da www.huffingtonpost.it
22 Giugno 2024
Marcello Sorgi: “Berlinguer, l’aristocratico
che conosceva il cuore del popolo comunista”
di Alessandro De Angelis
Colloquio con editorialista della Stampa e autore del libro San Berlinguer: “Negli ultimi quarant’anni ha avuto il tempo di essere sia crocifisso che mitizzato. E la mitizzazione è la cosa che gli rende meno giustizia”
Marcello Sorgi, hai scritto un libro dal titolo, molto efficace, San Berlinguer (editore Chiarelettere). Ed effettivamente, negli infiniti Pantheon della sinistra, il “santino” compare sempre, rigorosamente decontestualizzato e precursore di ogni svolta: dalla Bolognina al Pd, anche se col Pd non c’entra nulla. Bastano le modalità tragiche della morte – il martirio – a spiegare creazione il mito o forse c’è qualcosa di più?
Vedi, nei quarant’anni che ci separano dalla morte, Berlinguer ha avuto il tempo di essere, diciamo così, crocifisso – ricordi il libro di Miriam Mafai dal titolo Dimenticare Berlinguer? – poi il tempo di essere rivalutato, poi criticato – penso a Claudia Mancina e a quel filone – poi il tempo di essere mitizzato. E la mitizzazione, secondo me, gli rende meno giustizia, perché, nel mito, c’è spazio ovviamente per esaltare gli aspetti positivi, ma non ce n’è per analizzare gli errori che fatalmente ci sono nella vita di ogni leader politico.
Il mito è costruito soprattutto attorno al “secondo Berlinguer”, che ha più fortuna rispetto al primo, quello della grande manovra nel solco del togliattismo, con Giulio Andreotti al posto di Pietro Badoglio e lo spauracchio del Cile di Augusto Pinochet al posto della guerra civile greca. Questo elemento, la questione morale, e il martirio rendono complicato il farci i conti.
Che poi, e in parte lo racconto nel libro, bisognerebbe analizzare quella famosa intervista sulla questione morale. Lì in verità Berlinguer parlava anche ai suoi. Ci fu una direzione del partito molto contrastata in cui si discussero i sistemi di finanziamento al partito mentre il canale dell’oro di Mosca si avviava alla fine. Il nuovo sistema di finanziamento si poteva riassumere, in sostanza, nello slogan “tiriamo la cinghia”. Cioè facciamo i conti con ciò che c’è: il finanziamento pubblico e l’aumento del contributo degli eletti al partito. Siccome chi faceva politica sul territorio sapeva che le esigenze erano maggiori, e infatti aveva cominciato a farsi finanziare come gli altri partiti, quell’intervista aveva anche una chiave interna.
Però, la chiave esterna, alimenta, sempre a proposito di miti, il mito di una diversità, quasi antropologica: il Paese sano nel Paese corrotto, l’idea della purezza contro la contaminazione. Purezza che, però, è isolamento politico.
E infatti quell’approccio moralistico e, secondo alcuni, “antipolitico” ante litteram, fu criticato da Giorgio Napolitano e anche da Alessandro Natta, che poi sarebbe stato il successore: se diciamo che i partiti sono corrotti, con chi andiamo a fare l’alternativa? Il famoso “che fare”. Berlinguer, dopo l’Irpinia e la famosa “seconda svolta di Salerno”, non voleva la crisi del governo Forlani, non voleva le elezioni anticipate, non voleva il rapporto col Psi. L’idea, che in parte spiega in quella intervista, è che in ogni partito c’è una parte corrotta e una parte sana. E che bisogna lavorare per un’alleanza delle parti sane.
Massimo D’Alema, nel tuo libro, dà anche una lettura tattica di quella posizione: “Berlinguer – dice – quando lanciò la linea dell’alternativa, si aspettava che una opposizione dura, potesse sollecitare un cambio di atteggiamento della Dc e un recupero delle intese precedenti”. Un modo cioè per forzare tornando al compromesso storico.
