da www.huffingtonpost.it
25 Giugno 2024
Italianisation. Tutto bloccato.
La Francia pensa al suo Draghi
di Cesare Martinetti
Ci si avvicina istericamente alle elezioni di domenica. Il cordone antifascista contro Le Pen non c’è più. Ma nessuno sembra avere la forza di conquistare la maggioranza. Si fa strada l’incredibile idea, all’italiana, del governo tecnico
“Ci vorrebbe un Draghi”. Il pensiero circola sommessamente nel fuori onda della politica francese, ogni giorno più isterico nell’avvicinarsi del fatidico 30 giugno, quando si capirà se davvero il paese è disponibile a consegnarsi nelle mani di Marine Le Pen. “Un” Draghi non significa Mario Draghi in carne ed ossa, benché Emmanuel Macron potrebbe anche essere disponibile a coabitare con l’ex governatore della Banca centrale europea, dal quale in tempo di Covid ha preso a prestito il famoso “whatever it takes” parafrasato e tradotto in “quoi qu’il en coûte” (costi quel che costi) per salvare le imprese francesi.
Un Draghi potrebbe davvero essere necessario se lo scenario dell’Assemblea nazionale, dopo i ballottaggi del 7 luglio, si presentasse come prevedono la maggior parte dei sondaggi e cioè con il Rassemblement National di Le Pen maggioritario ma senza la maggioranza assoluta e quindi non in grado di formare un governo. Cosa succederebbe in questo caso? Ho posto la domanda a Marc Lazar, massimo esperto dei due sistemi politici, docente a Sciences-PO e alla Luiss, e questa è stata la sua risposta: “Il presidente potrebbe cercare un primo ministro di destra tra i Repubblicani (gollisti) compatibile con il Rassemblement National che darebbe un sostegno parlamentare. Altrimenti la soluzione sarebbe un governo tecnico”. Dunque, un destino italiano per il tanto ammirato sistema semi presidenziale? Risposta di Lazar: “Oui, une italianisation de la politique française”. E non c’è bisogno di tradurre.
Ma in questo caso non basterebbe nemmeno un Draghi, perché ci vorrebbe anche un Mattarella, dal momento che il presidente nella Quinta Repubblica gollista, unto dal sacro crisma della volontà popolare, nel momento in cui perde il consenso dei citoyens è un uomo destinato alla ghigliottina più che una figura di garanzia, come sarebbe necessario per investire un ipotetico “Draghi”. Ve lo immaginate Emmanuel Macron che in questo bailamme nomina primo ministro un “tecnico” super partes che ogni mercoledì si siede davanti a lui all’Eliseo e prende le consegne per il governo? Come minimo scatterebbe l’accusa di alimentare un “colpo di stato permanente”, formula che evoca il 1848 di Luigi Bonaparte e che venne rilanciata da François Mitterrand con un celebre pamphlet contro il generale Charles de Gaulle nel 1958 quando moriva di parlamentarismo la Quarta Repubblica e stava nascendo la Quinta, quella tuttora in vita.
Macron non è certo da meno quanto a elettricità politica, la scelta di sciogliere l’Assemblea la sera del 9 giugno è stata più prosaicamente definita come l’azzardo di un giocatore di poker che in questi giorni lui stesso ha rilanciato, ancora solo poche ore fa, evocando lo spettro di “guerra civile” nel caso di vittoria delle estreme, destra e/o sinistra. Il risultato di tutto questo è così sintetizzato da Le Monde uscito a mezzogiorno in edicola: “Tra Macron e i francesi è il tempo della disgrazia”.
Ma cosa può dunque succedere dopo il 7 luglio? In realtà nessuno lo sa. I sondaggi dicono che il Rassemblement Le Pen è intorno al 35 per cento con una proiezione di seggi tra 250 e 280 (oggi ne ha 89); la sinistra con il cartello elettorale Nouveau Front Populaire (France Insoumise, Ps, Pc, Verdi) è sul 27 per cento con una proiezione di seggi da 150 a 170 (oggi ne ha circa 150). Ensemble, che sarebbe la sigla nella quale ci sono i macronisti con i centristi del Modem, avrebbe il 20 per cento con un centinaio di seggi (oggi ne ha 245) e infine i Repubblicani, e cioè gli ex gollisti, che raccolgono il 10 per cento delle intenzioni di voto con 35-45 seggi possibili (oggi ne hanno 61). I seggi all’Assemblea di Palais Bourbon sono 577, dunque maggioranza assoluta a 289 che, se questi saranno i risultati, nessuno è in grado di conquistare.
E nessuna alleanza tra questi diversi soggetti è oggi immaginabile: i tre blocchi – sinistra, estrema destra e centro-destra – si stanno ferocemente scannando senza risparmio. La vecchia formula del “cordone sanitario” antifascista che ha storicamente tenuto lontano il vecchio Jean-Marie Le Pen dal potere, con il nuovo corso della figlia Marine è ormai definitivamente caduta. In questa campagna una nuova barriera altrettanto virulenta si è invece formata contro la sinistra. Il Nouveau Front Populaire è il nuovo bersaglio, benché sotto questa sigla ci siano fior di moderati a cominciare dai candidati di Raphaël Gluksmann, vincitore morale tra i democratici alle Europee con un 13 e passa per cento, ma costretto a rientrare nel cartello del NFP per non scomparire nei gorghi del sistema elettorale maggioritario. L’ombra di Jean-Luc Mélenchon, il vecchio tribuno trotzkista fondatore della France Insoumise, ha funzionato come “épouvantail”, spaventapasseri, per centristi e conservatori, la mancata condanna di Hamas in quel tragico 7 ottobre di Israele ha sparso su quell’etichetta dell’estrema sinistra il veleno dell’antisemitismo un tempo appannaggio dei Le Pen, frusti ammiratori dei collaborazionisti di Vichy.
Fantasmi vecchi e nuovi in questo passaggio dall’esito incerto per l’intera Europa che ha al centro Marine Le Pen la quale però punta al bersaglio grosso, l’Eliseo, e nella partita del governo manda avanti il giovane Jordan Bardella, di bella presenza ma già adesso non sempre all’altezza dell’improbo compito. Alla presentazione del programma di governo, domenica, Bardella ha ribadito la misura più simbolica del Rassemblement per restituire un po’ di potere d’acquisto e cioè l’abbassamento dell’Iva dal 20 al 5,5 per cento su elettricità, gas e carburanti. Ma quando gli hanno chiesto come l’avrebbe finanziata è stato incapace di fornire una minima pista. È chiaro che il giovanotto (28 anni) candidato primo ministro del Rassemblement è il fusibile destinato a incenerirsi come uno zolfanello a contatto con l’atmosfera di Matignon, satura di potere. Ed è possibile che Macron, convocando le elezioni anticipate, avesse in mente di costruire una trappola per madame Le Pen nella quale rischia però di caderci lui stesso. Che succede se dopo il 7 luglio non si riesce a fare un governo? Per un anno, secondo costituzione, non si possono fare nuove elezioni legislative. E dunque? Per Marine, che nel frattempo si sta melonizzando per rassicurare le élites, ancora (ma non più tanto) sospettose nei suoi confronti, la risposta è semplice: il presidente deve dimettersi e si devono fare subito elezioni presidenziali anticipate. È una sfida all’ultimo sangue, costi quel che costi.
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