Il cardinale Repole alla Messa di San Giovanni: «Torino tiene i soldi in banca (76 miliardi) e le aziende se ne vanno»
da Il Corriere della Sera
25 giugno 2025
Il cardinale Repole alla Messa di San Giovanni:
«Torino tiene i soldi in banca (76 miliardi)
e le aziende se ne vanno»
di Luca Orlandi
Nell’omelia dell’arcivescovo l’appello a un’«alleanza tra generazioni» contro le culle vuote e «un individualismo sfrenato» che nega il futuro ai giovani: «Un giorno i bimbi saranno adulti e ci chiederanno conto di tutto»
La festa di San Giovanni per Torino, oltre i fuochi e i concerti, è tempo di bilanci e riflessioni. Alla solenne celebrazione, in un Duomo gremito, il cardinale Roberto Repole ha ricordato i problemi e le sfide per la città: l’inverno demografico, le accuse infondate verso i movimenti pro-vita, la precarietà dei giovani, i capitali immobilizzati nelle banche, l’iperliberismo che «che sta trasformando il lavoro in una merce disprezzabile».
All’inizio della celebrazione l’arcivescovo ha ricordato le vittime delle guerre mentre nell’omelia ha parlato della città, senza filtri e con parole coraggiose: «La modernità ci ha spinto a pensare che tutto deve essere sotto controllo. Ma la vita non è così, un figlio è una libertà, che si impone e che si dona, un’apertura all’alterità che la chiesa vive ispirata da quell’apertura all’Altro con la A maiuscola».
Repole ha insistito sul tema della vita ribadendo che siamo alle prese con un fallimento culturale epocale «è triste e un po’ inquietante, per la tenuta stessa della democrazia, che il termine pro-vita sia ormai diventato quasi un insulto da affibbiare ai movimenti che pongono il problema della natalità. Scritte violente e insultanti sono comparse ancora pochi mesi fa sui muri di Torino. Essere pro-vita sembra essere medievali.., mentre essere pro-morte, a favore dell’eutanasia, suona moderno, supposto che sappiamo che cosa significa evolverci. Mi sembra che ci stiamo suicidando».
Le parole di Repole sono dure e insieme chirurgiche nell’indicare le ferite più evidenti «la notizia durissima di questi giorni è infatti che a Torino il calo demografico sta svuotando le scuole anche le superiori: l’anno prossimo in città ci saranno 1.147 allievi in meno (senza considerare il calo aggiuntivo negli asili); a livello piemontese saranno 7.300 in meno. Sempre meno bambini, si preparano ad essere gli adulti di domani».
Stessa determinazione Repole l’ha espressa sui temi della precarietà e dell’economia: «c’è un problema di aziende che spostano la produzione lontano dalla città, mentre a Torino il 75% dei giovani (quelli che restano) trovano spesso lavori precari, contratti di pochi mesi o addirittura giorni: «come pretendiamo che mettano su famiglia e facciano figli?». L’iperliberismo porta ad un fenomeno, tutto torinese, di immobilizzazione del denaro accumulato dai grandi proprietari di patrimoni, piuttosto che investirlo nel circuito delle imprese e nello sviluppo dell’economia reale. «Non si può certo pretendere che i proprietari di patrimoni – ha evocato il cardinale – investano senza prospettive di reddito adeguato. Ma allora bisogna convincerli, bisogna portarli dalla parte della città. Il problema è una città che non riesce a convincerli. Torino ha immense sacche di povertà ma paradossalmente è anche la terza città d’Italia per numero di famiglie benestanti, che l’anno scorso hanno incrementato i patrimoni privati di un altro +6%: 76 miliardi di euro sono chiusi nelle banche». Come invertire la rotta. Repole ha spronato chi ha responsabilità istituzionale per la comunità torinese: ritrovare il fondamento dell’esperienza umana ripartendo da una intelligenza feconda e una politica alta in grado di dare dignità a tutti.
