24 aprile 2022: SECONDA DI PASQUA
At 4,8-24a; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
Dico subito che, in questo lungo periodo pasquale, che dura cinquanta giorni o sette settimane, e che si conclude con la Pentecoste (nome che significa cinquantesimo giorno), la Liturgia come prima lettura ci fa leggere un brano tolto dal libro “Atti degli apostoli”.
“Atti degli apostoli”, scritto da Luca, autore anche del terzo Vangelo, è un libro che nell’elenco canonico del Nuovo Testamento viene subito dopo i quattro Vangeli.
Un libro interessantissimo, ma che ben pochi cristiani conoscono e che quasi nessuno ha letto per intero. Di per sé non è la storia del primo Cristianesimo, ma l’intento di Luca è quello di testimoniare che il Cristianesimo è arrivato fino a Roma, e il libro si conclude con la prima prigionia dell’apostolo Paolo.
Ho detto che l’autore del libro è Luca, in realtà esiste un solo autore e un solo protagonista, ed è lo Spirito santo. Frequente è l’espressione “pieno o colmo di Spirito”, per definire in genere gli apostoli. Anche nel brano di oggi si dice: “Pietro, colmato di Spirito santo”.
Lo Spirito di per sé non toglieva i limiti o i difetti umani. I primi cristiani venivano chiamati “santi”, non perché già santi, ma perché consacrati per essere santi.
Bisognerebbe dunque dire che lo Spirito non ci rende santi di colpo, ma lo Spirito presente in noi ci aiuta a santificarci. Ma è presente in tutta la sua pienezza. Qui sta il bello e la sfida. Lo Spirito o è tutto o è niente. In noi non c’è solo qualcosa o solo un po’ di Spirito, e quasi ci giustifichiamo dicendo: Se lo Spirito ci si donasse di più, non è colpa nostra se diamo poco.
Tocca dunque a noi sfruttare al massimo la presenza radicale dello Spirito in noi.
Lo Spirito dava agli Apostoli la “parresia”, parola greca tradotta in italiano con franchezza.
L’indimenticabile Carlo Maria Martini così spiega il significato di “parresia”: «La parola greca “parresia” indica, nel libro degli “Atti”, la capacità di testimoniare liberamente e coraggiosamente il messaggio cristiano anche in un mondo ostile. Nel mondo greco essa significava la libertà di parola che spettava nell’assemblea al cittadino che godeva dei pieni diritti civili, e di conseguenza il coraggio e la franchezza con cui tale privilegio poteva venire esercitato».
Pensate a secoli, diciamo millenni, di storia della Chiesa che è una prova di quanto essa abbia combattuto la parresia, o il diritto di parola dei suoi spiriti più liberi.
Interessante la risposta di Pietro e di Giovanni ai capi del Sinedrio, organismo religioso ebraico: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato».
Obbedire a chi? Al dio della religione o alla propria coscienza, dove Dio è presente in tutta la sua realtà di Spirito infinito?
Parresia! Tutti tirano fuori questa parola, e poi come viene trattata?
La parresia è ridimensionata per non dire repressa dalla cosiddetta virtù dell’obbedienza. Non c’è anzitutto l’obbedienza a una struttura, pur religiosa, ma è la Verità divina che non può essere stretta in schemi dogmatici o altro.
Il Bene divino è assoluto, ovvero sciolto da ogni legame, perciò anche dalla religione, la cui parola significa appunto legame.
Parresia!
Quanto ce ne vorrebbe al giorno d’oggi, in cui sembra che tutti siano dei codardi, o degli opportunisti volta facce.
Una Chiesa che non dice pane al pane e vino al vino non è la vera Chiesa di Cristo, di quel Cristo che è stato messo su una croce proprio per aver detto la Verità contro ogni ipocrisia e ogni potere. La cosa che può impressionare è che Cristo ha contestato, più che il potere romano, il potere religioso, ed è stato messo su una croce dalla religione ebraica, e nella religione ebraica ha contestato ogni religione.
Veniamo al brano del Vangelo, famoso per l’incredulità dell’apostolo Tommaso.
Dico subito che a noi viene facile dare la colpa a qualcuno come capo espiatorio di tutte le colpe del mondo. E così giudichiamo Giuda come responsabile di aver consegnato il Maestro nelle mani dei manigoldi mandati dal sinedrio ebraico per catturare Gesù, e così ancora oggi Tommaso resta la figura dell’incredulo.
Il grande papa san Gregorio Magno scriveva in controtendenza: “A noi giovò più l’incredulità di Tommaso che la fede degli apostoli”.
Sì, perché Tommaso che faceva del vedere e del toccare la condizione indispensabile per credere, alla fine credette senza toccare.
E non possiamo dimenticare le parole di Cristo: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Dove sta dunque la beatitudine evangelica?
Nella carnalità di una fede che ha bisogno di vedere e di toccare?
Cristo dice di no. Ed è chiaro nel dire che Fede è assenza di carnalità, di esteriorità.
Per credere non bisogna usare gli occhi fisici, toccare il corpo di Cristo.
La fede è vedere con gli occhi dello spirito nello Spirito santo.
“A noi giovò più l’incredulità di Tommaso che la fede degli apostoli”, ha scritto il papa san Gregorio Magno.
Sì, senza l’incredulità di Tommaso non avremmo avuto le belle parole di Cristo e non avremmo capito dove sta la vera beatitudine.
Ma siamo ancora qui ad accusare l’incredulità iniziale di Tommaso e ad elogiare magari la fede carnale degli apostoli che avevano creduto, perché avevano visto fisicamente le sembianze umane del Cristo risorto. Come si può credere nel Cristo risorto, se si usano gli occhi del corpo?
Solo una parola sulla prima apparizione del Cristo agli apostoli, chiusi in casa. “Pace a voi”, e dona lo Spirito. Diciamo ri-dona lo Spirito, perché Cristo l’aveva già dato, mentre moriva come Gesù di Nazaret.
Pace e Spirito! Se capissimo questa inscindibile unione capiremmo dove sta la vera tragedia del mondo: nel separare la pace dallo Spirito, e quindi anche dal nostro spirito interiore. Non potrà mai esserci pace in una società totalmente carnale, o in una struttura religiosa radicalmente carnale.
La pace tornerà ad essere il nostro respiro, quando daremo spazio al nostro mondo interiore.
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