Il presidente del Partito popolare europeo Manfred Weber: «La maggioranza dei tedeschi ha votato per l’Europa»

Il leader della Cdu-Csu Friedrich Merz (al centro della foto) al quartier generale del partito a Berlino (AP)
dal Corriere della Sera
23 febbraio 2025

Il presidente del Partito popolare europeo

Manfred Weber: 

«La maggioranza dei tedeschi

ha votato per l’Europa»

di Francesca Basso
Il presidente del Ppe a Bruxelles: «Ora si torna alla stabilità. Mandato chiaro per politiche di centrodestra»
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
DA BRUXELLES – «Il voto di domenica è chiaro: i tedeschi vogliono vedere un’Unione europea forte e i partiti che sostengono l’Ue sono la stragrande maggioranza». Manfred Weber, bavarese, esponente della Csu, è il presidente del Partito popolare europeo e capogruppo del Ppe a Strasburgo.
Adesso cosa succede?
«La Germania ha bisogno di stabilità il più rapidamente possibile. Il resto del mondo, in particolare Trump, non sta ad aspettare le interminabili trattative di coalizione in Germania. La Cdu e la Csu hanno avuto un chiaro sostegno per formare il governo e questo risultato è un chiaro mandato per Friedrich Merz: è lui il vincitore delle elezioni per guidare il governo e riportare nella cancelleria la cooperazione e lo spirito europei».
Che coalizione sarà?
«È troppo presto per dirlo, perché la grande incertezza è su chi alla fine entrerà nel Bundestag. Ma una cosa è chiara: dobbiamo lavorare con coloro che sono pronti per un cambiamento politico perché l’approccio ideologico di sinistra è stato bocciato. Il governo Scholz è già finito dopo appena tre anni. Gli elettori tedeschi hanno dato un chiaro mandato per tornare a una politica di centrodestra in Germania e questo deve essere il principio guida».
L’alleanza sarà con l’Spd?
«I socialisti hanno registrato il peggiore risultato elettorale della storia da quando esistono i socialdemocratici in Germania e questo deve essere un campanello d’allarme per loro: devono tornare a un centro pragmatico. In passato i socialisti si preoccupavano molto degli operai, ad esempio di quelli della Volkswagen. Mentre ora sono molto più orientati all’ideologia sia a livello europeo sia a livello nazionale. Non sono più un partito di lavoratori, spero che riconoscano di essere andati nella direzione sbagliata».
E i Verdi?
«Abbiamo un grande compito che ha reso forte i radicali anche in Germania ed è quello di fermare l’immigrazione clandestina. Con i verdi di oggi è molto difficile. A livello europeo, i verdi hanno votato contro il patto sulla migrazione, il che è una chiara indicazione del fatto che non sono pronti a dare risposte adeguate su un approccio basato sui valori per fermare il business dei trafficanti di esseri umani. Queste elezioni sono una sveglia anche per i verdi per diventare ragionevoli su questi temi. Abbiamo bisogno di soluzioni pragmatiche ai problemi, questo è ciò che gli elettori si aspettano da noi ed è ciò che il Ppe di Merz farà in Germania» .
Cosa significa questo risultato per l’Europa?
«A livello europeo la vittoria della Cdu-Csu è una buona notizia perché la Germania tornerà alla stabilità con un’idea chiara di ciò che vuole sviluppare e vuole introdurre a Bruxelles per trovare soluzioni europee. L’approccio di Friedrich Merz è quello di risolvere i problemi insieme ai partner Ue».
La Germania avrà un governo entro Pasqua?
«È molto presto per dirlo, ma questa è l’ambizione. Si tratta di rispondere alle sfide storiche che abbiamo di fronte: la competitività economica, la migrazione clandestina e garantire la sicurezza dell’Europa attraverso la difesa. A livello europeo ciò di cui abbiamo bisogno è che anche la Germania ci aiuti a raggiungere questi obiettivi, perché l’Italia lo sta già facendo sotto la guida di Meloni e Tajani».
Ritiene che Musk e X abbiano influenzato le elezioni?
«Non faccio ipotesi sulle interferenze esterne. L’AfD si trova stava beneficiando delle preoccupazioni e delle paure della gente, ed è per questo che il messaggio chiave è rispondere con i risultati come facciamo a livello europeo».
Con queste percentuali ha ancora senso il cordone sanitario verso l’AfD al Parlamento europeo e a Berlino?
«In Germania le cose sono chiarissime: i membri dell’AfD sono estremisti di destra, alcuni sono neonazisti, hanno un’altra idea di come può essere la nostra società. E sono anche antieuropei. Vanno contro l’idea che le nazioni si uniscano in Europa e trovino un’intesa comune. Non ci sarà mai la possibilità di cooperare e di avere una coalizione».
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dal Corriere della Sera

