Un prete “pagliaccio” che gesticola
e dice nulla di radicalmente evangelico,
ed è della diocesi “bauscia”
di don Giorgio De Capitani
Vorrei limitarmi a pacate riflessioni, senza cadere (possibilmente) nel rischio del turpiloquio o di implacabili giudizi – del resto già espressi in articoli precedenti –, che escono anche spontaneamente quando si ha a che fare con preti giovani e meno giovani per il loro modo di fare supponente e indisponente.
Parto da una personale convinzione, frutto anche di esperienze pastorali: sì, è vero, d’altri tempi, ma non per questo da scartare del tutto, quando le esperienze attingono a qualcosa di Eterno.
Anzitutto, già l’ho scritto, il prete per la sua stessa vocazione diocesana vive di località, o di amore totale e radicale per quel posto di lavoro che gli è stato assegnato. E dire località è dire incarnazione in quell’ambiente che è la parrocchia, che pur grande è sempre limitata: ne so qualcosa quando mi avevano assegnato una delle più grosse parrocchie, quella di S. Giuseppe, a Sesto San Giovanni, negli anni appena post ’68.
Quando, dopo tot anni – anche allora c’era mobilità dei preti – ci veniva assegnata un’altra comunità, in punta di piedi si andava a vedere il nuovo posto di lavoro: quel pezzettino di regno di Dio, assegnatoci per volere di superiori che non sempre sceglievano secondo la saggezza divina.
Anche ai miei tempi non ho mai sopportato l’esibizionismo, che allora si manifestava in modi diversi: oggi basta poco per andare sui giornali.
Come si fa a stare zitti dopo aver letto l’intervista rilasciata da don Alberto Ravagnani al giornalista del Corriere e al giornalista della Repubblica? Due interviste da integrare.
“Andrò”, “farò”, “questo è il mio programma”, “ho già un progetto”, “c’è già una struttura che porterò con me”, e così via. Tutto pre-confezionato, in una valigetta già pronta, ritardando casomai il trasloco per fare più scena.
Anzitutto, da fare dovrebbe essere un serio esame di coscienza: la parrocchia che lascio che cosa mi insegna? c’è qualcosa di cui dovrei rimproverarmi? non è forse quel non essere stato sempre fedele al mio posto di lavoro? Sempre o quasi sempre assente dalla comunità perché richiesto da impegni altrove, a causa della mia notorietà, ciò non ha determinato un certo distacco da quella che doveva essere la mia gente da servire senza avere la testa… altrove?
Più diventi famoso, più sei richiesto, e più evadi dal tuo dovere locale. E così hai tradito la tua gente, rimasta delusa…
Se tu adesso vai nel nuovo posto di lavoro con lo stesso spirito di evasione (è sempre evasione, quando si è fuori dalla propria parrocchia per motivi che vanno oltre il tuo amore per la tua gente), allora fèrmati, sei ancora in tempo, e pòniti la domanda: non sarebbe il caso di fare altro che il prete di parrocchia? Perché prendere in giro una comunità che non desidera altro che un prete che voglia bene alla sua gente?
Non vorrei tornare sulle tue doti di comunicatore mediatico, che sempre più contesto a fondo, sia per quel discutibile primato che vorresti dare a questi mezzi mediatici quando è in ballo il Vangelo di Cristo, sia per quel tuo gesticolare da paranoico che ritengo inadeguato alla parola di Dio, che ha le sue vie, i suoi modi, la sua riservatezza, il suo decoro, la sua nobiltà, per farsi voce interiore dello Spirito.
Vedi, tu fai tanti versi, gesticolando talora come un demente, ma comunichi il nulla o meglio un pane già raffermo. Sei di una scontatezza allucinante! Il tuo comunicare non tocca il cuore del Vangelo, che è ben altro che carnalità di parola senza quel scendere in fondo al Pozzo divino. Sei di una banalità sconcertante! Più fai versi, più sradichi la Parola dalla sua Sorgente divina. Rimani fuori del Pozzo, e lasci fuori del Pozzo quanti invece vorrebbero dissetarsi, come la donna di Samaria, al mondo del Divino.