Sì, lo era, ma era un tentativo di recupero impossibile innanzitutto perché nell’81 la Dc di Flaminio Piccoli era quella del “preambolo”. E anche l’arrivo di De Mita fu segnato da una illusione: per quanto al congresso ci fossero gli striscioni con su scritto “demitizzare Craxi”, il 49 per cento del partito ce l’avevano i preambolari e De Mita non aveva la forza di rompere con Craxi che pur detestava. Ma non c’è dubbio che ogni leader novecentesco è legato a “una” politica, non ne ha “due”. E quella di Berlinguer è il compromesso storico, il rapporto privilegiato con la Dc. Senza Moro, lo portò come disse Napolitano, “in mezzo al guado”. Gli storici si sono a lungo interrogati sul quesito “se ci fosse stato Moro?”. Quesito cui ovviamente non possiamo rispondere ma non c’è dubbio che quella strategia era radicata nel rapporto tra i due.
Strategia che prevedeva due disegni però divergenti, perché per Berlinguer l’abbraccio doveva essere eterno, per Moro era il momento di passaggio alla “terza fase” dell’alternanza, prospettiva che il primo non contemplava perché avrebbe comportato il cambio del nome e la prospettiva socialdemocratica che rifiutava.
Secondo me invece pensavano la stessa cosa: facciamo un governo insieme, alla fine si vota, chi vince governa, chi no all’opposizione. Berlinguer ha in mente la scena in cui dalla porta sinistra dell’Aula entravano, in un governo di solidarietà nazionale i ministri comunisti – Napolitano, Chiaromonte, Pajetta – e dall’altro quelli democristiani – Andreotti, Gava, Piccoli – e pensava che i suoi ministri sarebbero stati di un richiamo tale come pulizia, moralità, modestia rispetto ai democristiani, che il Pci, in quanto Pci, avrebbe vinto al giro successivo. Il problema è che non ci si arrivò. E fu proprio Berlinguer a rompere la maggioranza sullo Sme, che, per entità, era come se vent’anni dopo si fosse rotto sull’Euro.
Miriam Mafai, che ricordavo prima, coglie secondo me un punto molto rilevante: cioè che il mito si deve a un elemento di modernità nel suo rapporto col popolo, anche se questa modernità non c’era nella politica. Il consenso che però lo accompagnò in vita, l’attenzione religiosa nelle adunate oceaniche, i funerali diventati un evento pubblico, televisivo. E poi, quel chiamarlo per nome: “Enrico”; Berlinguer era “Enrico” in un’epoca, non come oggi, in cui ci si dava del lei e si usavano i cognomi. Sei d’accordo?
La direi così: penso che Berlinguer conoscesse il suo popolo meglio di tutti. E sapesse che era il suo popolo ad essere arretrato però, questo rapporto col popolo lo gestisce in modo tutt’altro che arretrato. Palmiro Togliatti, al massimo, fa una polemica pubblica con Italo Calvino e, per vezzo, scrive con l’inchiostro verde della stilografica. Lui fa davvero i conti con la comunicazione di massa e con la politica spettacolo che, nel frattempo aveva fatto irruzione. Nel libro racconto un aneddoto di quando va in televisione e, alla fine, chiede ai suoi come è andata. Gli rispondono “un po’ moscetto”. Lui dice: “bene così”. Capiva che lui piaceva così – moderato quando era necessario, duro quando serviva – e che piaceva quella sua aria sobria, modesta, da parroco laico che accompagna sua moglie in chiesa e aspetta fuori. Achille Occhetto mi dà una definizione particolarmente efficace: “Uomo dai pensieri lunghi e dai passi piccoli”.
Pensa alla foto che sceglie Emanuele Macaluso, allora direttore dell’Unità, per prima il giorno dei funerali. Poteva sceglierne decine: comizi, Mosca dove affermò il valore universale della democrazia. E invece sceglie una foto privata che ritrae il segretario comunista al timone di una barca a vela, bardato in una giacca a vento bianca, capello al vento. Oggi penseremmo a chissà quale calcolo comunicativo di acuti spin doctor. E invece in quella scelta c’è, appunto, l’immagine introiettata del mito, non circoscritta in un tempo politico e in uno spazio fisico: un timoniere eterno, dal sorriso bonario.
Esatto, Macaluso coglie quell’elemento di modernità nel rapporto col popolo e fa, egli stesso, una scelta di modernità che lo fissa nell’immaginario collettivo. Quella foto è simile a quella di Gianni Agnelli al timone della sua barca a vela, solo la barca è più piccola: la felicità del mare, il vento tra i capelli, il timone come elemento simbolico del concetto di “guida”. Anche Mao era “il grande timoniere”.