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da Il Corriere del Serra
L’arcivescovo di Torino
contro l’immobilità dei capitali
di Ferruccio de Bortoli | 25 giugno 2025
Un’omelia quasi rivoluzionaria contro la scarsa propensione a investire nel proprio Paese tipica di una società anziana
Ieri, nella ricorrenza di San Giovanni Battista, l’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, si è scagliato (e il verbo è evangelicamente corretto) contro i possessori di grandi capitali della sua città, «che preferiscono tenere i soldi in banca anziché investirli nel circuito delle imprese e nello sviluppo dell’economia reale».
Un’omelia quasi rivoluzionaria quella pronunciata dal cardinale nel Duomo della sua città. Che però è passata, ingiustamente, inosservata. Dovrebbe invece suscitare un dibattito più ampio. Ovviamente Repole è tutt’altro che un sovversivo. Non ha proposto la patrimoniale, che peraltro sarebbe errata. Non ha negato la libertà di chi ha ampi patrimoni di cercare redditività maggiori in giro per il mondo. Repole ha riproposto, se volete, una versione aggiornata della parabola dei talenti del Vangelo di Matteo.
Contro l’immobilità dei capitali tipica di una società anziana o, più correttamente, contro la scarsa propensione a investire nel proprio Paese cercando occasioni, del tutto legittime, dall’altra parte del mondo. L’Italia pesa per il massimo del 2 per cento nelle allocazioni del risparmio gestito da parte dell’asset management italiano.
Dunque, più che di immobilità bisognerebbe parlare di esoticità, magari da parte di investitori contrari alla globalizzazione e simpatizzanti di partiti sovranisti (piccola contraddizione). L’ultimo rapporto Ubs sulla ricchezza mondiale, vede crescere a 1,3 milioni i milionari (in dollari) italiani – l’equivalente degli abitanti di Milano – che siamo sicuri, anzi sicurissimi, avranno pagato le loro brave tasse.
Ora se vogliamo dare seguito laico all’omelia di Repole dovremmo chiedere loro se sarebbero disposti a fare un po’ di più per le loro città, le comunità nelle quali hanno vissuto, studiato, e operato con successo. E a credere di più nell’Italia. L’esempio conta più dei soldi.
Omelia del card. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa,
alla Messa nella solennità di San Giovanni Battista, patrono di Torino
Cattedrale di Torino, 24 giugno 2025
RIFERIMENTI BIBLICI: Prima Lettura: Is 49, 1-6 Salmo responsoriale: Sal 138 (139) Seconda Lettura: 13, 22-26 Vangelo: Lc 1, 57-66.80
Nel riportare la notizia della natività di Giovanni il Battista, l’evangelista Luca non spende molte parole. Gliene bastano pochissime. Liquida la questione in un solo versetto.
Sembra decisamente più interessato a rilevare quali siano i sentimenti e le reazioni di chi fa i conti con l’assolutamente inedito di quella nascita: gli astanti, i parenti, i vicini. Quasi a dirci che la natività di Giovanni come quella di ogni cucciolo d’uomo avviene solo laddove si crei uno spazio di attesa, di accoglienza calda, di apertura fattiva alla novità imprevedibile che ogni nuovo nato rappresenta e porta con sé. Quasi a dire che non ci può essere sopravvivenza di nessun infante se non c’è riconoscimento, cura e presa in carico da parte del mondo degli adulti. Quasi a rimarcare ciò che non avrebbe neppure bisogno di essere rimarcato, tanto è inscritto nelle fibre del nostro essere, ma che può essere oscurato ad ogni generazione dal peccato degli uomini, quello che Bonhoeffer descrive in maniera lucida come il cor in se curvum: che, cioè, la vita umana, perché si dia e ci sia, perché cresca e perché si esprima, domanda che qualcuno vi si chini sopra benevolmente, vi si accosti con meraviglia, la accolga con senso di responsabilità, con attesa indifesa e con la decisione ferma e tenace di mettere a disposizione ad ogni passo tutto ciò che quella vita richiede per essere custodita, protetta, alimentata, fatta crescere, educata.