Carlo Maria Martini aveva poco di quell’oratoria che anche allora sembrava indispensabile per uno che governava la Chiesa, soprattutto nel ruolo di cardinale di Milano. E con Martini il Duomo si riempiva di migliaia di giovani che accorrevano a sentirlo: parlava con voce quasi piatta, sommessa, ma autorevole e incisiva, ed entrava nel cuore dei giovani, che tornavano a casa carichi di qualcosa, dentro.
Ma tu, don Alberto, che cosa vuoi ottenere? Facendo il pagliaccio, vorresti catturare l’intelletto dei giovani? Certo, catturerai qualcosa o qualcuno ma solo nella loro esteriorità, nella loro pelle, per poi perderli di nuovo… E non dirmi che il Vangelo non è qualcosa di intellettuale! Chiariamo: che cosa s’intende per intelletto? Cristo non ha forse detto: “Metanoèite!”, ovvero cambiate il vostro modo di pensare? Ovvero, avete l’intelletto spento o deviato, lo avete sostituito con la mente che mente, e allora, se non vi riprendete l’intelletto puro, avrete sempre in testa idee strampalate e anche il vostro modo di vivere sarà strampalato.
Che cosa pretendi di fare: di catturare i giovani cambiando il loro modo di pensare e di agire, con strumenti mediatici che comunicano un vuoto d’essere? Lo puoi anche fare, avrai qualche risultato anche immediato, ma durerà poco, se non avrai almeno tentato di proporre l’invito di Cristo: Cambiate mentalità, “Metanoèite”.
E poi, lo sai, non sei del tutto un idiota: sai quanto sia importante il lavoro di prevenzione. Mi fa riflettere, quando sento parlare di giovani “fuori controllo”, di “maranza” (parola per me ostrogota!) da riportare sulla giusta strada. Bisogna avere il coraggio di fare una scelta tra il ricupero e la prevenzione; e, se devo dirla tutta, il prete diocesano, più che sul ricupero, opera di preti più specializzati, deve scommettere sulla prevenzione, e il campo educativo preventivo è proprio l’oratorio, che richiede l’impegno a tempo pieno di un prete possibilmente giovane, che mangia polvere coi suoi ragazzi, come facevamo noi preti di una volta, che avevamo una sola cosa: un attaccamento quasi “morboso” al proprio dovere di prete di oratorio.
L’argomento richiederebbe più tempo. Ma che rimanga almeno l’idea che per rincorrere i “maranza” dando loro qualche biscottino cattolico, magari anch’esso drogante, non si debba trascurare quel valore comunitario, che è l’ambiente sempre da privilegiare a ogni altro hobby evasivo del prete, a cui torna comodo prendersi qualche momentanea soddisfazione, evadendo però dal suo dovere di radicale impegno per la propria comunità.
Località, prevenzione, fedeltà al proprio posto di lavoro, avere dentro un pensiero grande al di là dell’immediato, ecco in sintesi il prete diocesano.
Oggi anche il prete diocesano si è fatto prendere dalla suggestione della “periferia”, dimenticando che oramai tutto è periferia, senza doverci andare per vocazione di ispirazione papale, e così si è vittime, quasi drogati, dell’idea fissa di andare ancora in periferia, sempre più in periferia, a meno che non si tratti di un circolo vizioso, e in questo caso tutto torna al principio.
La vera periferia è il fatto che si è fuori di quel sé, che è il proprio essere interiore, e allora bisogna trasformare la periferia di ogni credente – bisogna pur partire e dunque partiamo dai credenti – nella esigenza evangelica di rientrare in sé, nella casa di quel Mistero divino che è il nostro essere più profondo.
NOTABENE
Dopo l’intervista che don Alberto ha rilasciato al giornalista del Corriere e al giornalista della Repubblica, vi invito a leggere l’articolo che segue: “Si può evangelizzare via social senza travestirsi da influencer”.