Cioè: Berlinguer sta nella politica spettacolo incarnandone il rifiuto. Possiamo dire che Berlinguer, d’istinto o consapevolmente, colse e assecondò un moto di trasformazione della politica, incarnando una sorta di alternativa “antropologica”, prima ancora che politica?
Antropologicamente, come dici tu, lo definirei un “comunista aristocratico”. In un’intervista al Venerdì di Repubblica, la figlia Maria racconta che il padre si voleva dimettere dopo le Europee. Di fatto, era in minoranza nel suo partito. E’ chiaro che la minaccia di dimissioni serviva anche a congelare la situazione. In quel frangente Alfredo Reichlin, un possibile candidato a sostituirlo, sostiene che, per uscire dall’impasse strategica, si devono fare i conti col fatto che “il vero partito socialdemocratico siamo noi”. E Berlinguer gli dice “io mai riuscirei a definire socialdemocratico il nostro partito”. Chiuse il dibattitto.
E questo è il comunista. L’aristocratico?
D’Alema racconta che, sia quando vince le elezioni nel ’76 sia quando le perde nel ’79, parole e scena sono le stessa: esce dalla stanza, dove è stato a ragionare sui dati come si faceva una volta e dice, in entrambe le circostanze: “Poteva andare peggio”. Questo atteggiamento è indicativo del distacco con cui, al fondo, si rivolgeva al gruppo dirigente. Distacco, mai confidenza. Quella la riservava al popolo comunista. Quando da giovane finì in galera per una manifestazione, in Sardegna lo chiamavano ancora “don Enrichetto” e lo tirò fuori il padre che, a sua volta, era “don Mario”. Quel tratto se lo è portato fino alla fine.
Cioè la morte lo cristallizza nel momento di confine. Lui colse la doppia crisi del suo mondo – del sistema sovietico e della democrazia italiana – ma in quel mondo si spinse fino al limite, senza però superarlo, perché la questo avrebbe comportato di cambiare il Pci per puntare su una democrazia dell’alternanza. Non paga cioè il prezzo salato che la storia avrebbe fatto pagare ai successori.
Anche se quel superamento ce l’aveva in testa. Achille Occhetto racconta che, nel ’74, durante la campagna elettorale referendaria – sottolineo ’74 – gli chiede a bruciapelo: “Cosa ne diresti se cambiassimo nome al partito?”. Non sappiamo se, prima o poi lo avrebbe cambiato, ma comprende che quello sarebbe stato un formidabile strumento di consenso, come la frase sull’“ombrello della Nato” o la “fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”. Secondo me, essendo avversario dei socialisti europei, avrebbe scelto un nome più laburista, tipo “partito del lavoro”, nome di cui peraltro poi si discusse ai tempi della svolta della Bolognina.
In questo suo non spingersi oltre il confine di una identità consolidata, si può dire che, oltre alla prudenza tattica, c’è la convinzione di un leader che resta comunista fino alla fine?
Ti racconto un aneddoto, che nel libro non c’è. Ma me lo ha raccontato Marco Follini proprio dopo averlo letto. E magari lo inserirò nella prossima edizione, se ci sarà. È questo: tra l’82 e l’84 Berlinguer e De Mita hanno parecchi incontri segreti, che iniziano sin dalla crisi del governo Spadolini, perché tutti vedono in De Mita l’uomo che può spedire Craxi all’opposizione. I due si incontrano in una trattoria sull’Appia Antica, perché allora non c’erano né i retroscenisti che ti inseguivano col motorino né chi ti scattava una foto dal telefonino. A un certo punto Berlinguer gli chiede: “Ma tu credi nel dogma dell’Immacolata concezione?”. De Mita resta meravigliato. Rispose non con un sì o con no ma, forte dei suoi studi teologici, con un lungo ragionamento sul dogma, sul peccato e sul pentimento dopo il peccato.
E Berlinguer?
