La conversione nel Mito della caverna di Platone

L’EDITORIALE
di don Giorgio

La conversione

nel Mito della caverna di Platone

Non so quanti, senz’altro gli studenti liceali che hanno frequentato il classico, avranno sentito parlare del “Mito della Caverna” di Platone.
Bisognerebbe anzitutto spiegare perché Platone si serviva dei miti. In breve, possiamo dire che per Platone il mito è uno strumento di cui si serve il filosofo per comunicare le proprie dottrine in maniera più accessibile ed intuitiva; attraverso il mito, Platone può trattare di realtà che vanno oltre i limiti dell’indagine razionale. Ecco perché Platone fa un frequente ricorso ai miti proprio per spiegare in maniera più diretta e comprensibile le sue dottrine, ma anche per illustrare dei concetti che difficilmente troverebbero un’adeguata espressione in un linguaggio puramente razionale.
In questo articolo prendiamo in considerazione il mito appunto della caverna: racconto che si trova nel VII libro de La Repubblica ed è tra i più belli e significativi scritti da Platone. Il tema del dialogo è la natura della giustizia. Per Platone occuparsi della giustizia vuol dire essenzialmente occuparsi di politica e, dunque, ne La Repubblica si discute di quale sia la migliore forma di organizzazione politica, di chi debba governare (i filosofi) e in virtù di quale sapere.
L’allegoria della Caverna trova posto nel dialogo nel momento in cui Platone spiega come si diventa filosofi, cioè come si acquisisce il sapere necessario per ben governare la città, liberandosi dalle opinioni e accedendo alla conoscenza della realtà.
Platone usa due termini per indicare la conoscenza: “doxa” e “epistème”. C’è una conoscenza sensibile, che si acquisisce attraverso i sensi e si rivolge al mondo del divenire, e c’è una conoscenza intelligibile che riguarda le idee, cioè gli elementi immutabili e certi del mondo. Il primo tipo di conoscenza è la doxa, l’opinione, incerta e variabile; il secondo invece è l’epistème, la scienza, certa e stabile. Nel Mito della caverna è raccontato il modo in cui il filosofo arriva alla conoscenza delle idee.
La trama. Platone fa parlare Socrate, il quale invita Glaucone a immaginare la scena. Ci sono delle persone che vivono fin dall’infanzia rinchiuse in una caverna, incatenate così strettamente da non poter neanche girare la testa. La caverna ha un’apertura che dà sull’esterno, ma la gente che ci vive ha lo sguardo rivolto verso la parete in fondo, e non vede l’uscita. Alle spalle dei prigionieri, in alto e lontano da loro, c’è un fuoco acceso che fa luce. Fra il fuoco e i prigionieri c’è un muro, lungo e basso, come quelli che costeggiano le strade di campagna. Dietro al muro, altre persone tengono in mano degli oggetti (statuette di animali e di uomini e altri oggetti di ogni genere) e li fanno sporgere al di sopra del muro. La luce del fuoco proietta dunque le ombre degli oggetti sulla parete di fronte ai prigionieri. Quelle ombre sono le uniche cose che i prigionieri abbiano mai visto, costretti come sono a star lì fermi, senza potersi voltare. Dunque, afferma Socrate, quelle persone credono che le ombre siano oggetti reali. A questo punto, Glaucone interrompe Socrate e commenta: «strana immagine descrivi […] e strani prigionieri». In effetti, è un’immagine insolita, non conosciamo casi di persone che abbiano vissuto incatenate fin dalla nascita, costrette in fondo a una caverna. Sorprendentemente, Socrate risponde che i prigionieri sono «simili a noi». Anche noi abbiamo conosciuto solo ombre, proiezioni degli oggetti reali, perché gli oggetti veramente reali, le idee, non sono conosciuti come tali da tutti. Ci vuole una buona educazione filosofica per uscire dalla caverna dell’opinione e accedere alla conoscenza e alla scienza. Il racconto va avanti. Socrate dice ora a Glaucone di immaginare che uno di questi prigionieri sia improvvisamente liberato dalle catene, costretto ad alzarsi, girarsi e muoversi verso l’entrata della caverna. Dopo essere stato legato al buio tutta la vita, all’inizio sarebbe accecato dalla luce e gli farebbero male gli occhi. Vorrebbe tornare indietro e non crederebbe a nulla di ciò che vede. Avrebbe bisogno di tempo per abituarsi – dice Socrate. Solo piano piano riuscirebbe a vedere qualcosa. Inizialmente, uscito dalla caverna, potrebbe soffermarsi a guardare i riflessi delle cose nell’acqua. Solo dopo, riuscirebbe a vedere le cose stesse. All’inizio gli sarebbe più facile guardare il cielo e le stelle di notte, piuttosto che le cose illuminate dalla luce del giorno. Infine, abituatosi alla luce, arriverebbe a guardare direttamente il sole. Il prigioniero liberato, finalmente in grado di vedere il sole, sarebbe felice della sua nuova condizione e compiangerebbe chi è rimasto nella caverna. Ora, dice Socrate a Glaucone, prova a immaginare cosa accadrebbe se il prigioniero liberato tornasse nella caverna. Come prima aveva avuto bisogno di tempo per abituarsi alla luce, così ora non riuscirebbe subito a vedere nell’oscurità. Gli altri lo troverebbero ridicolo, goffo, e non gli crederebbero quand’egli dicesse loro che vale la pena di uscire, di vedere la luce del sole, di conoscere il mondo fuori dalla caverna. Nessuno gli crederebbe, lo considererebbero un impostore. Addirittura, se lui provasse a liberarli, a portarli fuori, conclude Socrate, lo ucciderebbero per impedirglielo.
Dopo aver concluso il proprio racconto, Socrate spiega a Glaucone il significato dell’immagine che gli ha narrato.