Un leader alla prova

di Paolo Valentino | 23 febbraio 2025
La vittoria di Merz nelle elezioni tedesche. E nella storia recente la prova dell’Europa è stata una costante per tutti i cancellieri. Ma per l’Italia Merz offre una grande opportunità, soprattutto per la sintonia con i conservatori sulla gestione degli immigrati
Friedrich Merz sarà il sesto cancelliere federale cristiano-democratico del Dopoguerra. E come già successe con i suoi predecessori, è anche sull’Europa, sul ruolo che egli vorrà e saprà dare alla Germania nella costruzione comune, che si misurerà la sua capacità di elevarsi alla dimensione dell’incarico. È stata una costante della recente storia tedesca, che un cancelliere, di qualunque appartenenza, si trovasse davanti a una sfida europea e la superasse: Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, Schröder, Merkel.
Le eccezioni confermano la regola: Ludwig Erhard, che pure fu il padre dell’Economia sociale di mercato ma non lasciò traccia da cancelliere; Kurt Kiesinger, incolore capo della prima Grande Coalizione; da ultimo l’amletico e inconcludente Olaf Scholz.
Merz appare deciso a giocare la partita: «In questa Europa, la Germania deve avere un ruolo di guida. Dobbiamo assumerci la responsabilità e io sono pronto a farlo». Cosa significhi concretamente, possiamo solo ipotizzarlo. Deputato europeo dal 1989 al 1994, Merz è favorevole a una più forte integrazione, anche se il suo approccio è più intergovernativo del suo maestro, Wolfgang Schäuble, celebre come gran sacerdote dell’austerità finanziaria, ma anche teorico dell’Europa politica.
Il futuro cancelliere vuole forgiare nuove alleanze a partire dal triangolo di Weimar — Francia, Germania, Polonia —, allargandolo non solo a Italia e Spagna ma anche ai Paesi baltici e nordici. Consapevole che l’unanimità, offrendo a ogni singolo Stato un indebito potere di ricatto, mortifica la capacità decisionale dell’Europa, Merz è aperto alla formula dei Paesi volenterosi che si uniscono e vanno avanti su un tema, fossero l’aiuto all’Ucraina, la difesa europea o il fondo di investimento per l’intelligenza artificiale.
Fiscalmente considerato un falco, Merz in realtà si sta muovendo: in Germania si è detto pronto a discutere la riforma, se non l’abolizione della Schuldenbremse, il freno al bilancio che limita il deficit strutturale annuale allo 0,35% del Pil e che ha bloccato investimenti critici nelle capacità strategiche del Paese. In Europa, dopo aver appoggiato il Next Generation Eu, sembra aprire a nuove forme di finanziamento comune, in primis un programma europeo per la difesa.
Ma c’è un altro dettaglio interessante, per uno che è stato capo dell’Atlantik Brücke, tempio dell’atlantismo tedesco. Merz, infatti, considera «ridicolo» che l’80% delle spese militari dell’Europa sia effettuato all’estero. «Gli europei — ha dichiarato — devono per prima cosa combinare i loro acquisti per la difesa per costruire un mercato dei prodotti militari abbastanza forte da ridurre la loro dipendenza, in particolare da quello americano». È un modo diverso di definire «l’autonomia strategica» cara a Macron.
Suonano conferma di questa evoluzione, le parole pronunciate da Merz alla Conferenza di Monaco, dopo che il vicepresidente americano, J.D. Vance, aveva strigliato gli europei con il suo surreale discorso sulla «minaccia interna»: «Se non ascoltiamo ora le sveglie che ci vengono date, potrebbe essere troppo tardi per l’Europa».
E l’Italia? Per Giorgia Meloni, un cancelliere Merz offre una grande opportunità. La maggior sintonia conservatrice, in particolare su temi come l’immigrazione, può favorire un riavvicinamento anche sul resto, dopo il vuoto pneumatico, al limite dell’incomunicabilità, che ha caratterizzato i rapporti della presidente del Consiglio con Olaf Scholz. Saprà approfittarne?
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dal Corriere della Sera

