Film su padre Hamel: chi ha paura della gioia?
da rivista.vitaepensiero.it
Film su padre Hamel:
chi ha paura della gioia?
24.05.2025
di Daniele Zappalà
Può ancora capitare che un’opera cinematografica francese accolta in patria molto positivamente dalla critica fatichi a varcare le frontiere anche solo dei Paesi vicini, Italia compresa? Le frontiere, intendiamo, non di un solo Paese, ma di tutti, sistematicamente. Sì, può capitare, anche quando l’opera affronta fatti profondamente incisi nella memoria collettiva. Ad illustrarlo, in modo tristemente esemplare, è il caso di Que notre joie demeure, intenso film della cineasta Cheyenne Carron, dedicato a un evento che ha sconvolto la coscienza dei francesi e non solo, credenti e non: l’assassinio di matrice jihadista di padre Jacques Hamel, il 26 luglio 2016, mentre stava celebrando la Messa a Saint-Etienne-du-Rouvray, nella banlieue di Rouen.
Com’è noto, a livello religioso, la vita e gli atti del sacerdote sono al centro di un processo di beatificazione che ha seguito un iter accelerato, su decisione di papa Francesco. Ma il cammino della pellicola Que notre joie demeure è stato invece segnato da ostacoli d’ogni tipo. Autorizzazioni per le riprese spesso negate, difficoltà di finanziamento, una distribuzione nelle sale molto limitata, nonostante si tratti appunto di un film che ha il coraggio di affrontare una pagina tanto significativa della storia recente di un Paese come la Francia, dove il cinema è nato. Un Paese che ha fatto così spesso della settima arte un mezzo privilegiato per stimolare una riflessione collettiva sul presente.
La critica cinematografica transalpina, com’è noto particolarmente esigente, ha speso un fiume d’inchiostro sulle qualità filmiche, narrative e poetiche di Que notre joie demeure. Un’opera che scandaglia i percorsi paralleli di padre Hamel e del giovane che gli infliggerà il colpo fatale sull’altare, mosso dal veleno interiore del fanatismo jihadista.
Come nel caso degli altri film di Cheyenne Carron, regista ormai di lungo corso, la telecamera si sofferma con delicatezza sugli sguardi e le espressioni dei personaggi, riuscendo a sviscerarne pian piano l’interiorità. Quella di padre Hamel è segnata dal gusto dell’offrirsi agli altri, in una sorta di umile percorso quotidiano di santità. Quella del suo futuro giovane carnefice è invece contaminata, ogni giorno un po’ più, dal fiele di un odio alimentato da ispiratori esterni, ma capace ben presto di spandersi fra tutte le pieghe di una coscienza visibilmente influenzabile. Tutto questo sotto lo sguardo di una madre che sente avvicinarsi l’orlo di un baratro, senza riuscire a distogliere il figlio da questa corsa tragica.
Allo spettatore, il film risparmia ogni ostentazione inutile di scene cruente, poiché ciò che più conta è la genesi e la ‘fisiologia’ del male che si prepara ad entrare in azione. Un’opera importante, dunque, uscita in Francia un anno fa, ma che ora rischia già visibilmente di essere lasciata da parte da quei professionisti dell’industria cinematografica pronti a spendersi invece per tentare di esportare tante altre creazioni.
Attorno alla bella pellicola, apprezzata dal pubblico francese, c’è dunque pure una sorta di ‘caso’ Que notre joie demeure che merita d’essere affrontato. Anche dando la parola a colei che ne è stata la prima ‘testimone’. Colei che, per così dire, resta pure un avvocato naturale del film, in mezzo alle fortune e sfortune che l’hanno accompagnato fin dall’inizio.
«Da parte della critica, ho ricevuto un’accoglienza molto calorosa, tanto da quella diciamo di sinistra, quanto da quella di sensibilità più conservatrice. Da Télérama al Figaro. Eppure, il tema era molto delicato e difficile, anche perché evocare il fanatismo jihadista al cinema può presto attirare sull’autore l’accusa di islamofobia. Ma ho cercato di trattare questo tema in un modo profondo e al contempo equilibrato. La critica ha colto questa mia intenzione, apprezzando largamente quest’approccio», ci dice Cheyenne Carron.
