Madonne che parlano e piangono (ridono, mai?)

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Madonne che parlano e piangono

(ridono, mai?)

Anche se potrò sembrare irriverente o dissacrante o addirittura blasfemo, dico apertamente e pubblicamente il mio pensiero sulle apparizioni della madonna o delle madonne dalle parole o dalle lacrime facili.
Non esprimo un mio giudizio sul fenomeno e sulla sua autenticità o falsità, anche se non posso nascondere dubbi e perplessità.
So che Dio è libero di fare ciò che vuole, anche di manifestarsi all’uomo assumendo parole e gesti umani. Ma credo troppo alla sua serietà, passi il termine, per credere che cada nel ridicolo. E il ridicolo è sempre alla portata di mano, quando noi mortali vogliamo far fare a Dio ciò che vogliamo noi, o fare di Dio lo zimbello delle nostre pretese o desideri assurdi.
Dico solo che per credere non ho bisogno di madonne che parlano o che piangono (chissà perché non ridono mai!).
So di non essere ancora maturo nel cammino di fede. E se lo sono è solo perché vorrei ancora aggrapparmi a qualcosa di puramente esteriore, dimenticando le parole di Gesù: basterebbe un pizzico di fede pura per spostare anche le montagne.
E da quando ho scoperto la Mistica medievale non esce più dalla mia testa come un chiodo fisso: quel distacco radicale anche da ogni culto carnale che mi permette di unirmi intimamente al Divino, che è Spirito, e come tale, in quanto Spirito, si comunica a noi, nel nostro essere più profondo.
Con Martina Viganò ho scritto un libro dal titolo Riscopriamo la Mistica medievale nella dottrina essenziale di Meister Eckhart.
Vorrei riprendere due capitoletti, il primo sulle opere, il secondo sulla fede e sulla credenza religiosa.

Opere

Meister Eckhart, soprattutto nelle Istruzioni spirituali, affronta temi particolari, tra cui le opere, gettando su di esse una nuova luce dal punto di vista della dottrina del distacco e della concezione delle opere.
Leggiamo: «Non bisognerebbe tanto pensare a che cosa si deve fare, quanto piuttosto a ciò che si è: se si fosse buoni, e buono fosse il nostro modo di essere, le nostre opere risplenderebbero luminose. Se tu sei giusto anche le tue opere sono giuste. Non si pensi di fondare la santità sulle opere, la santità va fondata sull’essere, giacché non sono le opere che ci santificano, siamo noi che dobbiamo santificare le opere. Per sante che siano le opere, esse non ci santificano assolutamente in quanto opere, ma, nella misura in cui siamo santi e possediamo l’essere, in questa stessa misura noi santifichiamo le nostre opere, sia ciò mangiare, dormire, vegliare, o che altro. Quelli che non sono di natura nobile, qualsiasi opera compiano, essa non vale nulla. Poni mente, dunque, all’impegno che si deve mettere nell’esser buoni, e non tanto per ciò che si fa o per la natura delle opere, ma per il loro fondamento».
Più specificatamente: «Molta gente crede di dover compiere grandi
opere esteriori: digiunare, andare scalzi e altre cose ancora, dette opere di penitenza. Ma la vera penitenza, quella migliore, che permette di fare i più grandi progressi, consiste nell’abbandonare completamente tutto ciò che è altro da Dio e dal divino, in se stessi e in tutte le creature, e nel volgersi in modo perfetto e totale verso Dio amatissimo, in un amore incrollabile, in grande pietà e desiderio di lui. Più un’opera ha in sé questo, più sei giusto; più avviene questo, e più la penitenza è vera, più cancella i peccati e il castigo… Questa penitenza altro non è se non una diversa disposizione dello spirito, distaccato da tutte le cose e rivolto a Dio. Compi dunque liberamente quelle opere che più ti fanno giungere a ciò, ma se, al contrario, qualche opera esteriore – digiuno, veglia, lettura o che altro sia – è per te di ostacolo, lasciala perdere, senza timore di trascurare così un’opera di penitenza. Dio infatti non tiene conto delle opere in sé, ma soltanto dell’amore, della devozione, e della condizione spirituale che le ispira. Le opere per lui non contano quanto la disposizione d’animo in esse, e il nostro amore per lui solo in ogni opera. Troppo avido è l’uomo cui Dio non basta. Ricompensa di tutte le opere è che Dio le conosca, e che tu pensi a lui mentre le compi. Questo ti deve bastare in ogni momento, e più il tuo sguardo lo contempla nella purezza e semplicità, più esse espiano veramente i tuoi peccati».
Dunque, se il nostro animo è distaccato, qualsiasi opera sarà divina, se invece siamo ancora legati all’ego e alla volontà personale qualsiasi opera, anche quelle rivolte a Dio, anche i sacramenti, le penitenze, i digiuni, non avranno alcun valore; ancora una volta ciò che conta non è l’opera in se stessa ma la disposizione interiore, è importante che l’azione sgorghi dall’interiorità distaccata.
Per lo stesso motivo non è importante il luogo in cui ricerchiamo Dio, sia in strada sia in chiesa, sia nella propria cella sia fra la gente; Dio va ricercato nell’interiorità, non nelle cose esteriori come luoghi o opere; fintanto che cercheremo Dio nelle cose esteriori non troveremo Dio; trova Dio chi abbandona se stesso in ogni luogo, in ogni circostanza e in ogni opera.
All’uomo che non si rivolge unicamente a Dio, dice Eckhart, sono di ostacolo sia le opere buone che quelle cattive, sia la strada sia la chiesa, perché in verità il vero ostacolo è l’io, la volontà personale che non ha ancora abbandonato.
Le opere sono quindi per il distacco, bisogna imparare «a passare attraverso tutte le cose e a cogliere in esse Dio», Eckhart invita così a questa pratica del distacco da esercitare continuamente in ogni situazione, in ogni luogo e attraverso ogni nostra opera.
Questo vale anche per le penitenze, i digiuni e tutte le opere “sante” con cui spesso gli uomini si illudono di ricercare Dio, mentre in realtà inseguono solo il loro interesse personale. La vera penitenza non è digiunare o fare opere esteriori, ma «abbandonare completamente tutto ciò che è altro da Dio e dal divino».
L’attenzione di Eckhart è sempre rivolta, più che al contenuto di ogni singola opera, alla disposizione d’animo, alla condizione spirituale che deve essere distaccata da tutte le cose e rivolta a Dio; se compiamo le opere a partire dalla nostra volontà personale, qualsiasi opera sarà sempre asservita dal fine, legata al nostro io e quindi ingiusta e lontana da Dio.
Eckhart poi se la prende con coloro che dovrebbero educare al mondo dello spirito, e invece «son tanto occupati ad accrescere il loro dominio nel regno dei fenomeni che non resta loro tempo di entrare in relazione personale con Dio».
È altrettanto duro con i suoi colleghi di insegnamento: «Vi son molti fra noi maestri che per tredici anni e più si sono sforzati di intendere la Sacra Scrittura e ne intendono quanto una vacca o un cavallo».

