Omelie 2012 di don Giorgio: Messa di Mezzanotte e Messa del Giorno di Natale

25 dicembre 2012: S. MESSA DI MEZZANOTTE

Is 2,1-5; Gal 4,4-6; Gv 1,9-14

A introdurre nella Chiesa latina l’antichissima tradizione liturgica della Messa di mezzanotte di Natale è stato senz’altro il riferimento dell’evangelista Luca ai “pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge” e che, all’improvviso, sono stati come avvolti di luce divina, mentre un angelo del Signore annunciava loro la nascita del Salvatore.
Che il Figlio di Dio per nascere abbia aspettato proprio lo scoccare della mezzanotte, questo lasciamolo credere alla fantasia popolare e al mondo delle emozioni, che del resto ancora oggi condizionano i credenti che accorrono numerosi nelle chiese disseminate nei più disparati continenti. Anche simbolicamente ha un suo significato: a mezzanotte inizia il nuovo giorno, anche se noi diciamo che inizia all’alba. Forse per questo la liturgia, successivamente, oltre alla Messa “ad noctem” (la Messa della notte) istituirà una seconda Messa, Messa “in aurora”, alle prime luci del giorno, e, successivamente, una terza Messa, “”in die”, in giornata già inoltrata. La Chiesa ha voluto così scandire i vari momenti, con preghiere e letture differenti.
In questa Messa di mezzanotte la liturgia ha scelto come Vangelo un brano del cosiddetto Prologo di Giovanni. Più che di una introduzione o di un preludio al quarto Vangelo, si tratta di un inno sublime, in prosa ma ritmata, quasi una poesia. Una delle pagine più elevate di tutta la Bibbia, e anche tra le più difficili di tutto il quarto Vangelo, come ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini: “non si finisce mai di studiarlo, di rimeditarlo, di contemplarlo”. Il cardinale poi fa una confidenza: “Quando lo si recitava al termine di ogni Eucaristia, mi sentivo ogni volta affascinato e insieme smarrito, non riuscendo a cogliere l’unità del brano, il valore delle parole misteriose che ripetevo. Tra l’altro – aggiunge il cardinale – la liturgia ambrosiana ce lo propone nella Messa della notte di Natale e spesso, in questi anni, guardando la gente riunita nel Duomo, mi sono chiesto: come potrà comprendere un linguaggio così mistico?”.
La liturgia ci offre solo alcuni versetti, in cui si parla di luce, di mondo, di gente, la sua gente, del rifiuto da parte dei “suoi”, si parla anche e soprattutto di figliolanza divina, di incarnazione del Figlio di Dio, chiamato Logos (Sapienza) e Verbo (Parola). Già questi termini diciamo filosofici fanno capire che il linguaggio ci porta in alto.
