Il gesto simbolicamente ipocrita e diplomatico di Mario Delpini, arcivescovo di Milano
da www.chiesadimilano.it
Un Requiem in Duomo
per non dimenticare l’Holodomor ucraino
Migliaia di fedeli della Chiesa greco-cattolica ucraina converranno da tutta Italia a Milano per il momento di preghiera in Cattedrale alle 13 che celebrerà l’85mo anniversario del genocidio perpetrato dal regime staliniano negli anni Trenta. L’Arcivescovo porterà il saluto della Chiesa ambrosiana
di Francesco CHIAVARINI
Domenica 26 novembre, per la prima volta, l’Holodomor, il genocidio ucraino, sarà ricordato a Milano con un solenne Requiem in Duomo alle 13.
L’evento – organizzato dalla Chiesa greco-cattolica ucraina in Italia – richiamerà fedeli da tutto il Paese. Pullman arriveranno da Brescia, Firenze e Roma. Per l’ingresso nella Cattedrale sono stati stampati 5 mila badge, 3 mila candele sono state acquistate per la processione che dal Duomo raggiungerà la chiesa di Santo Stefano Maggiore, la parrocchia dei migranti.
La liturgia sarà presieduta da monsignor Cyril Vasil’ S.J., segretario della Congregazione per le Chiese orientali, e concelebrata da vescovi e sacerdoti ucraini e italiani.
L’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, interverrà alle 14.30 per portare il saluto della Chiesa ambrosiana.
Il termine holodomor deriva dall’espressione ucraina «moryty holodom», che significa «infliggere la morte attraverso la fame». Sta a indicare la grande carestia che si abbatté sul territorio dell’Ucraina negli anni 1932-1933. Secondo la storica Giovanna Brogi, professore ordinario di Slavistica nell’Università di Milano e presidente dell’Associazione italiana di Studi ucraini, la tragedia fu un deliberato strumento pianificato dal regime sovietico di Stalin per distruggere le tradizioni e l’identità nazionale del popolo ucraino: in 17 mesi morirono direttamente o indirettamente tra i 4 e i 12 milioni di persone, la maggior parte delle quali erano bambini.
Denunciato nel marzo del 1933 da papa Pio XI come una delle conseguenze delle «catastrofiche e micidiali ideologie» usate come strumento d’oppressione dai governanti, per anni l’olocausto passò sotto silenzio. A richiamarne la memoria fu un altro Pontefice, San Giovanni Paolo II, con il grido «Mai più!» e l’auspicio che «la consapevolezza delle aberrazioni passate» si traducesse «in un costante stimolo a costruire un avvenire più a misura dell’uomo, contrastando ogni ideologia che profani la vita, la dignità, le giuste aspirazioni della persona».
Ogni anno la comunità ucraina in Italia commemora questa ricorrenza. Quest’anno, per l’85mo anniversario, ha scelto di celebrarla a Milano dove gli ucraini sono 8 mila (22 mila in tutta la diocesi).
«Il popolo ucraino che vuole essere guarito dalle ferite del passato, vuole chiedere a tutta l’umanità di oggi e alle future generazioni di non permettere che una cosa simile accada ad altri in qualsiasi latitudine di questo nostro mondo», spiega Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, Arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina. «Il Requiem in Duomo sarà un momento di preghiera in memoria di tutte le vittime che perirono in quella tragedia. Con questo spirito, l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha accolto volentieri la richiesta di ospitare la liturgia nella Cattedrale e ha scelto di portare, simbolicamente, la vicinanza della Chiesa ambrosiana ai nostri fratelli ucraini, decidendo di intervenire con un breve saluto», spiega don Alberto Vitali responsabile della Pastorale diocesana dei Migranti.
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da L’Indro
Holodomor: la tragedia ucraina
Si commemorano le vittime di una delle più grandi catastrofi avvenute per mano umana
di Gianmarco Cenci
24 novembre 2017
Holodomor è un termine ucraino, nato dall’unione fra le parole ‘moryty’ e ‘holodom’, e significa ‘far morire di fame’. Con questa parola è passato alla storia uno dei più grandi massacri a cui è stata sottoposta una popolazione, ossia quello della popolazione ucraina ai tempi dell’URSS di Stalin, quando un numero compreso fra i tre e i sette milioni di persone (i dati non sono precisi) persero la vita, morendo di fame, fra il 1929 e il 1932. Ogni quarta settimana di novembre (quest’anno, il 25 di questo mese) si celebra la ricorrenza in memoria di questa immane tragedia, che il Parlamento ucraino ha ufficialmente riconosciuto come genocidio.
