Omelie 2013 di don Giorgio: Quinta domenica di Pasqua

28 aprile 2013: Quinta di Pasqua

At 4,32-37; 1Cor 12,31-13,8a; Gv 13,31b-35

Il primo brano è una specie di sommario con cui Luca cerca di cogliere ciò che univa i primi cristiani in una comunità d’intenti, facendo sì che si sentissero “un cuore solo e un’anima sola”. Un’espressione che andrebbe intesa bene. Già le parole sono indicative: si parla di una unità di cuori e di anime, prima e al di là di ogni organizzazione, che è la caratteristica di ogni sistema politico o religioso. Solitamente rimaniamo colpiti dalla compattezza potente ed efficace della struttura, nelle sue varie manifestazioni. E tutto ciò richiede obbedienza, ordine, disciplina. Anche il cristianesimo, man mano si trasformava in un sistema religioso, era costretto ad assumere queste caratteristiche, ma a discapito della sua forza interiore. Più la struttura s’ingrossa, più perde nello spirito. La storia insegna, ma nessuno raccoglie l’insegnamento. Si parte dal poco, poi a poco a poco la cosa diventa imponente, e così si finisce schiacciati dalla stessa struttura. Ogni struttura che s’ingrossa e poi perde l’anima, conosce il tramonto. Ecco gli imperi del passato, di cui oggi vediamo tanti ruderi, ecco i movimenti che diventano col tempo statici, spegnendo idee e ideali, che erano la loro forza iniziale.
Certo, l’unitarietà di cuori e di anime richiede anche una certa visibilità. Il brano di oggi degli Atti degli apostoli cita un esempio concreto: una volontaria comunione dei beni materiali. Si è parlato di comunismo ante litteram: un anticipo di quello che poi sarà l’intuizione di Carlo Marx. Tuttavia sarebbe troppo riduttivo leggere il brano di oggi  come il primo caso di comunismo cristiano. Carlo Maria Martini ha dato una sua interpretazione: secondo il cardinale, non si trattava di una rinuncia radicale alla proprietà privata; non è che tutti fossero costretti a privarsi dei loro beni; si trattava invece della “disponibilità” a mettere i propri beni al servizio degli altri, per venire incontro alle necessità dei bisognosi, ma quando la situazione lo richiedeva. A me pare che questa lettura di Martini sia interessante e da valutare. Una lettura che coglie il cuore del cristianesimo come carità interiore e come disponibilità concreta ad aiutare in qualsiasi momento i poveri.
Dunque, i primi cristiani non si sentivano obbligati a mettere tutto in comune. Si sentivano invece obbligati, in forza della loro fede, a rendersi “disponibili” ad aiutare anche concretamente, con i propri beni, chi si trovasse in qualche difficoltà economica. È questo l’aspetto che Luca vuole sottolineare: era veramente encomiabile la disponibilità d’animo dei primi cristiani! Quasi un istinto naturale – frutto della loro fede nel Dio d’amore – in forza del quale, davanti al bisogno o alla richiesta d’aiuto, non si fermavano a pensare due volte prima di intervenire. La carità concreta era il frutto spontaneo della loro fede.
Parlare di istinto naturale sembrerebbe quasi che si possa fare a meno della fede in un Dio. Anche gli atei sono generosi, capaci di atti eroici di altruismo. Forse perché già il fatto di essere umani ci porta ad essere fraterni, a sentirci della stessa famiglia, quella appunto dell’Umanità di cui facciamo parte. Ma la fede sembra stimolarci di più, sembra quasi che aggiunga qualcosa. In realtà non è così. La fede non è un supplemento o quel di più che serve a distinguerci dagli altri che non credono. Noi cristiani non dobbiamo essere più caritatevoli degli altri, dimostrando così di essere migliori.
Ho conosciuto Movimenti ecclesiali che facevano della carità un distintivo, quasi un incentivo per dare una certa soddisfazione interiore ai loro seguaci. Talora anche come motivo di attrazione. “Venite da noi: guardate come siamo bravi! Mettiamo tra le nostre opere una proposta caritativa”. E se tale proposta era d’avanguardia, era ancora più attraente, stimolante soprattutto tra i giovani.
Dire “istinto naturale” significa far capire che il cristianesimo “riscopre” la nostra vera natura umana, che consiste appunto nel sentirci fratelli. Il servizio, la carità, l’amore per gli altri non sono un’aggiunta o un privilegio del nostro essere cristiani. Per la nostra stessa natura umana siamo altruisti, generosi, disponibili a soccorrere i bisognosi. La fede in un Dio, dunque, mi è di stimolo, come potrebbe essere di stimolo la fede nell’Umanità. Gli atei agiscono per la loro fede nell’Umanità, i cristiani per la loro fede nel Dio dell’Umanità. Possiamo trovarci d’accordo. Il problema è che se gli atei talora faticano a credere nell’Umanità, noi cristiani talora e spesso separiamo Dio dall’Umanità. La religione, più è rigida più separa. Invece il cristianesimo puro unisce: porta all’Umanità.
