L’ondata populista di estrema destra che ha travolto l’Europa è un danno enorme. Anche economico.
da The Vision
L’ondata populista di estrema destra
che ha travolto l’Europa
è un danno enorme. Anche economico
DI FEDERICA BORTOLUZZI 23 MAGGIO 2024
Ciò che ricordo con maggiore chiarezza della campagna elettorale che, nell’estate del 2022, ha preceduto l’elezione di Giorgia Meloni a Presidente del Consiglio italiano è lo slogan che la leader di Fdi aveva scelto per introdurre i punti del suo programma: “Pronti”. Il suo partito, infatti, si diceva “pronto a risollevare l’Italia” con il cosiddetto “piano di volo”, servendosi di una parola che rimanda a un forte pragmatismo, all’immediatezza della soluzione e che credo riassuma bene una delle promesse fondamentali del populismo di estrema destra: puntare all’azione più che alla discussione, all’analisi, allo studio dei problemi di un Paese, come se qualsiasi momento di ricognizione o riflessione fosse politicamente inutile, superfluo, una sorta di ritardo sulla tabella di marcia.
E anche se quella che riecheggia nel vecchio slogan di Meloni è ovviamente una semplificazione estrema e potenzialmente dannosa, due anni fa ha avuto enorme presa sull’elettorato, che ha letto in questa presunta volontà di “fare” una maggiore onestà e proattività, un impegno a cambiare realmente le cose avvicinandosi alle istanze del “vero popolo”, e distanziando di conseguenza Fdi dall’inerzia che spesso viene imputata – a torto o a ragione – alle élites governative. Gran parte del successo che il populismo di destra sta avendo, in Italia e in Europa, si deve infatti proprio alla disinvoltura con cui i leader di questa parte politica continuano a proporre ricette semplici per problemi complessi, cercando di capitalizzare l’insicurezza dei cittadini in modo manipolatorio, dato che al confronto con la realtà queste stesse ricette si rivelano puntualmente sbagliate e quasi sempre inattuabili. Una strategia che funziona, com’è evidente, a livello propagandistico, ma le cui falle stanno diventando sempre più tangibili nei loro effetti negativi, sul piano ideologico, culturale, dei diritti, ma anche su quello economico.
A poche settimane dalle elezioni europee di giugno – a cui Meloni si è presentata ancora una volta come “una del popolo”, decidendo di figurare con il solo nome di battesimo “Giorgia” sulla scheda elettorale per tenere fede a quella che è ormai una scelta comunicativa radicata – l’ondata populista di estrema destra che ha preso piede in Europa sta allargando sempre di più la sua influenza. Lo dimostrano innanzitutto i sondaggi, che vedono partiti conservatori alla guida del governo in Italia, Paesi Bassi, Francia, Austria, Ungheria, Slovacchia, e secondi per preferenze in Germania e Svezia. Secondo le stime, inoltre, le due frange di estrema destra nel parlamento europeo potrebbero assicurarsi fino al 25% dei voti totali. Come spesso è accaduto nella storia, infatti, la recessione economica ha schiacciato gli standard di vita, fomentando il malcontento e favorendo così l’ascesa di demagoghi e populisti.
I dati, però, dimostrano che il populismo costa, anche in senso letterale, e che il perdurare della destra al potere rischia di aggravare ulteriormente lo stato di instabilità economica in cui l’Europa si trova. In quasi tutti i Paesi europei, infatti, le destre stanno forzando la mano sulle loro posizioni tradizionali, alimentando una retorica sovranista che, guardando alla realtà dei fatti, non ha alcun riscontro vantaggioso in termini di crescita economica. Si tratta principalmente di politiche anti-immigrazione, che rappresentano un blocco sostanziale all’espansione della forza lavoro; protezioniste, che danneggiano il libero scambio e la concorrenza su cui si regola il mercato; e spesso apertamente anti-ambientaliste, che tarpano le ali a un settore dalle enormi potenzialità d’investimento. E se esse rappresentano un enorme danno per quanto riguarda le battaglie ideologiche e le libertà del cittadini – cosa che è già di per sé molto grave – le ricadute strettamente economiche del populismo sono altrettanto preoccupanti.