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dal Corriere della Sera
Don Alberto Ravagnani,
prete social da 150 mila follower, arriva a Milano:
«Per me una parrocchia in Darsena, tra i maranza»
di Matteo Castagnoli
Il sacerdote, ora a Busto Arsizio, da settembre sarà vicario parrocchiale nella chiesa di San Gottardo al Corso. Durante la pandemia i suoi video di fede su YouTube e sui social hanno conquistato migliaia di ragazzi
«Don Rava» arriva a Milano. Anche se per abitudine lui, trentenne brianzolo di Brugherio, c’è sempre stato. Si definisce un «prete milanese». Di fatto, almeno una volta il risotto con «l’oss bus» l’ha mangiato, pur non essendo una specialità della «sua» Busto Arsizio. Dove dal 2018 è coadiutore dell’oratorio san Filippo Neri della parrocchia san Michele Arcangelo, il suo primo incarico sacerdotale. Ma da settembre, don Alberto Ravagnani si trasferirà. La nuova casa del don da oltre 150mila follower su Instagram e 90mila su TikTok — conquistati nei primi mesi della pandemia anche grazie ai video sulla fede — sarà la chiesa di San Gottardo al Corso, a due passi dalla Darsena.
La notizia la dà, neanche a dirlo, don Alberto attraverso le storie Instagram nel giorno del suo trentesimo compleanno: «Lascerò la chiesa dove sono diventato prete alla volta di Milano. Mi occuperò di giovani, di social e continuerò a fare contenuti. Scriverò anche un libro».
Dunque, don Ravagnani, benvenuto.
«Grazie, per me questo passaggio coincide con un cambio di vita. Compiuti i trent’anni, si conclude un ciclo. Qui a Busto ho iniziato a fare il prete nel 2018. Poi la pandemia, e tutto s’è fatto veloce. Fino all’arrivo a Milano».
Destinazione?
«Sarò vicario parrocchiale nella chiesa di San Gottardo al Corso, a due passi dalla Darsena».
E dalla movida.
«Già, non farò il bagno tra i Navigli, ma tra la gente».
È una zona molto frequentata dai giovani, i «suoi» giovani. Che progetti ha in mente?
«Non mi sono fatto idee. Voglio che sia la prossimità con loro a dirmi come agire. Capirò su cosa ha senso muoversi. Ma di certo starò in mezzo a loro, in piazza, li andrò a cercare».
Inoltre, è uno dei punti di ritrovo preferiti dai «maranza».
«I ragazzi che Dio mi manderà li accoglierò come miei figli. E poi credo che i “maranza” di Busto non siano molto diversi da quelli di Milano. Il cuore delle persone è lo stesso e se uno si sente ben voluto, allora non ci saranno barriere».
In generale, come crede cambierà la sua attività pastorale con l’arrivo in una grande metropoli?
«Milano è al centro di tante cose. Questo mi permetterà di andare più lontano e al tempo stesso di essere raggiunto più facilmente. Spero arrivino tante persone a trovarmi».
Non vivrà da solo.
«Esatto, condividerò una casa con altri 6 ragazzi di 19 anni. Hanno scelto di dedicarsi totalmente a questo percorso di crescita, per formarsi. Avevano iniziato a condividere con me la loro missione e vogliono darle vita. Tre vengono da Busto Arsizio, uno da Siena, un altro da Arezzo e un altro ancora da Trieste. Sono tutti studenti: chi di teologia, chi di comunicazione o psicologia».
Dove starete?
«In uno spazio all’interno della parrocchia».
Secondo lei, di cosa ha bisogno Milano?
«Da fuori sembra un mostro. Ma più che altro, come i grandi centri urbani, il rischio è la spersonalizzazione. Nel flusso eterogeneo di persone ci sono ritmi diversi rispetto a quelli del paese».
Quindi?
«Non bisogna perdersi la vita delle persone. Per questo servono luoghi che siano case, in cui ritrovare i valori fondamentali: tutti abbiamo bisogno di un padre, di una madre, di un fratello o di una sorella o di un amico. Non dobbiamo essere costretti a frequentare solo “persone-colleghi”. Servono contesti per garantirlo, un tempo e ancora oggi possono essere gli oratori».
Con le vocazioni in calo, nelle metropoli si va sempre più incontro a una sproporzione tra fedeli e sacerdoti.
«I preti, pochi o tanti che siano, lo sono perché devono essere felice. Sacerdoti affannati, stressati, imbruttiti sono poco affascinanti e credibili. Certo, una vita in cui siamo tirati da una parte e dall’altra ci porta ad esserlo. Però ci vuole serenità, solo così gli altri saranno portati a farsi domande sulla propria vocazione».