Quasi a dire, in definitiva, che solo se ci sono donne e uomini adulti capaci di non avere paura e di accogliere la libertà inedita che ogni nuovo nato rappresenta, solo allora può esserci davvero e fino in fondo la nascita e la presa in carico di un nuovo essere umano.
Forse per questo Luca è così spiccio nell’annotare la natività del Battista, mentre si sofferma più a lungo a rimarcare il senso di gratitudine e di profonda gioia che essa inietta attorno a sé. Una gratitudine e una gioia tanto più intense quanto più esprimono il riconoscimento della straordinarietà di quella nascita: Giovanni è infatti il frutto dell’attenzione e della misericordia di Dio verso il suo popolo.
Non solo. L’evangelista riassume tutta la fanciullezza del Battista con parole altamente simboliche. Il fanciullo cresce e si fortifica nello spirito, abitando regioni desertiche, luoghi cioè che per lungo tempo lo rendono invisibile agli occhi dei più. Ma questo tempo non è infinito. Arriva il giorno in cui si manifesta davanti a Israele. Il verbo, nel testo greco originale, è molto significativo: indica il momento del manifestarsi, ma anche del prendere il proprio compito, dell’assumere la propria funzione pubblica.
Se letta con superficialità, questa pagina di Vangelo potrebbe essere rubricata a mero resoconto storico, in fondo anche molto distante da quella che è la cronaca della nostra città di Torino e dalle sfide che essa si trova a vivere oggi. Quando la si accosti invece nella sua profondità, ci si rende conto che essa non solo è uno squarcio di luce su un fenomeno così misterioso come il nascere di una nuova vita umana, ma è un faro acceso su alcune delle contraddizioni più profonde della nostra amata città.
La notizia durissima di questi giorni è infatti che a Torino il calo demografico sta svuotando le scuole, ormai anche le superiori: l’anno prossimo le scuole della città avranno 1.147 allievi in meno (senza considerare il calo aggiuntivo negli asili); a livello piemontese saranno 7.300 in meno. Sempre meno bambini “crescono, si fortificano” a Torino e si preparano ad essere gli adulti di domani.
Siamo alle prese con un fallimento culturale epocale. Stupido che sia stato sempre deriso e snobbato, considerato bigotto o di destra, l’insegnamento della Chiesa a sostegno della maternità. Miope che per sostenere, com’è necessario, i diritti fondamentali delle donne siano stati presentati come antitetici al bisogno sociale di natalità. Triste e molto inquietante, per la tenuta stessa della democrazia, che il termine “pro vita” sia ormai diventato quasi un insulto da affibbiare ai movimenti che pongono il problema della natalità: scritte violente e insultanti sono comparse ancora pochi mesi fa sui muri di Torino. Essere pro vita sembra una cosa medioevale; invece essere pro morte (combattere per l’eutanasia) suona moderno. Ci stiamo suicidando.
A determinare tutto ciò c’è il concorso massiccio di un iperliberismo che sta trasformando il lavoro in una merce disprezzabile: c’è il problema delle aziende che spostano la produzione lontano dalla città, mentre qui a Torino il 75% dei giovani (quelli che restano) trova solo più lavori precari, contratti di pochi mesi o addirittura giorni. Come pretendiamo che mettano su famiglia e facciano figli? Forse è lo stesso iperliberismo che porta ad un fenomeno tutto torinese di immobilizzazione del denaro accumulato dai grandi proprietari di patrimoni, che preferiscono tenerlo nelle banche, in quantità immense, piuttosto che investirlo nel circuito delle imprese e nello sviluppo dell’economia reale. Non si può certo pretendere che i proprietari di patrimoni investano senza prospettive di reddito adeguato. Ma allora bisogna convincerli, bisogna portarli dalla parte della città. Il problema è una città che non riesce a convincerli. Torino ha immense sacche di povertà ma paradossalmente è anche la terza città d’Italia per numero di famiglie benestanti, che l’anno scorso hanno incrementato i patrimoni privati di un altro +6%: 76 miliardi di euro sono chiusi nelle banche.
