27 febbraio 2022: ULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Sir 18,11-14; 2Cor 2,5-11; Lc 19,1-10
Vorrei soffermarmi sul terzo brano, ovvero sulla conversione di Zaccheo. Il racconto è di Luca, l’unico evangelista a tramandarcelo.
L’episodio riguarda uno che faceva parte dell’ingranaggio del potere: Zaccheo, “capo dei pubblicani e ricco”. Chi erano i pubblicani? Già la parola pubblicano è una risposta. Deriva dal latino “publicum” che significa tesoro pubblico, erario, tassa. La parola è passata nel Vangelo a indicare i pubblici peccatori, uniti alle prostitute. I pubblicani erano coloro che avevano in appalto la riscossione delle tasse nell’antica Roma. Venivano scelti tra la stessa popolazione che era sotto il dominio dell’impero romano. Ecco perché erano odiati dal popolo, in quanto collaborazionisti. C’era di più: erano strozzini e ladri, perché i romani lasciavano ai gabellieri una certa libertà nella riscossione delle tasse, purché rispettassero la quota pattuita da consegnare all’impero. Zaccheo inoltre era un capetto che si era arricchito più dei suoi dipendenti. Ed è qui la cosa interessante. Gesù si rivolge proprio a un capo dei pubblicani, e lo converte. Lo toglie dall’ingranaggio.
Da notare che al seguito di Gesù si troveranno dei pubblicani, ma non vi sarà alcun fariseo. Sempre nel Vangelo di Luca, il primo che Gesù espressamente invita a seguirlo è proprio “un pubblicano di nome Levi”.
Ciò che vorrei evidenziale del racconto di Luca sono alcuni verbi e alcune parole.
Notiamo subito il verbo “attraversare”. Gesù, scrive Luca, “entrato in città, la attraversava”. Il verbo è all’imperfetto (“attraversava”), quindi indica un’azione non conclusa, un’azione che continua, come se Gesù stesse sempre per attraversare la città. Indica anche un’attenzione particolare. Gesù non sta camminando distratto con in testa tanti pensieri. La città di Gerico non è un luogo di passaggio, per andare altrove. Gesù entra di proposito nella città, con uno scopo ben preciso.
Gesù cammina, non corre. Cammina, attento. Cammina, e osserva: guarda e vede. Si può guardare, senza vedere. Vedere è ben più che guardare. Si possono guardare tante cose, e tra le tante cose vedere solo una. Come quando Gesù “vede” il cieco ai bordi della strada. Gesù lo “vede”, e si ferma, a differenza di tanti altri che passavano senza vederlo. Come il buon samaritano che, a differenza del levita e del sacerdote che proseguono oltre senza vedere, “vede” l’uomo disteso a terra, colpito dai briganti. “Vede” e lo soccorre.
C’è di più. In quel verbo “attraversava” la città c’è un atteggiamento costante di attenzione. Non è la gita di un giorno. Non è il solito percorso che dobbiamo fare per andare al lavoro. È uno stato d’animo di chi attraversa la vita in atteggiamento spirituale, avendo gli occhi aperti dello spirito. Lo spirito vede nel profondo, il corpo vede di sfuggita.
Ogni città ha le sue strade, ogni paese le sue vie. Strade e vie che si mettono talora per traverso, quasi a fare da ostacolo al nostro vedere con gli occhi dello spirito. Più vie, più deviazioni dal nostro vedere la realtà del luogo. I cartelli stradali servono per indicarci verso dove siamo diretti, ovvero altrove, oltre quella città o quel paese.
La nostra vita è tutto un cammino con numerosi cartelli che ci indicano l’altrove, lontano dalla vera meta.
Quale altrove? Sempre altrove. Camminiamo verso una meta che non è una meta finale. Camminiamo alla cieca. Attraversiamo città e paesi, guadando distratti le cose, ma senza vedere con gli occhi dello spirito la realtà interiore del nostro vivere.
C’è un altro verbo su cui vorrei soffermarmi, ed è “cercare”.
“Zaccheo… cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura”.
Cercava che cosa? Non i soldi: ne aveva sopra i capelli, anche se era piccolo di statura, e forse per questo i soldi lo rendevano più grande di quanto lo fosse fisicamente. Ci sono persone fisicamente orrende, ma i soldi le rendono appetibili, desiderabili, attraenti. Basta un po’ di potere o di ricchezza, e una persona diventa bella, anche se è uno sgorbio fisicamente. Il potere o la ricchezza trasforma.
Zaccheo si sentiva importante per il suo ruolo e il suo mestiere, un daziere senza scrupoli, anche se la gente lo odiava. Lo odiava e lo invidiava.
Noi odiamo il capitalismo, ma invidiamo i capitalisti: vorremmo essere come loro, potenti e ricchi, ma, siccome è impossibile, ci rimane il sogno, il desiderio. Lo dico spesso: i desideri stressano di più della realtà, come i bambini che fanno i capricci per volere un giocattolo, poi quando ce l’hanno, ci giocano per un po’, e non lo guardano più. E fanno altri capricci, e così via.
Gesù non “vede” la folla, ma “vede” Zaccheo, perché vede in Zaccheo la sua voglia di cercarlo. Era ricco, ma gli mancava qualcosa. “Cercava di vedere chi era Gesù”. L’unico tra la folla a “cercare di vedere chi era Gesù”.
La folla cercava il Gesù taumaturgo, uno che faceva miracoli. A Zaccheo non interessava questo Gesù, ma un altro: quell’altro che la folla non voleva conoscere.
Zaccheo capiva che quel Gesù aveva qualcosa di particolare, di ultraterreno.
“Cercava di vedere chi era Gesù”.
“Cercava…”: non era la sua statura fisica a impedirglielo. Era salito su una pianta di sicomòro. E dall’alto, quasi in modo ridicolo, voleva cogliere ciò che la folla, dal basso, non riusciva, non voleva capire.
“Cercava di vedere…”. Vedere non con gli occhi fisici, ma con altri occhi, ancora annebbiati, ma in quel “cercare di vedere” c’era tutto uno sforzo di andare oltre quella carnalità che gli faceva vedere solo i soldi da manovrare, rubando anche alla povera gente.
I soldi arricchiscono, danno l’idea di ottenere un certo benessere materiale, ma annebbiano gli occhi dello spirito. I soldi, spegnendo lo spirito, creano quel mal-essere spirituale, la vera malattia dell’uomo moderno.
Bisogna proprio toccare il fondo della carnalità più consumistica per iniziare a capire che si è perduti? Bisogna arrivare ad essere come Zaccheo per iniziare la via della conversione? A che serve condannare i ricchi, quando non condanniamo anzitutto le ricchezze o quel mondo dell’avere che costituisce oggi, forse più di ieri, la vera causa del mal-essere generale di una società che proprio non vuole capire che il bene non è avere, non è potere, non è sapere umano, ma quel Bene Sommo, da cui tutti siamo emanati per tornarci, non alla fine della vita, ma durante, perché questo è il vero senso del nostro vivere: quella Grazia divina, che è la vera ricchezza del nostro mondo interiore.
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