Omelie 2016 di don Giorgio: QUINTA DI PASQUA

24 aprile 2016: QUINTA DI PASQUA
At 4,32-37; 1Cor 12,31-13,8a; Gv 13,31b-35
Vorrei rileggere il primo brano della Messa, tolto dal libro “Atti degli Apostoli”, alla luce o, per lo meno, con il sostegno degli altri due brani: quello dell’apostolo Paolo con il famoso inno alla carità, e quello di Giovanni, che è l’inizio del primo Discorso di addio, che Gesù ha tenuto ai suoi discepoli durante l’Ultima Cena.
Una annotazione e una doverosa premessa
Anzitutto, una annotazione. Nei primi capitoli degli “Atti degli Apostoli”, Luca, che ne è l’autore, presenta tre “sommari”, ovvero fa per tre volte il punto della situazione. Qui non potrei non far notare, come doverosa premessa, la stretta inscindibile connessione tra il brano di oggi, che è il secondo sommario, con la Risurrezione di Cristo, come del resto così andrebbe letto tutto il libro degli Atti. Dunque, la condivisione tra i fratelli, come vedremo, è la prova più concreta della Risurrezione.
Già questo fa capire che, quando si parla del Cristo della fede, non si tratta di qualcosa di aleatorio o di qualcosa di così interiore o spirituale da non incidere sulla vita esistenziale dei credenti. È esattamente il contrario: più il Cristo della fede anima il mio mondo interiore, più mi sento unito all’Umanità più reale, più concreta, ma – qui sta la grande novità – in modo tale da non separare o dividere la realtà in razze, in culture o in religioni diverse e tra loro in conflitto. Invece, più mi aggrappo al Cristo storico, più rischio di farne una religione chiusa all’Umanità nella sua realtà universale.
Condivisione di cuori e di beni
Con il secondo sommario, Luca risponde a questa domanda: che cosa distingue più palesemente la vita pratica dei primi cristiani? Ecco la risposta: una volontaria comunione dei beni anche materiali. Il sommario andrebbe interpretato bene, senza cadere nell’equivoco di pensare che i primi cristiani avessero tentato una specie di  “comunismo” in anteprima, anche se qualche particolare del racconto potrebbe farlo pensare. Carlo Maria Martini, con la sua grande capacità intuitiva, ci ha dato uno spunto illuminante: secondo il cardinale, non si trattava di mettere in comune per forza o per amore tutti i beni materiali, privandosi perciò di una rinuncia totale alla proprietà privata, ma della “disponibilità” concreta a mettere i propri beni a servizio degli altri, per venire incontro alle necessità dei bisognosi quando la situazione lo richiedeva. Specifichiamo. Tale disponibilità è doverosa non solo perché uno crede nel Cristo risorto o nel Dio dell’amore, ma perché ciò fa parte della stessa natura umana, quella natura che, come dicevo poco fa, è il nostro interiore più profondo. E allora, vorrei ripeterlo, più uno scende nel proprio essere, più si sente solidale con tutti.
Una solidarietà che non è al servizio del gruppo di appartenenza
Anche qui chiariamo. Non basta dire: faccio qualcosa per gli altri per sentirmi utile oppure per acquistare qualche merito per la vita eterna. Mi ricordo che, anni fa, senza citare il Movimento ecclesiale, gli aderenti dovevano dare prova di fedeltà o di credibilità inventando qualche opera caritativa. Questo significa strumentalizzare la solidarietà ai fini personali o del gruppo.
Il prossimo non ha etichette   
Ognuno di noi è prossimo perché è un essere umano. Non va perciò scelto in base a criteri ideologici. Il prossimo da aiutare è chiunque – italiano o straniero, regolare o clandestino, cattolico o islamico – si trovi in una situazione di bisogno.
I limiti della proprietà privata
La “disponibilità” concreta, di cui parlava Martini, a mettere anche i propri beni materiali non mette certo in discussione la proprietà privata, tuttavia ne pone dei limiti. I limiti sono stabiliti dalla solidarietà per i casi di emergenza, il che significa che non è un gesto di generosità il mio, ma un dovere che, ripeto, non fa parte solo della mia fede nel Cristo Risorto, ma della mia stessa natura umana. E allora possiamo parlare anche di un dovere sociale, imposto dal Bene comune. Da qui la domanda: che cos’è il Bene comune? È quel Bene che riguarda tutti, senza fare o mantenere privilegi, senza permettere l’eccesso di beni, ovvero la possibilità che chi è ricco possa prendersi tutto, a svantaggio di altri. Dobbiamo smettere di pensare che con i soldi si possa comperare tutto ciò che si vuole, magari un intero paese. Non è questione solo di carità cristiana, ma di quel bene che, se vogliamo continuare a chiamarlo comune, riguarda tutti, così da creare quella uguaglianza sociale che non deve solo restare scritta sui documenti o sui programmi elettorali.
Se dovessi dire certe cose, senza citare le fonti, passerei per il solito vetero marxista da quattro soldi. Potrei stare qui per delle ore a leggervi pagine e pagine di qualche Padre della Chiesa. Cito solo una frase di Giovanni Crisostomo: «Il mio e il tuo non sono altro che parole prive di fondamento reale. Se dici che la casa è tua, dici parole inconsistenti, perché l’aria, la terra, la materia sono doni del Creatore, come pure tu che l’hai costruita e così tutto il resto”.
Aveva anche colpito quanto aveva scritto Benedetto XVI, nel messaggio quaresimale del 2008: «Non siamo proprietari, bensì amministratori dei beni che possediamo: essi quindi non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso i quali il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo».
Condivisione reciproca tra poveri e ricchi
San Paolo, nella sua seconda Lettera ai cristiani di Corinto, al capitolo ottavo, invita calorosamente i cristiani di quella comunità ad aderire anch’essi alla raccolta di offerte per sostenere i cristiani indigenti di Gerusalemme. Vorrei farvi notare una frase che mi ha colpito: «Per il momento la vostra abbondanza supplica alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza».
Qualche esegeta così interpreta: la vostra abbondanza materiale dia una mano alla loro indigenza materiale, in compenso sarete arricchiti dalla loro ricchezza spirituale. Se pensassimo a questo scambio tra beni materiali e beni spirituali, forse potremmo vedere sotto un’altra angolatura anche il problema della immigrazione. Forse saremmo noi occidentali, ricchi di beni materiali ma poveri di beni spirituali, a guadagnarci da una positiva integrazione. Purtroppo c’è chi, come Matteo Salvini, che campa sulle disgrazie altrui, e non si accorge che così s’impoverisce di umanità, supposto che sia ancora possibile aggiungere qualcosa di negativo a un cervello vuoto.

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