia
Soffermiamoci allora sulla parola “misericordia”, che etimologicamente significa: “avere a cuore i miseri”, averli nel cuore, prendere a cuore le situazioni, le miserie dei più sfortunati. Qualcuno traduce misericordia così: avere il cuore in mano per i miseri.
Già qui potete capire la differenza, per me notevole, tra clemenza e misericordia. Clemenza è quasi un ritirarsi dall’essere umano per non infliggergli una pena eccessiva, invece misericordia è tendere o protendersi verso qualcuno che ha bisogno, che non necessariamente è colpevole.
In altre parole, nella clemenza non vedo quel dono d’amore, che è invece presente nella misericordia.
Dobbiamo, dunque, stare attenti, evitando di confondere clemenza con misericordia. Per non cadere in tale confusione, bisogna scoprire tutta la pienezza del significato presente nella misericordia.
Misericordia e precariato
Se, come dicevo, misericordia significa “prendersi a cuore i miseri”, il misericordioso non è tanto colui che si prende pietà di chi ha commesso uno sbaglio o, come diciamo noi cristiani, un peccato (peccare significa mancare, venir mano a una legge).
Il misericordioso ha a cuore chi si trova in una certa situazione di disagio, di precarietà che non dipende da qualche responsabilità soggettiva.
Non sto dicendo, però, che i peccatori debbano essere abbandonati al loro destino. Come dimenticare ciò che ha detto e ha fatto Gesù Cristo a proposito dei peccatori?
Ma, attenzione. C’è un precariato di fondo che è nella stessa natura umana. Noi non siamo in uno stato di peccato in quanto tale, ma in uno stato di dipendenza nel nostro essere. Dipendenza da che cosa?
Possiamo dipendere anche da un mondo di cose che, invece di aiutarci a uscire dal nostro stato di precarietà diciamo naturale, ci lega a qualcosa che ci rende ancor più precari.
Il nostro essere precario ci spinge all’Unico essere necessario, che è Dio, nella sua purità infinitamente spirituale. Pensate che la parola “precario” deriva dal latino “prex”, che significa prece, preghiera. Noi siamo per natura in atteggiamento continuo di preghiera, siamo oranti per natura, siamo in un rapporto essenziale con Dio.
L’essere umano aumenta in precarietà, nella misura in cui lo si lascia solo ad affrontare la complessa realtà esistenziale, tanto più che le perversioni umane possono renderlo infelice. Più che le cose, dunque, è la cattiveria umana ad aggravare la precarietà degli esseri umani.
C’è, dunque, una precarietà oggettiva, che è nel nostro essere umano, e c’è una precarietà soggettiva, che dipende dalla barbarie di esseri spregevoli. E quest’altra precarietà “aggiunta” rende l’essere umano in balìa di forze brute e cieche.
Pensate ad un affamato prima sfruttato, e perciò ridotto a un misero senza cibo, e poi lasciato morire, mentre cerca di attraversare il mare per raggiungere un sogno di felicità.
Ed è qui che nasce l’obbligo, il dovere, il nostro impegno di credenti nell’Umanità di prenderci a cuore – ecco la misericordia – di questo mondo di miserie umane.
Ma la misericordia in sé è il cuore di un essere interiore che ha scoperto quel Bene Sommo, quell’Unum necessarium, in cui tutti gli esseri umani, precari, trovano pace e fratellanza.
Non dico che la clemenza non provenga dal cuore dell’essere umano, dico solo che la misericordia “è” il cuore dell’essere umano, e lo è semplicemente perché siamo tutti uni nell’Uno divino, perciò siamo tutti fratelli di quella grande casa che è l’Umanità.
L’essenza della misericordia
Infine, la misericordia non si esprime tanto con qualche gesto di bontà o di accoglienza, non è un fingersi pietosi in qualche ricorrenza speciale o in qualche emergenza umanitaria.
La misericordia è anzitutto uno stato spirituale, perciò di interiorità, da cui nascono poi le nostre azioni, che assumono anche aspetti diversi, tenendo conto di tante realtà, talora complesse.
Ciò che è del tutto incomprensibile e inaccettabile è quello stato interiore di chiusura o quel sentimento di grettezza e talora di odio verso le miserie umane.
Se ragionassimo un po’! Siamo tutti per natura precari, perché farci ulteriormente del male, togliendo a ciascuno il suo diritto ad un po’ di felicità, già su questa terra?

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