Omelie 2012 di don Giorgio: Seconda domenica di Avvento – rito ambrosiano
25 novembre 2012: Seconda domenica di Avvento
Is 19,18-24; Ef 3,8-13; Mc 1-1-8
A parte Gesù Cristo, l’Atteso per eccellenza, tre sono i personaggi che ci aiutano a prepararci degnamente al Santo Natale: il profeta Isaia, Giovanni il Battista e la Madonna. La prima lettura è sempre scelta dal libro di Isaia, poco importa se poi si tratta del primo, o del secondo o del terzo Isaia. La Madonna ha addirittura una sua festa, l’Immacolata. Una parte preponderante ce l’ha Giovanni il Precursore, il più grande profeta a cavallo tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il Vangelo secondo Marco (per inciso: non bisognerebbe mai dire Vangelo “di” Marco, ma “secondo la versione di” Marco) salta ogni preambolo, dimentica quasi gli avvenimenti che riguardano la Nascita di Gesù, e inizia subito dal deserto, dove Giovanni il Precursore prepara gli animi del popolo eletto alla comparsa sulla scesa del Messia a lungo atteso, con una predicazione assai forte, stimolante e provocatoria, e con il rito del battesimo che anticipa il sacramento cristiano. Di qui il nome Battista, colui che battezza. Comunque, sarebbe meglio chiamarlo il Precursore del Messia.
Siamo nel deserto. Ecco il contesto ambientale, simbolo anche di un contesto spirituale. Il deserto per un ebreo richiamava un lungo periodo di attesa in vista della Terra promessa. Un’esperienza che resterà sempre nella mente e nell’animo del popolo ebreo. Ricordava i tradimenti e soprattutto l’ostinata fedeltà di Dio all’Alleanza.
L’evangelista Marco cita alcune parole del profeta Isaia. Non vorrei ripetermi, l’ho già fatto in occasione di altri Avventi, inquadrando queste parole nel loro contesto storico. Vorrei invece soffermarmi sulla domanda: che cosa ancora oggi le parole del Profeta potrebbero insegnarci?
Anzitutto, che cosa ci richiama la parola deserto? Potremmo star qui delle ore a cogliere le varie emozioni che il deserto potrebbe suscitare nel nostro animo. Una parola che viene solitamente usata in senso sia positivo che negativo. Anche il Papa, più di un mese fa, precisamente l’11 ottobre, nell’omelia che ha tenuto in una solenne celebrazione eucaristica per ricordare il 50° anniversario dell’avvio del Concilio Vaticano II e l’apertura dell’Anno della fede, ha parlato di “desertificazione spirituale”, che negli ultimi decenni ha determinato un vuoto (ecco il senso negativo), all’interno del quale, tuttavia (ecco il senso positivo), “possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere” e riscoprire “il valore di ciò che è essenziale per vivere”, al punto che, così come “nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere”, nel mondo contemporaneo “sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita”. In questo “deserto”, c’è bisogno di persone di fede che “con la loro stessa vita indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza”.
Nel deserto, dunque, si sente un vuoto, ed è nel suo silenzio che si percepisce l’essenziale. Sabbia, e poi sabbia. Tutto sembra sterile. Non ci sono case, non ci sono strade asfaltate. Forse oggi, in qualche parte del deserto, la civiltà consumistica allungherebbe le mani, così come vorrebbe allungarle sulla via Lattea per far correre il mercato perfino nel firmamento celeste.
Il profeta Giovanni sceglie proprio il deserto come luogo del suo annuncio di penitenza ed è lì, nel deserto, che costringe la gente ad accorrere, se vuole incontrarlo. Là dove c’è frastuono e chiasso, là dove c’è eccesso di parole vuote buttate fuori da un cuore in affanno, là dove si perde la propria essenzialità perché sommersi da mille cose, da mille preoccupazioni, da mille richiami, da un cumulo tale di inutilità e di superfluo da coprire la sete d’Infinito, là si perde anche il senso del vivere: il senso delle cose, il senso degli eventi, il senso dei tanti perché che interrogano la nostra vera identità. Chi siamo? Da dove veniamo? Verso dove andiamo? Senza queste domande ogni cosa che facciamo non ha senso.
La pace interiore non è pace senza perché, senza dubbi, senza problemi. È del tutto errato, in nome di una serenità dello spirito, cercare di sradicare dal nostro animo ogni desiderio di ricerca, ogni tentativo di dare qualche risposta. Ma direi di più. Oggi tutta la scienza, dalla psicologia alla filosofia, diciamo anche la stessa religione, diciamo pure la stessa politica non fanno altro che pretendere di prefabbricarci risposte su tutto. E non sanno niente. Loro cercano per noi le soluzioni più facili, più comode, più rassicuranti, e che cosa ottengono? Ci lasciano ancora con i nostri perché, con i nostri dubbi, con i nostri problemi: inutile coprirli con illusorie risposte. Forse dimentichiamo che ognuno di noi è un problema, è un perché, è una ricerca.
