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Un ricordo di François Ponchaud
24 gennaio 2025
di: Francesco Strazzari
Si è spento nella casa di riposo dei padri delle Missioni estere di Parigi, a Louris, p. François Ponchaud all’età di 86 anni.
Nei miei numerosi reportage dalla Cambogia, lo incontravo sempre. Era un missionario fuori del comune: statura atletica, sguardo penetrante, addentro alla lingua e cultura khmer come nessun altro. Mi diceva, con sottile humour, che pensava e scriveva in khmer. Testardo e lungimirante. Voleva fare l’obiettore di coscienza al tempo della guerra di Algeria, ma gli fu imposto di fare il paracadutista.
Missionario in Cambogia
Nato nel 1939 a Sallanches, ai piedi del Monte Bianco, settimo di dodici figli, andò a studiare nel seminario delle Missioni estere di Parigi con il grande desiderio di fare il missionario in Asia.
Nel 1965 conseguì la licenza in teologia all’Università Gregoriana di Roma e fu mandato in Cambogia. Studiò la lingua khmer per tre anni e anche la lingua vietnamita. Fu nominato parroco di quattro parrocchie vietnamite e di una cambogiana e, successivamente, parroco della cattedrale di Kompong Cham, dove c’erano alcune decine di cristiani vietnamiti.
Nel 1970 scoppiò la guerra civile e i vietnamiti furono costretti a tornare in patria. Rimasero in Cambogia solo cinquemila cristiani khmer e millecinquecento cristiani cinesi.
Dal 1970 al 1975 cinque preti francesi e due vietnamiti furono uccisi. Ponchaud allora fu mandato nella capitale della Cambogia, Phnom Penh, dove coraggiosamente iniziò a occuparsi della formazione dei catechisti, scrivendo molti sussidi direttamente nella lingua khmer. Durante la guerra approfondì il buddhismo con l’aiuto e la competenza dell’italiano p. Zago, che operava nel Laos.
Nel 1975 i khmer rossi s’impadronirono del potere, uccisero tutti i preti khmer e un gran numero di religiosi e religiose khmer. Ponchaud venne espulso il 7 maggio del 1975, tre settimane dopo la vittoria dei khmer rossi.
Ritornò a Parigi, mantenne i contatti con la Cambogia e scrisse il libro drammatico Cambogia anno zero, che fece una fortissima impressione. Iniziò a percorrere il mondo per visitare i profughi cambogiani: sessantamila in Francia, quattrocento in Italia, quattromila nel resto d’Europa, ventimila in Canada, centoventimila negli Stati Uniti, ventimila in Australia. Si piazzò nei campi profughi della Thailandia e finalmente, nel 1993, rientrò in Cambogia, dove lo incontrai per la prima volta.
Diede alle stampa La cathédrale de la Rizière, che fece conoscere al mondo la cultura khmer e la storia dell’evangelizzazione cristiana per aiutare i cambogiani a ritrovare e a conservare la propria identità.
Padre Ponchaud evangelizzatore
Ponchaud si fece conoscere per la sua instancabile opera di inculturazione. Il mitico vescovo Ramousse, di nazionalità francese, agli inizi degli anni ’90, fece partire la celebre marcia sinodale, che avrebbe caratterizzato la vita e l’attività della chiesa in Cambogia.
L’evangelizzazione muoveva i primi passi in un campo di rovine: scomparsi i cristiani, dispersi i sopravvissuti, soppressi i quadri religiosi, rase al suolo le chiese sotto il feroce e sanguinario dittatore Pol Pot, confiscate le scuole e le altre istituzioni cattoliche.
Si iniziò così la celebrazione di «sinodi delle comunità», che permettevano ai cristiani dei campi profughi e a quelli rimasti in Cambogia di sentirsi Chiesa. Le varie comunità cristiane, assai ridotte, si organizzarono attorno a tre campi essenziali della Chiesa: liturgia, catechesi, diaconia.
Mi impressionò la chiara scelta dell’inculturazione: chiese senza banchi come le pagode buddhiste; nelle celebrazioni liturgiche gesti religiosi limitati al saluto buddhista (mani giunte); uso di bastoncini d’incenso, celebrazioni delle feste buddhiste (anno nuovo e festa dei defunti), lezionari, messali e rituali tradotti in lingua khmer dallo stesso Ponchaud; salmi versificati secondo i ritmi cambogiani; decorazione delle chiese secondo lo stile delle pagode; via crucis stile khmer; costruzioni di chiese nel rispetto delle tradizioni popolari.
Ma Ponchaud non appariva ancora sodisfatto. Mi diceva che restava ancora molto da fare sulla via dell’inculturazione per arrivare a «khmeritizzare» più profondamente la Chiesa. «È l’inizio di un vasto cantiere», mi diceva nel suo ufficio a Phnom Penh, dove lavorava alla redazione di catechismi per fanciulli e di testi di approfondimento per catechisti, basati sulla Bibbia, con illustrazioni tratte dalla cultura khmer.
Ponchaud muoveva dalla constatazione che, in Cambogia, la Chiesa è catecumenale. Più del 10% dei membri, in quegli anni post dittatura, era infatti rappresentato da catecumeni che venivano per lo più dalle fasce più povere. Era quindi necessaria l’opera di discernimento.
Grossi ostacoli Ponchaud li vedeva nel passaggio alla fede cristiana, visto come tradimento della cultura, delle tradizioni khmer e della religione buddhista e accettazione della religione degli stranieri.
La formazione dei catecumeni nell’attività pastorale di Ponchaud durava tre-quattro anni. Nel primo anno si operava un approccio globale alla fede; nel secondo, il catecumeno veniva messo in contatto con il vangelo; nel terzo, seguendo l’itinerario buddhista (Buddha, legge, comunità monastica) veniva presentato Cristo come rifugio (termine buddhista), la Parola e la Chiesa come rifugio. Nel quarto anno venivano approfondite le Scritture. Molti i libri di esegesi biblica scritti da Ponchaud in lingua khmer per aiutare i preti e i catechisti sparsi su tutto il territorio, dove i cristiani khmer erano all’incirca diecimila, i cristiani vietnamiti ventimila, rientrati al tempo dell’occupazione vietnamita (1979-1989).
Intellettuale finissimo e lavoratore instancabile
Ponchaud è stato un intellettuale finissimo, un lavoratore instancabile, cocciuto e sorridente, benvoluto e contestato, animatore di scuole nella foresta e attento alle necessità di un gran numero di orfani. Autore di libri di storia, traduttore della Bibbia e dei testi del concilio Vaticano II in lingua cambogiana, animatore di corsi di catechesi.
È stato uno dei missionari sepolti vivi. Questa era la sensazione che provavo quando visitavo in quegli anni la Cambogia. Sepolti vivi nella cultura antica khmer, spesso ostica e impenetrabile. Sepolti vivi in un clima di diffidenza e di sospetto, ritenuti gente che, in passato, aveva dominato e rubato. Sepolti vivi in una società che faticava a darsi leggi solide e durature. Sepolti vivi in mezzo a malati di Aids, che aumentavano a dismisura; in mezzo a giovani che non avevano un futuro certo; in mezzo a donne e uomini che abbandonavano i figli. Sepolti vivi e, spesso, dimenticati.
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