Non è il momento di entrare nel difficile. Solo una riflessione: il Figlio di Dio entra in questo mondo come vita e come luce. E la vita si scontra con la morte, come la luce si scontra con le tenebre. Un mondo che, più che ostile a Dio, è il “suo” mondo. Non tanto perché lui l’ha creato, ma perché l’ha scelto per una missione speciale. Ed è in questo mondo, il “suo” mondo, tra la sua gente, tra i “suoi” che la vita è rifiutata, che la luce non è gradita. Quando noi diciamo vicini e lontani, lo facciamo secondo un criterio prettamente religioso. Ed è appunto la religione che divide in nome di Dio, e separa Dio dal mondo. Il Natale è la più forte provocazione di un Dio che si fa rifiutare dai “suoi”. A sentirsi a disagio a Natale non dovrebbero essere gli atei, gli agnostici, gli anticlericali, i nemici della religione, ma gli amici, quelli di casa, i credenti, i cristiani. Costoro dovrebbero ad ogni Natale fare un serio esame di coscienza.
Il brano di Isaia, capitolo 2 i primi cinque versetti, sotto forma di inno è una visione profetica di vasti orizzonti. Si immagina che, alla fine dei tempi, tutti i popoli saliranno al tempio del Signore che si ergerà sulla cima dei monti. Da lassù una luce rischiarerà l’universo mettendo in fuga le tenebre: ogni cosa tornerà nel suo ordine, la pace regnerà in ogni angolo della terra. Certo, un sogno. Un bel sogno. Quanto siamo ancora lontani! Quando convertiremo le armi in strumenti pacifici per il lavoro dell’uomo: le spade in aratri, le lance in falci? Gli strumenti moderni di violenza sono altro che spade o lance. L’uomo, più progredisce, più perfeziona gli strumenti di morte. Il progresso va di pari passo con la violenza, con la supremazia di potere, con la conquista del mondo. L’inno si conclude con l’appello caratteristico dei pellegrinaggi alla città santa e al tempio: “Venite, camminiamo nella luce del Signore!”.
È anche questo il mio invito: immaginiamo di essere anche noi sulla cima dei monti (in parte lo siamo, benché si tratta di una collina), e sogniamo. In fondo ogni Natale è un sogno. Magari fugace, perché dura poco. Un sogno che ci apre il cuore alla speranza. Sembra quasi che al ritorno di ogni Natale il sogno precedente si sia perso nei meandri di un anno di miserie e di amarezze. A parte le nostre vicende quotidiane, ci sentiamo quasi sommersi da un mondo di spade e di lance, di brutture e di ingiustizie. L’egoismo non tocca mai il fondo. Stiamo scendendo sempre più in basso. Vorremmo aggrapparci a qualcosa che ci possa aiutare a risalire. Ma non c’è nulla di solido. Tutto è così inconsistente!
Vedete: tante volte mi chiedo come mai così tanta gente viene alla Messa di Natale. Un motivo ci dovrà pur essere, oltre quel fascino d’antico che ci avvince ancora, nonostante tutto. Credo che la forza d’attrazione del Natale stia nel suo fascino profondo di Mistero che ci fa sognare. Lo sappiamo che, il giorno dopo, la realtà ci riporta nel nostro mondo di sempre. Ma forse avremmo bisogno che il Natale si prolunghi, non nella suggestione dei suoi riti religiosi o profani, ma nella Speranza che il Sogno divino si avveri. Certo, almeno in parte. Gradualmente. Più che di festività natalizie, che procurano quel vuoto che succede ad ogni consumazione del piacere, è del Mistero di un Dio che si fa carne di amore e di pace che dovremmo nutrirci ogni giorno.
Natale è stasera, domani, ogni giorno. 

