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24 Gennaio 2023
Goodbye rivoluzione.
I 100 giorni del Governo Meloni
di Alessandro De Angelis
Da Nordio (sui rave) a Nordio (sulle intercettazioni): tra contraddizioni e retromarce l’ansia da legittimazione è più forte della spinta al cambiamento per cui è stata votata. L’unica cosa che funziona è ciò che è obbligato, quel vincolo esterno che prima era contestato
Da Nordio a Nordio, a quasi “cento giorni” dalla nascita del governo – il periodo che, di solito dovrebbe essere più sfavillante, carico di entusiasmo riformatore, senza tentennamenti – si consuma il primo giro dell’indecisionismo (altro che fascismo) di governo. Da quando cioè fu proposto il “decreto rave”, prima bandiera data alla curva in assenza di denari da distribuire, in versione hard: una misura d’urgenza – a proposito quelli che urlavano al golpe e all’umiliazione del Parlamento con Mario Draghi, in tre mesi hanno presentato 15 decreti, un record rispetto ai predecessori – per un’urgenza che non c’era, mentre con la normativa in essere si era appena risolto il raduno di Modena. Modificato, e non poco, rispetto alla prima versione per cui si poteva sgombrare qualunque raduno con 50 persone, prestandosi a interpretazioni liberticide, prevede comunque la possibilità di utilizzo delle intercettazioni. Quello strumento che il ministro, costretto a una retromarcia, avrebbe voluto limitare per decreti ben più gravi.
E qui, sia pur nell’ambito di contraddizioni, retromarce, correzioni, emerge comunque un dato di cultura politica nell’approccio e nelle intenzioni, che ha poco a che fare con la destra sociale e liberale (e dunque col garantismo che vale per tutti): più intercettazioni per i giovani che si “sballano” – il potere evocativo delle “devianze” per l’elettorato perbenista e piccolo borghese – meno per i colletti bianchi. Corporativismo puro così come, su un altro fronte, si regalano la flat tax e un po’ di condoni per gli autonomi, e si puniscono i percettori del reddito di cittadinanza, per i quali si è ancora in attesa di una misura – annunciata ma non varata – che non trasformi i seicentomila cui viene tagliata nei prossimi otto mesi in zombie destinati alla povertà. E il regalo sarebbe stato ancora maggiore senza il dietrofront sui Pos, il cui tetto, prima proposto a 30 euro, poi annunciato a 60, è infine sparito dopo il confronto con Bruxelles, annunciato in un comunicato di palazzo Chigi che fa invidia al doroteismo d’antan: “Si precisa che sono in corso interlocuzioni con la Commissione europea, dai cui esiti di terrà conto nel prosieguo della legge di bilancio”.
Un’acrobazia, quella dei comunicati e dei video, diventata una costante, fino all’ultimo in ordine di tempo, appunto su Carlo Nordio che nega “presunte divisioni tra palazzo Chigi e il guardasigilli” apparse nei famosi retroscena, e peccato che basti la scena a registrare dichiarazioni di segno opposto tra Giorgia Meloni e il suo ministro della Giustizia, che si è appiccato alla frase sui mafiosi che “come noto non parlano a telefono”, come Claudio Scajola si appiccò alla casa “a sua insaputa”. Alcune volte, la colpa è delle iene dattilografe, altre volte “è cambiato il contesto”, come nel caso delle accise di cui si prometteva l’abolizione nel famoso video dal benzinaio o nel programma di governo, ennesima toppa messa dopo il ruggito contro gli “speculatori”, altro classico, inteso come evocazione di un colpevole, col retropensiero complottista. Del genere, l’insuperato esempio resta la critica di Giovanbattista Fazzolari a Bankitalia, che “critica la manovra perché finanziata dalle banche” e si esibisce in un ragionamento sulla fantomatica valuta privata che, diversamente dalle banconote, si presta alla speculazione di privati e istituti di credito. Ovviamente il tutto si è concluso con una dichiarazione del premier, da Tirana, costretta a mettere una toppa con palazzo Koch. E poi, prima di Natale, con un nuovo video: “Imporre vincoli sul Pos sarebbe incostituzionale”. Per inciso, di questa salvinizzazione comunicativa – prima si spara sui passeri, poi si nasconde la pistola – tra smentite scritte o video via facebook fa parte una certa insofferenza verso le domande in conferenze stampa, vizio antico del potere, esasperato nella postura populista.
E se la cifra del governo è lo iato tra propaganda e realtà, intenzioni e realizzazioni, annuncio e retromarcia, l’esempio icastico – e infatti è il dossier di cui la destra parla di meno – è l’immigrazione: solo quest’anno (numeri sul sito del Viminale) gli sbarchi hanno raggiunto quota 3905, più del doppio dell’anno scorso di questi tempi. Archiviata la promessa del “blocco navale”, verificata l’impossibilità di chiudere i porti, non c’è una linea né in Europa (chiedere a Visegrad per la redistribuzione) né in Africa (dove è finito il famoso “Piano Mattei” tanto sbandierato?) né in Italia dove è stato varato un inutile decreto Ong che riguardano solo il dieci per cento degli arrivi, ma – come i rave – è una bandierina per far titolo sui tg.
In attesa del Mes – quel perfido “diktat di Germania e Olanda cui il governo si è sottomesso” – la cui riforma sarà approvata anche se non utilizzata e dei balneari dove rischia l’effetto benzinai se non si riuscirà ad allungare i tempi per le gare stabiliti dalla sentenza del Consiglio di Stato, probabilmente, ed è un paradosso, il terreno su cui si è manifestata maggiore coerenza (nell’incoerenza) è l’accettazione del vincolo esterno, in una manovra che per due terzi recepisce il lavoro di Draghi. E infatti la cosa più stabile che c’è, in questa giostra di intenzioni e frustrazioni, è lo spread (basso e sotto controllo). E per fortuna che i conti non sono scassati. Però, al tempo stesso, questo rivela, visto da destra, un dato drammatico per una giovane donna presentatasi come l’artefice di una rivoluzione, votata da un bel po’ di gente arrabbiata, insofferente, aizzata dal “vogliamo tutto e lo vogliamo subito”: l’unica cosa che funziona è ciò che è obbligato, ma che si era spiegato fosse il cuore del problema e del cambiamento, mentre sul resto è una serie di “vorrei ma non posso”, l’opposto di una “visione”, termine più usato nel discorso di insediamento.
Goodbye Giorgia, e menomale che non fa più Marine Le Pen, anche se ancora non ha spiegato quale sia il suo centrodestra (al momento forte coi deboli e debole con l’establishment, pure il machete sulle nomine ha rimesso in cantina) e dove la porterà questa sindrome da figlio di un Dio minore che vuole essere accettato. Grande giornalista Bruno Vespa, conoscitore dell’animo umano: sa che l’avrebbe portata nel suo salotto, come tutti i potenti per cui ha cucito interviste sartoriali. E si è beccato una striscia quotidiana dopo il tg, nell’ambito della prossima lottizzazione in Rai. Lui si che lo sa: le poltrone sono più seduttive delle rivoluzioni. Anche per gli “underdog”.
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