Quando la vedremo in città?
«Ufficialmente dal primo settembre. Ma arriverò qualche giorno dopo: il tempo di traslocare».
L’osso buco l’ha mai mangiato?
«Non si fa a Busto, ma certo, l’ho provato. E lo riproverò, sono un “prete milanese” alla fine».
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da Repubblica
Don Alberto Ravagnani, il prete Youtuber
sbarca a Milano nella parrocchia
vicino alla movida dei Navigli:
“La Chiesa ha bisogno dei social”
di Orlando Mastrillo
25 Agosto 2023
Oltre 150 mila follower su Instagram, 90 mila su TikTok, milioni di visualizzazioni su You Tube e un oratorio di un quartiere da Busto Arsizio da gestire. Don Alberto Ravagnani, prete influencer, lascia dopo 5 anni la comunità di giovani che ha seguito tra innovazioni, qualche scontro e tanto arricchimento. In questi anni ha gestito l’oratorio San Filippo Neri, nel quartiere centrale di San Michele, e nel frattempo è riuscito a scrivere un libro (La tua vita e la mia, Rizzoli) e a farsi conoscere ben oltre i confini della città grazie al suo catechismo on-line durante la pandemia e a un “duello” a colpi di post sulla pedofilia nella chiesa con il rapper star dei social, Fedez.
Don Alberto lascia Busto Arsizio per approdare a Milano. Come giudica questa esperienza?
«Lascio Busto e i miei ragazzi ma qui ho ricevuto tutto. Nel bene e nel male le esperienze che ho vissuto qui mi hanno permesso di essere così. Ho faticato, sono stato anche ostacolato ma sono
Parla di errori che ha fatto e e di momenti in cui ha dovuto stringere i denti e andare avanti. Che tipo di errori?
«Errori di gioventù, troppo entusiasmo, una certa idealità che ho cercato di portare avanti anche quando più di un genitore mi ha fatto capire che questo modo di fare non era gradito, era considerato trasgressivo. Mi sono accorto che la comunità a volte non mi veniva dietro».
Trasgressione e oratorio nella stessa frase. Cosa ha combinato?
«Non sempre sono stato capito ma attraverso i social sono andato dappertutto. Mi hanno contattato da ogni parte d’Italia. Una marea di persone sono venute all’oratorio San Filippo e hanno visto qui una luce particolare. Tanti hanno incontrato dio e hanno cambiato la loro realtà parrocchiale».
In questa comunità che non è città e non è paese, dove la tradizione ancora ha un suo peso, la sua figura è stata di rottura. Chi la rimproverava?
«Più di un adulto ha avuto da ridire. Magari mi veniva rimproverato di non essere dove tutti pensavano dovessi essere perché così è sempre stato ma la Chiesa nelle città deve cambiare. So comunque di aver messo tutto l’impegno di un prete ma con la forma di un influencer».
Ora va a Milano, nella chiesa di San Gottardo al Corso, a due passi dalla movida di Darsena e Navigli. Cosa si aspetta?
«Non ho aspettative. Ho capito che è un posto diverso, una realtà molto movimentata di persone che spesso passano da lì ma non son di lì. Mi auguro di creare relazioni».
È chiamato ancora una volta a parlare ai giovani. Non ha paura di ritrovarsi solo in uno dei luoghi dove la leggerezza la fa da padrona?
«Il divertimento è una componente importante dell’equilibrio psico-fisico degli esseri umani ma da solo non basta. Spesso vedo i ragazzi troppo presi dal divertimento e poi perdono la bussola, non vedono più i sogni e i desideri. Voglio creare un luogo che li riporti a pensarsi».
Le è stato mai chiesto di mettere da parte i social da parte delle istituzioni ecclesiastiche?
«Mai. L’istituzione sta capendo che questi strumenti sono imprescindibili per far conoscere il Vangelo, ora che c’è una crisi vocazionale importante. Spesso la chiesa non sa come usarli, forse, ma la Giornata mondiale della gioventù di quest’anno è stato l’esempio lampante di questa spinta innovativa. Linguaggi, suoni, social, droni hanno riportato un raduno come questo ad essere centrale nella comunicazione mondiale».