Anche nel campo politico varrebbe lo stesso discorso. Ma qui le cose si complicano. È difficile far capire il concetto autentico di solidarietà umana in una società dove a prevalere è la legge del mercato o dell’economia. Parliamo sì di diritti umani, in pratica però rimaniamo chiusi in un mondo individualistico o corporativistico. L’individualismo è frutto di un certo progresso economico: quando stiamo bene, allora la carità perde il suo istinto naturale. E quando torniamo ad essere poveri o precari o in difficoltà per una improvvisa crisi economica devastante, non è che torniamo ad essere solidali nel vero senso della parola. Si pretende l’assistenza, e basta, ma non torniamo ad essere umani. Ognuno lotta per sé, e pretende di essere aiutato, ma non aiuta l’altro che si trova nelle stesse difficoltà. Dite quello che volete, ma al tempo delle lotte sindacali di anni fa, quando gli operai non conoscevano ancora i diritti sociali conquistati poi con le loro lotte, c’era grande spirito di solidarietà sociale. Oggi, non vedo più questo spirito di corpo. A parole, sì. Oppure nei casi di emergenze, ma sempre, ripeto, quando ci si trova in difficoltà, e allora si grida rivendicando diritti più individuali che sociali. Non è una contraddizione, spaventosa contraddizione, che gli operai d’oggi votino per i capitalisti? Dal comunismo sono passati al più osceno berlusconismo.
I primi cristiani, dunque, erano disponibili a vendere ciò che avevano appena si accorgevano che qualcuno si trovava in difficoltà. È sulla disponibilità d’animo che bisognerebbe puntare per far capire che, se non c’è apertura di mente e di cuore, ogni cosa che facciamo è solo forzatura. E ciò lo si nota quando per smuovere le coscienze bisogna fare un’opera tale di persuasione o di convincimento da costringere l’altro a compiere un’opera buona per mettere la coscienza a posto. C’è qualcosa che blocca il nostro essere umani. C’è qualcosa che ci chiude in un tale egoismo oppure in una tale indifferenza che dovrebbe, appena ci accorgiamo, mettere in crisi il nostro essere umano. Certo, anche oggi si nota una grande solidarietà nei momenti di emergenza: si fa il proprio dovere offrendo un po’ di denaro, e nello stesso tempo si continua a vivere nello spreco, senza capire la lezione, ovvero che ogni emergenza collettiva deve essere un esame di coscienza per tutti, precari e non precari, occupati o disoccupati, ricchi e poveri.
Noi cristiani parliamo tanto di carità di Dio, usiamo parole stupende sull’amore per il prossimo, e poi, appena siamo chiamati in causa, troviamo mille scuse per non impegnarci, continuando a fare elogi sulla carità di Dio e sull’amore per il prossimo.
Se almeno una delle migliaia di parole che usiamo la traducessimo nella vita concreta di tutti i giorni, non saremmo certo a questo punto di crisi di valori, di disimpegno socio-politico ed ecclesiale, di contraddizione tale da chiederci: è mai possibile che non ci rendiamo conto che i primi responsabili siamo noi, ciascuno di noi, per le nostre scelte sbagliate, per le nostre incoerenze, per il nostro modo di pensare e di agire a partire dalle piccole cose, dall’ambiente in cui viviamo?
Certo, fa piacere notare che ci siano forti gesti di rinnovamento, azioni altamente profetiche, personaggi che danno speranza per la loro umanità, ma ciò non basta. Oggi tutti pretendiamo che la società si rinnovi e che la Chiesa si umanizzi, ma è la base che è immobile. E ciò fa paura. Manca la coscienza che siamo umanità e che siamo figli dello stesso Padre. È questa coscienza che stabilisce poi le scelte o i criteri di convivenza. Non ci sarebbe bisogno di imporre nulla. Ognuno di noi si renderebbe disponibile, nella misura della propria responsabilità e della propria consapevolezza di appartenere alla stessa umanità e di appartenere alla stessa famiglia di Dio. Cittadini o credenti, non c’è differenza. Le motivazioni possono essere diverse, ma il fine è lo stesso: l’Umanità accomuna credenti e atei.

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