Fede o credenza religiosa?

Ci sono parole che col tempo hanno perso il loro significato originario. Quando lo si ricupera, ci si meraviglia quasi davanti a un miracolo come scoprire di nuovo l’America. E ci sono parole tra loro confuse, tanto da essere prese l’una per l’altra: è il caso di fede e di credenza. Anche qui, chiarita la distinzione, sembra che si apra un mondo nuovo.
Ma se è facile definire che cos’è la credenza religiosa, non lo è altrettanto per la Fede, da intendere nel senso più mistico o evangelico. Il motivo è semplice: la credenza religiosa, per il suo contenuto più o meno determinato, per i suoi riti, le sue cerimonie, i suoi gesti, i suoi canti, le sue raffigurazioni, talora per la sua teatralità, ha quell’aspetto carnale che tutti vedono, toccano, sentono.
Proprio per questo, ovvero per la sua carnalità, Meister Eckhart ha totalmente rifiutato la credenza religiosa, in favore di quella Fede purissima, che vive di Spirito purissimo.
Dunque, nella Mistica medievale la Fede, nel suo senso più profondo, non è affatto credenza, produttrice di “rappresentazioni religiose”, ma è distacco che toglie via ogni elemento accidentale dell’anima, conducendola alla scoperta dello spirito, per cui si può dire che il distacco è Fede, e Fede è distacco. O, se si vuole: senza Fede non vi è distacco, che ha senso solo in vista della Fede. E col distacco la Fede si purifica, si spiritualizza divinamente. C’è di più. La fede come credenza è superstizione, ovvero qualcosa di epidermico, che aliena, ovvero allontana l’essere più interiore dal Dio che, essendo Assoluto, ovvero “sciolto da” ogni determinazione, rifiuta ogni legame.
Possiamo dire che l’alienazione religiosa, che sfocia immancabilmente nella superstizione, è frutto di una menzogna, ovvero di un inganno che agisce sulle immagini determinate o idoli, che creano un legame con le cose e con il proprio ego, il vero dio in cui ha sede la credenza religiosa.
La Fede non produce affatto credenze ma, al contrario, le toglie via tutte, smascherando come menzogna anche l’immaginazione teologica.
La Fede, scrive san Giovanni della Croce, “non solo non produce nozione e scienza, ma anzi acceca e priva l’anima di qualunque altra notizia e conoscenza: la fede è notte oscura per l’anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica”.
Commenta Marco Vannini: “Fede come notte, dunque, ma una notte che mentre libera da ogni presunto sapere di verità esteriori, fa risplendere una luce interiore, sapere non di altro ma di se stessa, sapere che è un essere”.
Capiremo meglio cos’è la Fede, quando parleremo della generazione del Logos nell’anima. Logos che è il Figlio, ovvero Spirito. E lo Spirito richiede spirito, dunque distacco da ogni esteriorità, da ogni credenza, da ogni superstizione. Il distacco mette a nudo l’inganno di una religione che ha bisogno di credenze popolari per stare in piedi.
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