Non penso che Giovanni Battista a tutta quella folla che accorreva per sentirlo desse una risposta ai loro problemi. Già il fatto di entrare nel deserto, luogo d’incontro con il silenzio e con l’essenzialità, ognuno si trovava almeno in parte di fronte alla propria identità.
Il deserto ci fa riscoprire i veri perché, le vere domande, i dubbi più positivi. Già la domanda: Chi siamo? dovrebbe sconvolgerci e sconvolgere l’intera società.
“Preparate la via del Signore”. Qualcuno traduce “preparate la via al Signore che viene”. Non è una traduzione esatta. Più che preparare al Signore che viene, dobbiamo percorrere la via che è del Signore. Non è una sottigliezza da esegeta perditempo. Come possiamo incontrare il Signore che viene su una strada che è “nostra”, perché tracciata da precetti umani, da leggi umane, da tutto ciò che è richiesto dalla religione? La religione, ogni religione, ha una bella pretesa: farci incontrare Dio in un sistema tale che, già per la sua stessa natura, in quanto sistema religioso, esclude la Novità divina. Se Dio viene, è in quanto Dio che viene. Ovvero, la venuta di Dio è inimmaginabile, non può essere scontata, non possiamo dire: Ecco, “questo” è il Dio che viene! Dio sceglie strade infinite, strade sempre nuove: dobbiamo perciò essere sempre pronti a cambiare le “nostre” strade. Vedete: anche i Profeti, che se ne intendevano di Novità, dovevano stare attenti, per il fatto che ci si può anche abituare alla Novità. Il vero Profeta è sempre disposto a cambiare strada. Dio è la Novità che viene, senza pre-avvisarci su quali strade verrà.
I primi cristiani – lo dice il libro degli Atti degli Apostoli – non vedevano e tanto meno vivevano la fede in Cristo come un “sistema religioso”. È vero che si era agli inizi, perciò ancora lontani da quella organizzazione strutturale e dogmatica che successivamente porterà il cristianesimo sul piano di una religione. Ma ciò che davvero sconcerta, noi del terzo millennio, è il fatto che i primi credenti non chiamavano la fede una dottrina o un insegnamento o neppure un messaggio, ma la chiamavano “via” (“hodos” in greco).
Il cristianesimo secondo loro era la “via”. Nella Lettera agli Ebrei, l’anonimo autore sacro parla di “via nuova e vivente” che “è stata inaugurata da Gesù per noi” (Eb 10,20; 12,2).
Ho già parlato del prete spagnolo Josè Antonio Pagola: il suo commento al Vangelo secondo Marco è intitolato “la via aperta da Gesù”. Già il titolo è significativo a proposito di quanto stiamo dicendo del cristianesimo, così come lo vedevano i primi cristiani. Riflettendo sul brano del Vangelo di oggi, scrive:
«Prima di tutto dobbiamo fermarci a scoprire quali zone della nostra vita non sono illuminate dallo Spirito di Gesù. Come comunità religiosa dobbiamo funzionare bene intorno al culto, ma continuare a essere impermeabili ad aspetti essenziali del vangelo. Da cosa ci riconoscerebbe oggi Gesù come suoi discepoli e seguaci?
Inoltre, dobbiamo discernere la qualità evangelica di quello che facciamo. La parola di Gesù ci può liberare da alcuni auto-inganni. Non tutto ciò che viviamo proviene dalla Galilea. Se non siamo un gruppo caratterizzato dai tratti essenziali di Gesù, che cosa siamo esattamente?
È essenziale “cercare il regno di Dio e la sua giustizia”. Ribellarci di fronte all’indifferenza sociale che ci impedisce di guardare la vita dalla prospettiva di coloro che soffrono. Resistere a forme di vita che ci chiudono nel nostro egoismo. Se non trasmettiamo compassione e attenzione verso gli ultimi, che cosa stiamo diffondendo nella società?
C’è un “imperativo cristiano” che potrebbe orientarci nella ricerca effettiva della giustizia di Dio nel mondo: agire nelle nostre comunità cristiane in modo che questo comportamento possa diventare norma universale per tutti gli uomini. Indicare, con la nostra vita, vie verso un mondo più giusto, amabile e pieno di speranza. Cambierebbe molto la società se tutti agissero come facciamo noi nella nostra piccola comunità?
Sarebbe sicuramente di arricchimento introdurre tra noi quel detto incisivo e suggestivo che alcuni anni fa circolava nelle comunità cristiane della Germania: “Pensa globalmente, agisci localmente”. Dobbiamo aprire l’orizzonte delle nostre comunità verso il mondo intero; imparare ad elaborare l’informazione che riceviamo, a partire dallo sguardo compassionevole di Dio verso tutte le sue creature. Poi, aprire vie di compassione e giustizia nel piccolo mondo in cui ci muoviamo ogni giorno».
Commenti Recenti