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da AVVENIRE
Fede digitale.
«Si può evangelizzare via social
senza travestirsi da influencer»
Daniele Zappalà venerdì 25 agosto 2023
Il coordinatore del sito francese Padre Blog: «Nel digitale il prete deve restare un prete, avere uno stile equilibrato, resistere alla tentazione del narcisismo. Ed è rischioso inseguire la logica degli algoritmi»
«Sui social, la gente ha voglia di seguire un prete che resta un prete. Non un prete divenuto uno showman, oppure un pagliaccio. A ciascuno il proprio ruolo. Il nostro principio guida è di agire per la bontà del messaggio e non per l’efficacia massima dell’esposizione mediatica». Ad assicurarlo è padre Jean-Baptiste Bienvenu, ordinato in Francia nel 2016 presso la comunità dell’Emmanuel e oggi anche coordinatore del Padre Blog, nota piattaforma di video (padreblog.fr, con il sottotitolo «Connessi a quanto è essenziale»), consultati principalmente tramite i social, che rappresenta da oltre un decennio una delle realtà più seguite dell’evangelizzazione digitale francofona, fra commenti e dialoghi, spesso con una leggera nota di humour e senza mai perdere di vista il contesto dell’attualità. All’attivo del sacerdote, pure una recente «guida pratica e spirituale per liberarsi dagli schermi » (Ils nous bouffent, Artège), in cui si mettono in luce i rischi di un uso eccessivo degli strumenti digitali. In modo originale, l’opera propone pure un “test di autovalutazione” del posto degli schermi nella vita di ciascuno. Padre Bienvenu è anche insegnante di Teologia morale presso il Seminario di Versailles.
Lei ha preso la scia di padre Pierre-Hervé Grosjean come coordinatore del gruppo del Padre Blog, composto oggi da 5 giovani sacerdoti. In che senso si tratta di un’opera collettiva?
Seguiamo ogni contenuto assieme. Ci siamo fissati infatti la regola di non pubblicare mai nulla senza che gli altri siano al corrente. Se percepiamo un problema, ne discutiamo per apportare delle modifiche. Questa modalità collettiva conferisce pure un certo equilibrio al nostro lavoro, che riguarda solo i contenuti, dato che per gli aspetti tecnici siamo aiutati da volontari.
A suo parere, cosa giustifica un impegno nell’evangelizzazione digitale?
Certamente, il bisogno di raggiungere le persone laddove si trovano. Insomma, un principio di realtà. Siamo innanzitutto noi ad andare verso la gente e non il contrario. In questo senso, i social sono oggi come una nuova agorà.
Calarsi in uno strumento tecnico è sempre una sfida?
Una difficoltà tecnica è data dall’esistenza di un algoritmo che determina l’esposizione del messaggio. Dunque, i contenuti devono piacere all’algoritmo. Proprio per questo è importante per gli attori della nuova evangelizzazione sui social riflettere sulle regole etiche da rispettare, sul piano personale e di squadra. Non si può certamente fare qualsiasi cosa per guadagnare il diritto d’essere esposti meglio dall’algoritmo. Dunque, talvolta, occorre scegliere deliberatamente di non essere tanto esposti come sarebbe possibile, proprio perché non si vogliono superare certi steccati, in termini di linguaggio, di narcisismo e altro. Non è mai semplice e siamo consapevoli che altri si piegano molto più di noi ai criteri dell’algoritmo.
Un esempio?
Innanzitutto, cerchiamo di concentrarci sul messaggio, senza parlare di noi stessi. Inoltre, badiamo a non scadere mai in uscite burlesche da clown. Insomma, cerchiamo di restare i preti che siamo all’uscita dalla Messa, con i fedeli. Dei sacerdoti normali e accessibili. Pur su un registro piuttosto informale, utilizziamo le stesse parole impiegate in un’omelia o in un incontro dal vivo, restando fedeli al Magistero, senza lanciarci in pareri troppo personali. Siamo al servizio della propagazione di un messaggio e non delle nostre opinioni individuali. Non rincorriamo dunque delle nuove tendenze e non ci mettiamo, per così dire, a ballare. Cerchiamo di essere noi stessi. E se al social non sta bene, nessun problema.