Gli dice: sai, per me il peccato è la proprietà privata. Ecco, quella era la sua intimità. per rispondere alla tua domanda. Una convinzione, o meglio un credo, che non avrebbe mai potuto esternare come leader politico, perché i primi a non considerare la proprietà privata un peccato erano gli operai della Fiat che si compravano la Seicento e poi la casa dentro quei palazzoni con centinaia di piccoli appartamenti che la Fiat faceva costruire per loro. Ed erano orgogliosi della casa e dell’automobile. Voglio dire che, nel profondo, coltivava ancora l’illusione dell’“ognuno deve avere secondo i suoi bisogni, ognuno deve dare secondo le sue capacità”. Del resto, se non l’avesse avuta, avrebbe dialogato con François Mitterrand e Felipe Gonzales, non avrebbe fatto l’Eurocomunismo, con Santiago Carrillo e Georges Marchais. I quali, tra l’altro, nemmeno lo volevano fare, perché piccoli, mal ridotti e senza nessuna intenzione di separarsi da Mosca.
Un elemento molto interessante del tuo libro secondo me riguarda il rapporto con i movimenti e più in generale con la questione giovanile degli anni Settanta. Massimo D’Alema, allora segretario della Fgci, sostanzialmente ti parla di un travaglio, tra la linea degli “untorelli”, che ha accompagnato la fase della fermezza e il comitato centrale dopo le contestazioni di Lama alla Sapienza, dove Berlinguer si diede malato, lasciando a lui le conclusioni: “Berlinguer era consapevole che il Pci dei suoi anni aveva attratto molti ragazzi, ma che ne aveva lasciato sfuggire una frangia verso la lotta armata”. Quasi un principio di autocritica rispetto alla linea precedente.
Descrive il travaglio di un partito che, quando nasce il “partito armato”, sull’Unità parla di “sedicenti Br”. Le consideravano, con la memoria della strategia della tensione, una roba dei servizi, per gettare fango sulla sinistra e alimentare un riflesso d’ordine. La linea è quella di Ugo Pecchioli: denunciare, come Guido Rossa, chi fiancheggiava in fabbrica le br. Che è poi la stessa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con cui parlai quando mi inviarono a Torino a seguire gli arresti dei giovani, spesso minorenni, di Prima Linea. L’idea è: li dobbiamo trovare uno ad uno e denunciarli, così il terrorismo di massa finisce. Un’impostazione opposta rispetto, per intenderci, a quello ciò che aveva detto Rossana Rossanda con “l’album di famiglia”, facendo riferimento all’analogia tra riflessioni e linguaggio tra br e i comunisti degli anni Cinquanta.
Diciamo così: per il Pci non sono “compagni che sbagliano”, ma “nemici della Repubblica”. Quando scatta in Berlinguer il travaglio?
Il ripensamento è nel comizio conclusivo della festa unità 78. Discorso veramente complicato, difficile da riassumere, infatti l’Unità lo pubblicò integrale, perché potevi girarlo sia sugli aspetti più moderni sui diritti sia su Lenin. Lì però dice, in relazione ai giovani, “sono anche figli nostri”. Non sono più gli “untorelli” di qualche anno prima, cui facevi riferimento tu. Coglie cioè che un atteggiamento troppo duro avrebbe avuto l’effetto di spingerli verso la lotta armata.
Non ti ho chiesto. Ma tu il libro perché lo hai titolato così? Pensi che sia un Santo?
Se fosse un giallo non te lo direi: il perché si spiega all’ultima pagina. Ma non trattandosi di un giallo si può dire. Andai a seguire, assieme ad altri cinque cronisti, il funerale di Berlinguer a piazza San Giovanni: la bara dentro un furgone nero da funerale comunale, senza neanche una normale limousine, ultimo atto della sobrietà che lo aveva contraddistinto in vita, la grande commozione del popolo, Roma bloccata, i compagni che lo chiamavano per nome: “Enrico”, come se fosse ancora vivo o come per promettergli che avrebbero continuato in nome suo. Era il 13 giugno 1984. Molti anni dopo, il 5 aprile 2005, andai per pura curiosità personale – ero già direttore della Stampa – a mescolarmi con i fedeli ai funerali di Papa Wojtyła e molte cose erano simili. Dentro l’immensa folla c’era un’altra folla, quella dei polacchi che parlano italiano. E dicevano: “Santo subito!”. E furono accontentati perché diventò santo nove anni dopo. Mi tornò in mente quel giorno di giugno: in fondo, ho pensato, anche il popolo comunista ha avuto il suo santo: San Berlinguer.
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