Tante le reazioni che hanno scaldato il cuore della cineasta, compresa quella dei familiari dello stesso sacerdote trucidato: «La sorella del padre Hamel, Roseline, ha molto apprezzato l’attore che ho scelto per il ruolo da protagonista, tanto da fraternizzare con lui. Mi ha detto: ‘Hai fatto bene a scegliere qualcuno che fisicamente non assomiglia troppo a mio fratello, ma che ha compreso pienamente il suo cuore di bambino’. La nascita di questa bella amicizia fra Roseline e Daniel Berlioux è forse il più bel ricordo che conservo di questo film».
L’approccio poetico della regista affiora pure sul filo di ricordi che ci dice di non aver mai rivelato prima: «Mentre stavo cominciando le riprese, sono entrata nella chiesa di padre Hamel e per caso, quel giorno, ho assistito a un coro di giovani, probabilmente originari d’Africa, che interpretavano un motivo gospel. Proprio davanti all’altare dov’è morto il padre Hamel, cantavano con una foga straordinaria e con tanto cuore. Sono rimasta sconvolta da questa scena del canto, un canto giovanile cristiano di vita che prende il sopravvento sulla morte. Ho conservato questa scena magnifica nel mio cuore durante tutte le riprese, ma non ne avevo mai parlato».
Un’altra rimembranza emozionante: «Ricordo come se fosse adesso la mia prima visita del luogo in cui viveva il padre Hamel. Un appartamento estremamente semplice, lasciato intatto da Roseline. E lì, da grandissima amatrice di gatti, sono rimasta colpita, entrando nella stanza del sacerdote, proprio da alcune foto di gatti che aveva esposto sul muro. Foto di micetti. E mi sono detta che quest’uomo anziano aveva davvero conservato un cuore puro di bambino».
Ma ben presto Cheyenne Carron ci parla pure dei tanti ostacoli incontrati: «Solo poche sale hanno voluto proiettare il film, nonostante il nostro massimo impegno. Io stessa ho personalmente contattato un giorno un cinema a Rouen per convincerli, incredula di fronte a tante esitazioni e resistenze, persino a due passi dal luogo della tragedia di padre Hamel. Il gestore della sala, che si rivendica specializzata in film d’autore, mi ha risposto, senza neppure aver visto il film: ‘No, non lo prenderò, perché ormai privilegiamo i film d’animazione’. Ero talmente turbata che gli ho risposto: ‘Un prete che ha dato la sua vita per gli altri è stato assassinato a un tiro di schioppo dalla sua sala e lei non vuole neppure concederci una proiezione per un dibattito’. Ero sconvolta. Quel giorno, mi sono detta che il resto dell’umanità spesso mostra un menefreghismo sfrontato anche verso tante figure che operano anonimamente coltivando una santità del quotidiano. Purtroppo, l’ho capito e sperimentato».
Erano già state frequenti le difficoltà anche per ottenere le autorizzazioni di filmare a Rouen e dintorni. Ma su tutto, in ogni caso, ha prevalso la forza tenace della prima scintilla ispiratrice che ha spinto la regista, credente, a intraprendere il progetto: «La notizia della morte del padre Hamel, durante la Messa, fu per me uno choc assoluto. Come se avessero ucciso un bambino, o persino Dio. Fin dall’inizio, ero sicura di voler fare un film su questa tragedia, anche se poi mi sono occorsi molti anni di maturazione, prima di provarci».
In anteprima, abbiamo appena potuto assistere pure all’ultimo film della regista, L’Agneau (L’agnello), che uscirà nelle sale francesi ad aprile. Un’altra pellicola su un tema tutt’altro che semplice, dedicata al tormento interiore di un giovane prete accusato ingiustamente di aver commesso abusi sessuali. Difficile prevedere quale sarà il destino della nuova opera. Ma Cheyenne Carron, in proposito, conserva lo spirito che finora l’ha sempre animata: «Continuerò a battermi per i miei film senza mai risparmiarmi, per quelli già usciti e per gli altri già in preparazione».
Intanto, è appena uscita in Italia la traduzione di un romanzo francese ispirato proprio alla vita del padre Jacques Hamel. Le edizioni e/o hanno dato alle stampe La Grande tribolazione, del noto giornalista e scrittore Etienne de Montety.
Daniele Zappalà
Daniele Zappalà, giornalista, è corrispondente di “Avvenire”
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