Il voto in Germania e la spinta all’Europa

di Maurizio Ferrera | 23 febbraio 2025
La difesa comune è questione più scottante per l’Unione. E su questo fronte Merz si è già schierato
Il voto tedesco dovrebbe porre fine a un lungo periodo di debolezza e tentennamenti della Germania in Europa. Sulla questione oggi più scottante dell’agenda — ossia la difesa comune — l’attivismo e le proposte di Macron non possono certo bastare. Il buon risultato elettorale di Friedrich Merz apre spazio alla ripartenza del motore franco-tedesco. Indispensabile, come fu durante il Covid, per promuovere nuove forme di condivisione dei rischi e assicurare in modo autonomo la sicurezza collettiva.
L’inaspettata «intesa cordiale» fra Trump e Putin ci costringe a considerare scenari estremi. Che cosa succederebbe, ad esempio, se la Russia minacciasse esplicitamente di attaccare un Paese Ue al confine orientale? L’art 42.7 del Trattato di Lisbona vincolerebbe gli altri Paesi membri ad assisterlo «con tutti i mezzi a loro disposizione», un obbligo ancora più esigente rispetto all’articolo 5 della Nato. Com’è noto, la Ue non dispone di un esercito comune né di una infrastruttura di coordinamento e comunicazione (sicura) per operazioni militari. Certo, potremmo appoggiarci alla Nato. Ma avremmo bisogno del «permesso» americano. E non è scontato che Trump, Comandante in capo delle forze armate Usa, ce lo darebbe. In tal caso, dovremmo istituire in fretta e furia un centro e una catena di comando multinazionali. Ma chi deciderebbe la linea politica, quale voce parlerebbe a nome della Ue? Il Consiglio europeo a 27? La Presidenza «trina» formata da Antonio Costa (Consiglio europeo), Ursula von der Leyen (Commissione) e Kaja Kallas (Alta Rappresentante)?
Nel suo recente discorso al Parlamento europeo, Mario Draghi ha esortato l’Europa a comportarsi «come uno Stato». In epoca moderna, sono state proprio le guerre a facilitare il rafforzamento della statualità. Finora tuttavia la crisi ucraina non ha spinto in questa direzione. La Ue è nata come unione di stati nazionali, interessati a integrarsi per rafforzare se stessi. I Padri Fondatori volevano eliminare il rischio di nuove guerre intra-europee e rendere i propri Paesi più prosperi grazie al mercato comune. La prospettiva di un super-stato sovranazionale ha sempre suscitato diffidenza, se non paura. Il Regno Unito è uscito dalla Ue anche per questo.
La statualità non è però un pacchetto indivisibile, da adottare in blocco. È piuttosto un insieme di attributi, che si possono acquisire in modo selettivo e graduale. Ciò di cui ha bisogno oggi la Ue è un’«isola» di governo comune nel settore della sicurezza, capace di far prevalere la logica dell’insieme. L’ultimo quindicennio ha mostrato che le situazioni di crisi creano un terreno fertile per il rafforzamento del centro. Con il suo famoso whatever it takes, fu proprio Mario Draghi ad avviare questo processo, trasformando di fatto la Bce in una rete protettiva dei debiti sovrani nazionali. L’incremento di statualità è accelerato poi durante la pandemia.
Molte delle soluzioni adottate dalla crisi dell’euro in poi si sono ispirate a idee, proposte ed esperimenti già lanciati in fasi precedenti dell’integrazione. Sul terreno della sicurezza esiste un precedente importantissimo: il tentativo, nei primi anni Cinquanta di creare una Comunità europea della difesa (Ced) fra i sei Paesi fondatori. Le condizioni di oggi sono molto diverse, ma il Trattato siglato nel 1952 fornisce spunti ancora attualissimi. Esso prevedeva un esercito europeo, finanziato tramite un bilancio comune, con una struttura di comando sovranazionale. La guida politica sarebbe stata affidata ad un «Commissariato» di nove membri (fra cui un presidente), autorizzati a decidere a maggioranza.
Il Trattato fu ratificato da quattro Parlamenti (Olanda, Belgio, Lussemburgo, Germania). L’Italia voleva aspettare la Francia, ma il Parlamento di Parigi votò per sospendere la ratifica sine die (1954). Così la Comunità europea di difesa non vide mai la luce.
Sono in molti a pensare che le disposizioni del vecchio Trattato Ced potrebbero servire come punto di partenza per la creazione di una Unione europea di difesa. L’ostacolo principale resta il requisito dell’unanimità, difficile da aggirare anche attraverso lo strumento delle cooperazioni rafforzate. Secondo alcuni studiosi (fra cui Federico Fabbrini e Sylvie Goulard) la via più semplice e rapida sarebbe, appunto, quella di resuscitare il vecchio Trattato. Basterebbe la ratifica dei due Parlamenti mancanti, quello francese e quello italiano.
Fantapolitica? Solo fino a un certo punto. La disponibilità di un testo di partenza fornirebbe una leva per orchestrare il consenso. A differenza di Scholz, Merz si è già schierato a favore della difesa comune, mostrando disponibilità anche verso il finanziamento Ue a debito. I riflettori sono oggi puntati sull’avanzata di Afd. Ma non dimentichiamo che la stragrande maggioranza dei tedeschi hanno premiato i partiti pro-integrazione. I tempi per formare un governo di coalizione non saranno brevi. Il solo fatto che la Germania abbia confermato la scelta europea è tuttavia un segnale politico di enorme importanza non solo per l’Unione, ma anche per Trump, Putin e il bistrattato Zelensky.
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da la Repubblica
24 FEBBRAIO 2025