Nonostante la difesa di determinate condizioni e privilegi economici sia da sempre uno dei vessilli della destra, infatti, le soluzioni semplicistiche dei governi populisti si stanno dimostrando sempre più irrealistiche e prive di solidità quando valutate nei loro effetti reali sulle finanze dello Stato. A questo proposito è eclatante il caso dei Paesi Bassi, in cui le politiche anti-immigrazione hanno costretto multinazionali come Unilever – storica azienda britannica titolare di oltre 400 dei marchi più famosi al mondo nel settore dell’alimentazione, bevande e igiene per la casa – a chiudere le proprie sedi nel Paese a causa della difficoltà nell’assumere dipendenti non olandesi. Le misure messe in atto dal precedente governo – come la riduzione delle agevolazioni fiscali per gli immigrati e l’introduzione di un tetto al numero di studenti stranieri che possono iscriversi alle università olandesi – e acuite dalla linea di Geert Wilders, il leader del partito coservatore e xenofobo che ha vinto le elezioni nel 2023, e che ora si appresta a costituire un governo di coalizione insieme ad altri partiti di estrema destra, hanno infatti impresso una svolta negativa in uno Stato noto per la sua apertura, facendo vacillare anche le imprese locali e indebolendo così la tenuta economica nazionale.
Anche in Italia, più di recente, gli sviluppi del superbonus 110% hanno trasformato quello che era stato venduto come un provvedimento rivoluzionario di sostegno al cittadino in un incubo per i già fragili conti dello Stato, rendendolo un caso che passerà alla storia come uno dei maggiori disastri della finanza pubblica. Per non parlare del caso forse più noto, ovvero quello del Regno Unito, dove il populismo è stato il principale motore propulsore della Brexit, rivelatasi in pochi anni un disastro economico per i cittadini inglesi. Uno studio realizzato da un gruppo di economisti tedeschi, che ha analizzato questi e molti altri esempi dei danni economici del populismo – sia di destra che di sinistra – ha attestato che in generale dopo circa quindici anni con un leader populista al potere “il PIL pro capite risulta inferiore del 10% in confronto a quello di un Paese governato da un leader non populista”, con effetti negativi sulla crescita, i consumi e le disuguaglianze – e su questo ultimo punto, in particolare, le maggiori criticità si riscontrano quando al potere c’è un governo di destra.
Esiste poi un’ulteriore conseguenza macroscopica del populismo in campo economico, che riguarda in senso ampio l’atteggiamento che i cittadini assorbono da questo tipo di ideologia politica. Come sostiene l’ex primo ministro inglese Gordon Brown in un approfondimento pubblicato sul Guardian, il populismo alimenta una mentalità discriminatoria, diffidente, sempre in cerca di un nemico a cui addossare la responsabilità delle eventuali problematiche di un Paese, e spesso, come ben sappiamo, il nemico con cui prendersela viene scelto tra i più fragili della società. Secondo Brown l’idea reiterata che le persone attorno a noi siano un pericolo, delle potenziali minacce pronte a toglierci qualcosa, si traduce in campo economico nella sensazione inconscia che il proprio guadagno e benessere possa derivare soltanto dalla rovina di qualcun’altro. Come se il mercato fosse un gioco a somma zero, in cui per sopravvivere è necessario accaparrarsi al più presto la propria parte prima che ci venga sottratta.