25 dicembre 2012: S. MESSA DEL GIORNO DI NATALE

Is 52,7-9; 1Cor 9,19b-22a; Lc 2,15-20

La Liturgia fin dall’antichità celebra tre S. Messe natalizie: la Messa “ad noctem” (la Messa della Notte), la Messa “in aurora”, alle prime luci del giorno, e la Messa “in die”, in giornata già inoltrata. La Chiesa ha voluto così che si scandissero i vari momenti, con preghiere e letture differenti.
Il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano dal 1929 al 1954, era amante della liturgia (non dimentichiamo che era un monaco benedettino). Scrisse un libro molto interessante in proposito: “Liber sacramentorum”, un commento ascetico, storico e liturgico alla Messa romana. A proposito delle tre Messe di Natale scrive: «La messa della mezza notte – gli antichi veramente la chiamavano “ad galli cantus” perché sin dal tempo di sant’Ambrogio solo a quell’ora s’incominciava la quotidiana officiatura mattutinale – ricorderebbe la nascita eterna del Verbo di Dio tra gli splendori della paterna gloria; quella dell’aurora celebra la sua apparizione temporale nell’umiltà della carne, e finalmente la terza a san Pietro, simboleggia il suo ritorno finale nel dì della parusia, quando sederà giudice dei vivi e dei morti».
Nella Messa della notte il brano del Vangelo è il Prologo del Vangelo di Giovanni, una tra le pagine più poetiche e anche difficili dei quattro Vangeli.
Il brano della Messa “in aurora” e “in die” è invece tolto dal Vangelo secondo Luca, dove si narra che i pastori, dopo aver ricevuta da un angelo la bella notizia, accorrono a Betlemme, la città di Davide, dove trovano il Salvatore, adagiato in una mangiatoia, presenti Maria e Giuseppe.
La scena dei pastori è particolarmente suggestiva, come suggestivo è il racconto dei magi. Non solo i più piccoli, anche noi adulti rimaniamo ancora oggi scossi nell’animo. Il nostro bambino interiore non cessa di farsi sentire, ed è bello che sia così. Talora pensiamo che essere adulti significhi essere più distaccati dai sentimenti, essere calcolatori, critici, e spesso anche cinici. In un mondo, come l’attuale, in cui la fredda razionalità sembra prevalere sui buoni sentimenti, sarebbe bene, oltre che salutare, togliere le briglie al nostro “fanciullino” di pascoliana memoria. Giovanni Pascoli, nel suo scritto titolato appunto “Il fanciullino” (l’immagine è stata presa dal Fedone di Platone), scrive: «È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi». È dunque una voce nascosta nel profondo di ciascun uomo, che si pone in contatto con il mondo attraverso l’immaginazione e la sensibilità. In tal modo, egli scopre aspetti nuovi e misteriosi, che «sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione». Come un nuovo Adamo, «mette il nome a tutto ciò che vede e sente», ovvero è in grado di conoscere in modo autentico ciò che lo circonda, meglio di quanto possa fare l’uomo adulto, col suo raziocinio. Infatti, continua Pascoli, «l’uomo dei nostri tempi sa più che quello dei tempi scorsi, e, a mano a mano che si risale, molto più e sempre più. I primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullo». La voce interiore del fanciullino dà vita alla poesia, nella quale dunque il linguaggio cercherà di esprimere, con strumenti come metafora, analogia ecc. un mondo che si lascia afferrare dall’intuizione e non dal ragionamento.
Noi a Natale diciamo che dobbiamo essere più buoni, più generosi, più accoglienti, più affabili, più disposti al perdono. In altre parole dobbiamo entrare dentro di noi, e far parlare la voce del fanciullino che ci è rimasto. Forse qualcuno l’ha coperto di ceneri, forse altri l’hanno di proposito fatto tacere. Noi adulti abbiamo quasi vergogna mostrare il nostro piccolo io che abbiamo dentro. Forse per questo assumiamo talora atteggiamenti duri, dispotici, autoritari. Eppure Gesù ha detto: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli». Gli studiosi ci dicono che Gesù non si riferiva solo ai piccoli per età. Parlava dello stato d’animo dei credenti, che richiama l’innocenza, la freschezza, la spontaneità, la semplicità. Forse per questo il primo a inventare il presepe è stato san Francesco d’Assisi che ha colto in profondità lo spirito del Natale, ovvero il Mistero del Figlio di Dio che si è fatto piccolo fino a entrare nel grembo di una ragazza, come tutti gli esseri umani. Ed è intorno al Bambino adagiato in una mangiatoia che si sono costruiti i racconti dell’infanzia, dovuti anche alla grande fede dei primi cristiani che hanno voluto rappresentare tutto un mondo di sentimenti umani, a partire proprio dai più grandi, per far capire loro quanto fosse necessario “tornare bambini”, nel significato più evangelico.