Lo scrittore Fitzek:

“Ha vinto la mobilitazione, ma alla Germania

ora serve una terapia di coppia”

dalla nostra inviata Laura Lucchini
Intervista all’autore tedesco: “Abbiamo tanti problemi e alla fine ha vinto la paura che nulla cambiasse”
BERLINO — Sebastian Fitzek, 53 anni, è uno degli autori più venduti in Germania. È maestro nello psychothriller e il suo La terapia ha venduto milioni di copie. È dunque fine conoscitore dei timori che preoccupano i tedeschi. In Italia per Fazi è da poco uscito Portami a casa.
Lei è uno dei maggiori scrittori tedeschi e maestro della paura. Significa che conosce bene le paure dei tedeschi. Quali hanno giocato un ruolo?
«Alla fine di questa campagna elettorale molto breve ha giocato un grande ruolo il tema dell’immigrazione e dunque la paura di avere perso il controllo dei problemi a essa connessi. Allo stesso tempo la paura che l’economia non si riprenda e proprio ora che ci siamo trovati per il terzo trimestre consecutivo in recessione, di non essere in grado di uscirne. Economia e migrazione sono le grandi paure che hanno dominato in campagna elettorale».
Ha personalmente paura per il futuro della Germania?
«Sì e no. Da una parte per chi seguiva la copertura mediatica delle elezioni c’erano continuamente temi che venivano spinti e che incutevano una certa paura, ma anche perché sollevarli era nell’interesse di determinati partiti. Però credo che la paura maggiore fosse il timore che nulla cambiasse. La paura della paralisi. Osserviamo sempre più spesso che la Germania per molti aspetti non è più leader. Non è più all’altezza delle richieste che faceva agli altri Paesi. Per esempio nel campo dell’educazione, non siamo più leader. In ambito economico, osserviamo delle ombre. Nell’ambito delle infrastrutture, internet ha grandi problemi, dall’autostrada si fatica a comunicare. La proverbiale puntualità delle ferrovie tedesche non esiste più. Io credo che sia un’elezione dove i cittadini hanno auspicato un cambiamento. Ma sul tipo di cambiamento auspicato vediamo che non c’è uniformità».
Si può ignorare la volontà del 20% degli elettori?
«È quello che si è chiesto J.D. Vance nel suo discorso di Monaco: come può essere che un partito democraticamente eletto non abbia una voce. Ma bisogna pure dire che il discorso funziona anche a parti invertite: l’80% della Germania non ha votato Afd, in modo chiaro. Ci sono pochi partiti che polarizzano tanto come Afd da un lato e Bsw di Sahra Wagenknecht dall’altro. La stragrande maggioranza dei tedeschi ha espresso di non volere dare il proprio voto a partiti che intendono coalizzarsi con Afd. E anche questo è un processo democratico. Da una parte non vanno ignorate le preoccupazioni del 20%, ma allo stesso modo non si può ignorare un 80% che dice chiaramente no alla coalizione con Afd. È il dilemma democratico in cui si trova la Germania».
Si può parlare di un successo della mobilitazione? L’Afd non è andata oltre le aspettative.
«Possiamo ritenere che queste elezioni siano state una vittoria per la democrazia. C’è stata la partecipazione più alta di sempre. Penso sia stata un’esperienza positiva, di una campagna breve che non ha stancato la gente. Una campagna con molti colpi e contraccolpi che ha mobilitato moltissime persone. Possiamo dire che la democrazia funziona e abbiamo un risultato che può permettere una coalizione stabile».
Di che “Terapia” ha bisogno la Germania?
«La Germania ha bisogno di una terapia di coppia. Perché siamo troppo divisi su troppi temi. Dobbiamo vivere insieme. Non vogliamo davvero separarci. Ma in qualche modo non ci veniamo incontro. Uno provoca l’altro. Esattamente come in una coppia dove uno accusa l’altro di non avere lavato i piatti o di non avere abbassato la tavoletta del water. Qui è lo stesso: uno dice “a” e l’altro dice “b”. Abbiamo perso il focus sul bene comune».
Come vede la Germania?
«Come un paziente che non sta bene. Non è gravemente malato, ma non si sente bene. Intorno a lui stanno in piedi i dottori. Sono i diversi partiti. Due di loro sono molto radicali e dicono: “Abbiamo noi la cura”. E il paziente dice loro: “Io quella cura non la voglio”. E gli altri dottori moderati stanno lì e semplicemente dicono: “Questa cura non funziona”. E nessuno si preoccupa dei sintomi».

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