Le ombre, che i prigionieri vedono riflesse sul muro della caverna, stanno al fuoco come gli oggetti reali del mondo esterno stanno al sole. Il fuoco, come il sole, è ciò che rende possibile la visione, e quindi la conoscenza.
Il sole è l’idea del buono, o del bene. Non una certa cosa buona, o un certo bene particolare, ma il buono stesso. Il bene, secondo Platone, è la condizione di possibilità della conoscenza: come senza il sole nulla sarebbe visibile, così senza il bene nulla sarebbe conoscibile.
Il prigioniero liberato dalle catene, che esce alla luce del sole, è il filosofo, che, grazie all’educazione che l’ha reso tale, può accedere alla conoscenza delle idee, fino a conoscere il bene. La fuoriuscita del prigioniero dalla caverna è «l’ascesa dell’anima verso il luogo del noetico», cioè verso la forma più alta del pensiero.
È importante notare che, secondo Platone, il processo di acquisizione della conoscenza ha una natura qualitativa, non quantitativa. Il filosofo che esce dalla caverna non aumenta le proprie conoscenze, bensì le rende più chiare, più vicine alla realtà. Se prima conosceva solo le ombre delle cose, piano piano impara a conoscere le cose reali, e poi le idee (che, secondo Platone, sono ciò che di più reale ci sia).
Un altro aspetto su cui bisogna soffermarsi è lo statuto etico del processo di conoscenza. Acquisire conoscenza vera, secondo l’allegoria della caverna, è una liberazione. Conoscere solo le ombre, cioè solo le opinioni, è come essere prigionieri. Il filosofo, conoscendo la realtà, le idee e il bene, conquista la libertà e la felicità.
L’allegoria della caverna presenta alcuni aspetti di particolare violenza e brutalità. Si apre con l’immagine di uomini incatenati così strettamente da non poter nemmeno muovere la testa, legati fin dall’infanzia nell’oscurità di una caverna sotterranea. Il filosofo che esce alla luce del sole, poi, non lo fa di sua spontanea volontà, liberandosi con coraggio dalle catene. Invece, viene obbligato, trascinato a forza fuori dalla caverna. All’inizio soffre, perché il sole lo acceca e non vede alcunché, e perché è incredulo di fronte agli oggetti del mondo. Infine, se decide di tornare nella caverna, verrà probabilmente ucciso dai suoi antichi compagni.
Il percorso della conoscenza non è indolore e non è immediato. Richiede tempo e richiede una guida. Nessuno decide da sé di uscire dalla caverna. Il filosofo deve essere educato alla conoscenza. Il mito della caverna, infatti, è un’allegoria dell’educazione dei filosofi, alla quale Socrate si dedicava con le sue domande e il suo infaticabile dialogare: «è dunque compito nostro […] di costringere le nature migliori a indirizzarsi verso la conoscenza che prima abbiamo definito la più alta, a vedere cioè il buono e ad ascendere per quell’ascesa» dice a Glaucone.
L’obiettivo dell’educazione dei filosofi è farne dei buoni governanti. Ma non è detto che i filosofi vogliano governare e occuparsi della polis. Per mantenersi sul piano allegorico: non è detto che una volta uscito dalla caverna, l’ex prigioniero voglia tornare a raccontare ciò che ha visto a chi è rimasto incatenato. Anzi, è assai probabile che voglia rimanere fuori, alla luce del sole, a godersi la sua felicità. In quel caso, dice Socrate, bisognerà costringerlo. Fuor d’allegoria, bisognerà costringere i filosofi a governare, spiegando loro che è proprio per questo che sono stati educati.
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona, Padre della Chiesa, sul cui pensiero si fonda gran parte della teologia cristiana, parlando del primato della luce, richiama apertamente (Soliloquia) il mito della caverna di Platone.
Per entrambi la luce del sole intelligibile ha il carattere della trascendentalità e solo attraverso una conversione dello sguardo, nell’interiorità per il primo, verso la luce fuori dalla caverna per il secondo, è possibile averne conoscenza.
Per entrambi l’esistenza umana non si svolge nella cieca tenebra, ma partecipa sempre in qualche modo della luce, anche quando si è nell’errore. Per Agostino l’uomo che vive e si muove è già nella luce; per Platone perfino i prigionieri nella caverna beneficiano della luce di quel fuoco che è posto alle loro spalle, la caverna è sempre aperta alla luce. D’altro canto, se gli uomini non fossero fondati nella luce, non potrebbero nemmeno girare la testa per compiere il cammino di ricerca verso quella luce che fa vedere tutto. Ma il nostro mondo non è quello della pura luce, ma quello del compromesso, della penombra.
C’è però una differenza fondamentale tra il Vescovo d’Ippona e il filosofo ateniese. Per il primo, la luce totalizzante può essere solo intuita e mai vista in sé. Siamo nella luce, nati per la luce, ma di lei possiamo ricevere solo un riflesso; in quanto creature finite, non possiamo comprendere la Luce eterna, incorruttibile e infinita di Dio. Invece, per Platone il percorso di ascesi si conclude con la visione penetrante del Sole intelligibile, con la comprensione vera e propria del Sole che è un vedere dentro l’Idea. L’uomo platonico può arrivare alla visione della condizione di possibilità di ogni vedere. Una volta giunto alla conoscenza del Bene non vi rinuncerà mai più, nemmeno quando, ritornando nella caverna, cioè nel mondo sensibile, a rischio della vita, i suoi occhi dovranno riabituarsi al buio. Invece, in Agostino l’intuizione della luce non protegge l’uomo da eventuali ricadute. Questo perché non si ha una comprensione totale della luce.
24 febbraio 2024
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