Chi erano i pastori al tempo di Gesù? Non erano i gentili pastorelli dei nostri presepi. Erano poco considerati. Quelli del posto diffidavano di questa plebaglia che reputavano un covo di ladri e bugiardi – un po’ come i nomadi ancora oggi – al punto che non erano ammessi a testimoniare davanti ai tribunali. È a persone di questo genere, gli ultimi fra gli ultimi, che gli angeli si rivolgono per annunciare la più grande notizia di tutti i tempi, la nascita del «Salvatore, Cristo e Signore». Ho detto: un po’ come i nomadi o gli zingari o i rom dei nostri tempi. Tranne che noi preferiamo mettere nei nostri presepi personaggi miti e carini, con tutta quella buona dose di buoni sentimenti che poi vengono a scontrarsi con la realtà di tutti i giorni.
Ogni Natale è una provocazione. Proprio in quanto credenti, dobbiamo farci provocare da un Bambino, il Figlio di Dio che si è fatto carne per i più lontani dalla considerazione di una religione che, ancora oggi, privilegia sempre “i suoi”. Scrive Giovanni nel Prologo: «Venne tra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto». Voi pensate che la Chiesa abbia colto la provocazione del Mistero del Natale? Tra canti, luci e incenso, ogni anno vuole coprire un messaggio che, altrimenti, darebbe fastidio, proprio a quei cristiani che ancora si reputano “suoi”. Proprio in quei pastorelli tanto carini dei nostri presepi c’è una provocazione da raccogliere. Non sarebbe necessario mettere altre statuine, come si usa magari fare, che rappresentano le classi sociali più emarginate. Basterebbe raffigurare i pastori così com’erano al tempo di Cristo.
Ci siamo fatti un’idea sbagliata del Natale. Sono i pastori o i lontani a risvegliare i vicini di casa. Abbiamo ridotto il Natale ad una questione di famiglia. Magari invitiamo qualche povero in casa per farlo sentire “uno di noi”. E neppure dovremmo andare da loro per portare qualcosa di nostro.
Siamo noi, “quelli di casa”, a sentirci disagiati di fronte al Mistero d’Amore di Dio che non potrà mai essere di proprietà di nessuno. Perché gli ebrei hanno rifiutato il Figlio di Dio? Perché aspettavano il Messia come se fosse “uno di loro”.
I racconti della Nascita di Gesù – non importa se siano storici oppure no – sono straordinariamente meravigliosi, d’ispirazione divina, proprio per la loro capacità di manifestare il cuore del messaggio dell’Incarnazione. Pensiamo al racconto di quella prima notte: attorno al Bambino appena nato si raccoglie un gruppetto di pastori malfamati. Solo loro. Nessun altro. E sono loro poi che vanno in giro a raccontare il fatto.
Oggi mi chiedo dove in realtà nasce di nuovo Gesù salvatore. Nelle nostre chiese, o cattedrali? Nelle nostre case o nelle nostre piazze?
Non è più questione di luogo fisico. Una bella grotta la possiamo rappresentare anche in una lussuosa villa, o nei palazzi del potere, in piazza san Pietro, o nel Duomo di Milano. Cristo vuole nascere là dove nessuno in realtà lo vorrebbe. Preferiamo adorarlo in un presepe. Preferiamo celebrarlo in una solenne Santa Messa. Dentro di noi, fa paura.
Fra poco, tutto tornerà come prima. Le eccitazioni natalizie lasceranno il posto ad altre delusioni, ad altre amarezze. Saremo sobillati dai soliti problemi socio-politici. Al tempo di Gesù a dettare ordini era il potere romano. Oggi nulla è cambiato. Roma è ancora la sede del potere. Con l’aggiunta di una gerarchia vaticana dove i pastori da secoli si sono insediati, con ben altri paludamenti e con ben altre buone intenzioni.
Risuona ancora il canto solenne: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli” (pensate, si dice: nel più alto dei cieli, al di sopra di ogni religione, nell’immensità dell’infinito), e sulla terra pace agli uomini che egli ama”. Sbagliata la traduzione: “agli uomini di buona volontà”. Non basta la nostra buona volontà, se manca l’amore di Dio.
È il canto degli angeli di Dio ai pastori. Quali pastori? Quelli al tempo di Gesù lo hanno raccolto, e hanno trovato la grotta. Quelli di oggi, le guide del gregge ormai disperso, hanno perso le tracce.     

     

1 Commento

  1. davide ha detto:

    Don Giorgio, quest’anno che sto trascorrendo il Natale lontano da casa in quanto sono venuto a trovare mia fglia che lavora all’estero, e’ stato un piacere poter leggere le sue omelie che trovo sempre intressanti illuminanti.

    Grazie

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