www.huffingtonpost.it
25 Settembre 2024
Simona Lanzoni (Pangea):
“Abbiamo sentito 100 donne in Afghanistan:
tutte raccontano di aver pensato al suicidio”
di Silvia Renda
Intervista alla vice presidente della Onlus sull’apartheid di genere nel regime talebano. “Non c’è speranza, solo depressione. Una nuova generazione sta crescendo nella cultura dell’odio: tutti ne pagheranno le conseguenze, anche gli uomini”
Il prossimo 4 ottobre a Matera si riuniranno i ministri del G7 responsabili per le pari opportunità, un incontro che metterà in tavola discussioni e possibili soluzioni finalizzate al raggiungimento della parità di genere. “Sarà un summit prettamente collegato all’economia, al business. Ma non si può raggiungere l’obiettivo senza parlare di diritti umani”, la critica viene mossa su HuffPost da Simona Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea Onlus, dal 2002 impegnata nel combattere la violenza contro le donne e a promuoverne i diritti. Per porre l’attenzione sul tema, Pangea, insieme alla Rete delle donne del comune di Matera e Women without Violence International Foundation, ha organizzato nella provincia lucana un convegno internazionale di tre giorni in cui si affronteranno i temi della violenza sessuale e del femminicidio. Il convegno sarà parallelo e in concomitanza con il G7 ministeriale.
Lanzoni, perché la decisione di indire questo G7 ombra?
Nella discussione sulle pari opportunità è necessario mettere al centro il tema della violenza sessuale contro le donne, in zone di conflitto e di pace. Non ha solo conseguenze emotive, come spesso viene concepito, ma anche economiche. Si fatica ancora a parlare di stupri, molestie e aggressioni perché le donne che li subiscono sono ancora in molti casi vittime di stigma e hanno dunque paura a raccontare. Non potremo mai essere alla pari, se non ci impegniamo di più per risolvere il problema.
Per frenare la violenza di genere si sta facendo abbastanza?
Assolutamente no, vale per tutte le economie del mondo. Per questo nel nostro convegno ci saranno ospiti internazionali, vogliamo richiamare l’attenzione di tutti sul tema, chiedendo in particolare la mobilitazione degli Stati più sviluppati, affinché si discuta alla ricerca di soluzioni efficaci, da mettere in pratica. Dalla storica conferenza di Pechino, del 1995, in alcuni paesi la situazione è addirittura peggiorata. Non si sta facendo abbastanza perché questo comporterebbe investimenti economici e un cambio culturale. Non c’è volontà a impegnarsi.
A proposito di violenza sulle donne, l’associazione Pangea si occupa da sempre dei diritti delle afghane. La scorsa settimana si è tenuto sul tema un summit in Polonia, se n’è parlato davvero poco. Perché il loro dramma non raccoglie più attenzione?
La comunità internazionale ha usato la questione delle donne prima per invadere l’Afghanistan, poi come spauracchio. Sembra che in questo momento ci sia più interesse a riconoscere il governo talebano, anziché ascoltare la voce delle afghane. Ogni volta che vengono organizzati incontri tra la comunità internazionale e i talebani, come quello di Doha, segue un’ulteriore restrizione. Ci siamo chiesti perché questo accade. La contrattazione e la mediazione dovrebbe coinvolgere anche il tema dei diritti delle donne. I talebani si sentono forti di una comunità internazionale debole, che non riesce a fermarli.
Nel corso del summit polacco si è parlato molto di “gender apartheid”. Come potrebbe smuovere interventi politici?