In un periodo di bassa crescita economica questa visione alimentata dal populismo rischia di creare un’atmosfera di pessimismo e frustrazione opprimenti, oltre ad abituarci alla cultura della colpa, in un circolo vizioso in cui più incolpiamo gli altri della nostra situazione economica insoddisfacente, più diventiamo pessimisti sulla possibilità di poterla migliorare. Stando a un sondaggio condotto su diversi Paesi europei, infatti, il 59% degli inglesi crede di poter accrescere la propria ricchezza personale solo a discapito degli altri; in Germania e nei Paesi Bassi, invece, rispettivamente il 60% e il 58% nutre questa convinzione, e in quasi tutti i Paesi analizzati più del 50% ha dichiarato di sostenerla. Inoltre, la maggior parte degli europei si dice pessimista sulle proprie prospettive economiche, credendo che difficilmente vivrà meglio delle generazioni precedenti. Solo il 26% dei francesi e il 33% degli italiani ha fiducia in una svolta positiva a medio-lungo termine, e in generale in nessuno dei Paesi presi in esame la maggioranza delle persone è ottimista sul proprio futuro economico. Un clima di questo genere, in cui la convinzione di potersi arricchire soltanto a spese di chi ci sta attorno sembra essere sempre più radicata, fa il gioco dei partiti che aizzano l’odio nei confronti dell’altro, del diverso, annichilendo la fiducia reciproca e la volontà di collaborazione che sono essenziali per costruire un ecosistema socio-economico virtuoso.
È innegabile che a seguito della pandemia e degli sconvolgimenti geopolitici avvicendatisi negli ultimi anni, la condizione di recessione economica che l’Europa si è trovata ad affrontare abbia acuito il disagio sociale e il malcontento della popolazione, costretta a fare scelte politiche in un momento di difficoltà, magari lasciandosi trascinare dall’emozione del momento invece di affidarsi alla razionalità. Questi meccanismi da cui il populismo trae forza, però, non sono altro che distorsioni della realtà, del tutto smentite dai dati e dalle analisi degli economisti. Se da un lato le politiche protezioniste, di limitazione dell’immigrazione e anti-ambientaliste tipiche dei populisti di destra precludono ai Paesi in cui questi governano degli importanti margini di crescita economica; dall’altro lato è anche la cultura della diffidenza e della colpa su cui certa politica dell’odio si fonda a creare un danno economico, generando un gioco al ribasso che nuoce al benessere dei cittadini – sia in senso strettamente finanziario che emotivo, dal momento che tende a rendere le persone più sfiduciate, diffidenti e pessimiste.
Queste parti politiche, infatti, non offrono nulla di concreto per migliorare la situazione economica europea, che avrebbe invece bisogno di investimenti in campo tecnologico, ecologico e di progressi nel settore medico, per fare fronte ai processi che stanno rivoluzionando il mondo in cui ci muoviamo e quindi la nostra vita, in modo da non farci trovare impreparati di fronte a essi. Oggi come non mai le conseguenze delle scelte dei governi populisti potrebbero dunque assumere un peso ingestibile, con ricadute che riguardano l’intera società e non soltanto qualcuno che è più debole, povero o semplicemente diverso da noi. Per questo, davanti a una situazione politica che tende troppo spesso a essere normalizzata, dobbiamo iniziare a riconoscere la portata deleteria che il potere dell’estrema destra sta avendo su più livelli, spogliando la realtà dei fatti dalla propaganda, e i dati oggettivi dalle distorsioni di chi vorrebbe venderci soluzioni semplici e pronte a problemi che, invece, necessitano di studio e visione a lungo termine. Quelli pronti, infatti, dobbiamo essere noi, per contrastare attivamente con il nostro dissenso chi certe idee dannose le mette in campo.
La piccolezza di Berlusconi e il fatto che non è mai stato credibile per la costruzione di una polo liberale la si vede anche dai due giornali che ha lasciato: il Giornale e Libero. Sono due giornalini di bassissima affidabilità, pieni di pettegolezzi e notizie inventate, strampalate, distorte. Non meritano di essere letti nemmeno gratis. Persino il Fatto Quotidiano è superiore a quei due giornali. Poi non so come abbia la faccia tosta di chiamarsi “Libero” un quotidiano per il quale il nome “Servo” non potrebbe essere più appropriato. Dispiace soprattutto per il Giornale che fu fondato dal grande Montanelli e dove lavorò gente del calibro di Daniele Vimercati.