Per non dire che c’è il problema di valutare una buona volta se i nostri sistemi di welfare siano tutti efficienti come amiamo credere. Rispetto alle famiglie giovani funzionano? Come mai nei Paesi del Nord Europa (o anche più vicino: nella provincia di Bolzano) i servizi di welfare ottengono che le donne lavorino con soddisfazione e le nascite non calino?
Per Torino non c’è emergenza più grande di questa, dei bambini e dei giovani. Sappiamo che nel prossimo futuro, senza giovani, sarà difficile mandare avanti la città e per esempio sarà difficile pagare le pensioni agli anziani. Ma attenzione: i giovani non sono contrapposti agli anziani, è vero l’esatto contrario. Solo curando con ogni premura i nostri anziani, solo investendo nell’assistenza dei malati, noi dichiariamo alle famiglie che in questa società conviene vivere e avere figli che saranno trattati con amore in ogni passaggio della loro vita. Così come dichiariamo che conviene vivere quando siamo capaci di trattenere i già pochi giovani che prepariamo all’università, magari provenienti da altrove, mentre dobbiamo dolorosamente constatare che tanti di questi giovani si laureano e poi ci abbandonano, vanno a cercare lavoro in altre città.
Perché tutto questo? Perché in altre parti del mondo ben più povere di noi l’apertura alla vita, ai bambini, ai giovani continua ad essere normale, mentre da noi è il problema per eccellenza?
È qui che il Vangelo continua a illuminare. Il problema è principalmente culturale. Non è difficile vedere come alla radice dei diversi fenomeni che ho provato a inanellare ci sia un modo di rapportarsi all’esistenza fatto di dominio, di controllo totale della realtà, di crescente manipolazione di tutta la vita, in tutte le sue dimensioni. Ci possiamo illudere che questa modalità di approccio al reale – che in certa parte è necessaria e pure legittima – ci porti alla piena illuminazione di tutto. Dobbiamo riconoscere che ci fa sprofondare, invece, nelle tenebre più fitte. Ci porta a trattare paradossalmente ciò che è all’origine di ogni possibilità di dominio e di controllo, e cioè la vita, come qualcosa da temere, di cui avere paura. Con un tale approccio, la novità e la libertà di una nuova esistenza non può che rappresentare una minaccia, invece che un motivo di gratitudine e di gioia. Con un tale approccio, la responsabilità, l’attenzione e la cura che ogni nuovo nato richiede – con il decentramento che tutto ciò domanda – finiscono per rappresentare un ostacolo invece che una benedizione.
Abbiamo la possibilità di vedere fino in fondo le nostre contraddizioni. Abbiamo la possibilità di cambiare rotta. Il Vangelo continua ad essere anche per noi, a Torino, qualcosa di nuovo e di rinnovatore. Possiamo smettere di avere paura della libertà che ogni nuovo essere umano rappresenta. Possiamo cominciare a vedere davvero e fino in fondo i bambini che crescono nel deserto, lontano dai riflettori, ma che come Giovanni Battista sono il futuro. Un giorno questi bambini diventeranno adulti e si manifesteranno, assumeranno la loro funzione. Possiamo cominciare a chiederci: quale volto avranno? chi stiamo crescendo?
Soprattutto, noi adulti ed anziani che abbiamo in mano le redini della Chiesa, della politica e dell’economia – ognuno per la sua parte – possiamo ridiventare intelligenti in modo pieno e compiere sempre ogni scelta, in ogni contesto, nella prospettiva dei bambini che stanno preparandosi alla vita, che domani si manifesteranno e prenderanno il loro posto e la loro funzione.
Perché da quel posto e da quella loro funzione, domani ci giudicheranno.
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