“Apartheid” è una parola che abbiamo imparato a conoscere, associandola alla discriminazione razziale del Sudafrica: neri segregati, che non possono accedere a determinate professioni, non possono vivere in alcune zone, non possono prendere i mezzi pubblici, non possono andare in certe scuole. Questo è esattamente ciò che sta succedendo in Afghanistan, ma a essere vittima è un genere e non un’etnia. Le donne non possono per legge frequentare la scuola dopo gli 11 anni, non possono avere posizioni nella magistratura, anche perché non esiste più neanche un sistema di giustizia, non possono ricoprire cariche politiche, non possono muoversi da sole senza l’accompagnamento di un uomo, non possono cantare, non possono vestirsi come vogliono. Tutte queste restrizioni le obbligano sostanzialmente a rimanere chiuse dentro casa. Ecco perché per noi si tratta di una segregazione vera e propria. E finché le donne saranno segregate in questa maniera, ne pagheranno le conseguenze anche gli uomini. Una società che cresce così una futura generazione sarà anche portatrice di valori basati sulla cultura dell’odio. In questo momento alle Nazioni Unite è dibattuta la Convenzione sui crimini contro l’umanità e l’articolo due è riguarda proprio l’apartheid di genere. Riconoscerne l’esistenza permetterebbe di creare uno standard internazionale affinché nessuno Stato possa oltrepassare un certo limite, nella tutela dei diritti. Per esempio, il diritto all’educazione non può essere più cancellato da nessuna parte del mondo. Invece questo è avvenuto in Afghanistan solo per le donne.
Attualmente cosa significa essere donne in Afghanistan?
È una condizione terribile. Abbiamo intervistato 100 donne afghane, tutte hanno raccontato una vita rinchiusa, domestica. Vivono con il terrore di irruzioni di talebani nelle case, alla ricerca di ragazze da sposare. Uuna donna ci ha raccontato di essere stata costretta ad affrontare i talebani dopo aver portato suo figlio di due anni in ospedale, perché nessuno uomo adulto era con lei. Vivono nel terrore e in uno stato mentale di estrema depressione. Tutte queste 100 donne hanno raccontato di aver pensato al suicidio almeno una volta nell’ultimo mese.
È compatta la loro volontà di uscire da questa situazione o c’è chi non ne riconosce il bisogno? L’oppressione ha in qualche modo attecchito nella mentalità di qualcuna?
Forse qualcuna sì. Ma le donne con cui sono in contatto desiderano poter uscire di casa, vorrebbero una vita normale. Sono donne che non possono chiedere giustizia quando vengono abusate. Sono donne che se mettono i jeans vengono frustrate per strada, sono donne che hanno paura di essere lapidate. È chiaro che c’è un’oppressione e c’è un’accettazione dettata semplicemente dall’impossibilità di opporsi, e non perché quella vita le renda felici. Avere una figlia di 17 anni significa vivere nel terrore che un giorno qualcuno possa rapirla e portarla via da te per sempre.
E cosa significa invece essere donne afghane: qual è la condizione di chi è fuggito?
In Pakistan o in Iran vivono una condizione terribile, vengono considerate rifugiate di serie B. Non sono paesi che le hanno accolte a braccia aperte, anzi, spesso le hanno rispedite in Afghanistan. In Europa cercano di integrarsi, ma è un percorso difficile, vivono a metà: spesso i loro familiari sono rimasti nel paese, è lacerante avere un richiamo verso la propria terra, senza però poterla raggiungere, poter abbracciare i propri affetti.
La cultura oppressiva può essere esportata: le afghane sono più soggette a violenze anche fuori dal proprio paese?
No, questo non possiamo dirlo. Purtroppo sappiamo che ovunque andiamo le violenze sono trasversali, a prescindere.
Qual è la situazione in Italia?
Molte afghane si trovano nei centri di seconda accoglienza, altre stanno uscendo e si stanno integrando. Molto spesso le donne sono accompagnate dalla famiglia, ma quando sono sole hanno maggiori difficoltà a integrarsi.
Perché questa violenza da parte di talebani? Qual è la necessità di togliere alle donne persino la voce?
È una sfida al sistema occidentale dei valori. Sono antigovernativi, antisistema e applicano un’interpretazione restrittiva del Corano.
Per chi si occupa di sostenere i diritti delle donne afghane, che momento è questo? Una fase di sconforto o vedete uno spiraglio?
È un momento molto difficile. Se penso al 2021, è come quando al Gioco dell’oca con un solo tiro ti ritrovi su una casella che ti costringe a ritornare al punto di partenza. C’è un grosso sconforto. La condizione delle donne afghane dovrebbe ricompattare il movimento delle donne a livello globale, perché quello che sta succedendo lì, avrà ripercussioni in tutto il mondo.
Commenti Recenti