Ma cosa successe in quegli anni? Il contesto è quello dell’URSS staliniano, in uno dei momenti più duri e difficili dell’Unione Sovietica. Iosif Stalin, al potere dopo la morte di Lenin, decise per un netto cambio di rotta nell’economia sovietica, quello della pianificazione: si scelse di programmare, appunto, la crescita economica dell’URSS, che doveva avvenire a ritmi intensi per portare l’Unione alla pari con le altre potenze mondiali. La pianificazione prevedeva il passaggio da un’economia storicamente a stragrande maggioranza rurale, a una di tipo più moderno, industriale, superando così il grande equivoco di Marx, secondo cui la Rivoluzione sarebbe avvenuta in uno Stato a forte trazione industriale, contrariamente a quanto successo nella Russia zarista. Il piano di industrializzazione di Stalin, tuttavia, si trovò davanti a una realtà completamente diversa, specialmente in Ucraina, che rappresentava la riserva di grano per eccellenza dell’Unione Sovietica; pertanto, il piano necessitava di stravolgimenti molto grandi, anche se è difficile credere che il Politburo avesse previsto l’effettiva entità della carestia e delle sopraffazioni che avrebbe subito il popolo ucraino.
Le risorse statali dovevano quindi convergere su un settore industriale ancora non al passo coi tempi e il piano di Stalin prevedeva, quindi, uno sforzo di mezzi enorme che passava dal pieno controllo dell’economia da parte dello Stato. Il tessuto di piccoli proprietari terrieri andava quindi contro questo assunto e i kulaki (questo il loro nome) furono eliminati non senza violenza. La proprietà delle loro terre passava in mano statale, che le organizzava in cooperative o aziende collettivistiche in cui trovavano impiego contadini, così come venivano requisiti i generi alimentari e la produzione agricola. La grossa resistenza dei contadini a questi mutamenti fu largamente repressa, fra uccisioni, arresti con condanna a morte e deportazioni in Siberia, intaccando così anche quelle che oggi chiameremmo le ‘risorse umane’ della forza-lavoro ucraina. La resa agricola, a seguito di queste misure, uscì largamente ridotta, ma le eccessive richieste dell’Unione Sovietica condannarono gli ucraini a una carestia massacrante. Vennero chiuse le frontiere, per evitare che i contadini ucraini andassero a cercare pane da qualche altra parte, condannandoli così a morte certa, per punirli, secondo alcune interpretazioni, per la resistenza alla collettivizzazione. Il risultato più tangibile fu che dal 1926 al 1939 la popolazione ucraina si era ridotta di 3 milioni: qualche fortunato riuscì a emigrare, molti morirono di fame, si ridusse la fertilità e diminuirono le nascite, mentre crebbe la mortalità infantile.
C’è chi ancora oggi ricorda quei giorni: i racconti concordano nel dire che aleggiava un sinistro silenzio sulle campagne dell’Ucraina, come se tutti non pensassero ad altro che alla ormai prossima morte. Ci si arrangiava con il nulla che si aveva: la cera era diventata un sostituto dell’olio e qualsiasi ingrediente era buono per fare qualcosa di anche molto lontanamente assimilabile al pane. «Dal 1931 al 1934 abbiamo avuto grandi raccolti. Le condizioni del meteo erano perfette. Ma tutto il raccolto ci veniva requisito. C’era gente che andava nei campi a cercare tane dei topi, sperando di trovare misere quantità di grano messe da parte da loro», ricorda Mykola Karlosh, testimone oculare di quei tempi. Era facile trovare cadaveri di contadini morti per strada, mentre erano alla ricerca di cibo; si mangiavano tutti gli animali possibili, quando non erano gli animali a mangiare i poveri resti degli umani; l’orrore al solo pensiero della più indicibile delle risposte alla fame, il cannibalismo: «Molte persone morivano, allora. Giacevano per strada, per i campi, galleggiavano per i corsi d’acqua. Mio zio abitava a Derevka – morì di fame e mia zia impazzì – mangiò il proprio figlio. A quel tempo, non si potevano sentire i cani abbaiare – erano stati mangiati tutti», ricorda Galina Smyrna, una sopravvissuta.
Quindi, se ho capito bene l’arcivescovo non fa sua la commerazione di un eccidio, che ha cercato di annientare un’intero popolo, ma si limita a fare atto di presenza, quando ormai la cerimonia è alla sua conclusione tanto per farsi notare e poter dire che ha partecipato anche lui…
Sembra così.
i fatti furono nascosti per lungo tempo, anche in occidente, visto che stalin era uno dei vincitori della guerra.
Anche Krusciov, che pure ne deninciò i crimini, si era limitato a parlare delle purghe nel partito….certo non poteva dire che si erano mandati a morire i contadini….
non so se vi sia ipocrisia o sentita partecipazione da parte di taluni….comunque meglio un sia pur piccolo segno, che il silenzio di sempre…..
Qualcuno mi spiega perché il gesto di Delpini sarebbe ipocrita ‘
Arriva alla fine del Requiem. Hai letto bene l’articolo della curia? Per una presenza simbolica!