Ci sono dei rischi, per un prete?
Il primo rischio, in particolare per un prete, è il narcisismo. Il fatto di ricercare un successo personale e di valutarlo. Lavoriamo in gruppo anche per questa ragione, in modo da conservare la semplicità e l’umiltà necessarie per una comunicazione equi-librata, senza sovraesposizioni.
Chi vi segue è giovane?
La maggioranza ha meno di 35 anni, ma c’è pure un pubblico più fedele che ci segue da anni e che può essere più avanti in età, sulla quarantina.
Un prete sui social è un influencer?
È un sacerdote che propone un messaggio che gli sembra buono, con la consapevolezza, certo, che avrà un’influenza, come avviene sempre nello spazio pubblico. Ma quest’influenza è forse nascosta o machiavellica? No. Si tratta solo di un messaggio buono pronunciato senza timore e destinato poi a percorrere la propria strada, essendo al servizio di Cristo.
È possibile connettere pastorale tradizionale e digitale?
Non sappiamo mai esattamente a chi ci rivolgiamo sui social. Ma proponiamo il Padre Blog come un complemento a una vita pastorale normale, o eventualmente come una prima tappa verso questa vita comunitaria e parrocchiale. In generale, non è possibile costruire la propria vita spirituale senza una comunità reale. Senza delle persone in carne ed ossa, le celebrazioni e i sacramenti. Ogni tanto, comunque, ci capita d’incontrare dei fedeli che ci dicono che il Padre Blog è stato per loro il primo passo.
Si tratta pure di un modo per raggiungere i non praticanti?
Sì, anche se non saprei dire qual è la proporzione. In questo senso, restiamo nella gratuità e nell’apertura a tutti.
Lei ha pubblicato un saggio sulla relazione che intratteniamo con i social. Può parlarcene?
Si tratta di una riflessione anche per dire che i social, in quanto tali, non fanno necessariamente sempre del bene all’umanità. Certamente, contribuiscono pure all’individualismo, alla mercantilizzazione della vita quotidiana, all’onnipresenza della pubblicità. Vi è indubbiamente qualcosa di negativo che rischia di “confinare” le persone. Ma al contempo, poiché questi mezzi fanno parte del nostro mondo, occorre essere presenti. Personalmente, in questo senso, cerco di non dimenticare mai che il cuore del mio ministero deve restare negli incontri reali. Mi piacerebbe immaginare un mondo senza più influencer e con soli scambi fra persone, senza le imposizioni di un algoritmo che condiziona così tante relazioni umane. In modo un po’ paradossale, dunque, cerchiamo di essere presenti sui social anche per aiutare le persone a conservare un equilibrio e una certa distanza critica verso questi strumenti.
Notevole la differenza tra il blog francese e ciò che avviene invece in Italia, con a capo don Alberto Ravagnani.
Qui, tra esibizionismo, individualismo, narcisismo, avere, potere, ricerca della notorietà e una spiccata banalità…non si fa altro che continuare a lisciare il pelo della superficie carnale.
Apprezzo molto invece l’impegno del blog francese di contrastare questa trappola mediatica usandola con intelligenza. Ne esce un lavoro opposto a quello che invece si fa qui in Italia dove tutti devono primeggiare. Brutta cosa.
Si conferma tutto quello che ha sempre e che continua a sostenere don Giorgio.
Don Giorgio,
è triste vedere la Chiesa in balìa non solo di preti “pagliacci”, ma di monasteri o santuari che si affidano alle reliquie di papi (papa Wojtyla a La Verna, papa Pio X a Riese) o di santi (padre Pio a Madonna del Bosco). Per fede o è più onesto dire per far cassa? Non mi si venga a dire che la fede sia legata alle reliquie di papi o santi. Le virtù non sono spirituali? Perchè queste esposizioni carnali? Il ricorso alle reliquie dei papi, dei santi e aggiungerei delle madonne è solo un tentativo disperato per far cassa, o è altro? Non è un indirizzare i tontoloni e creduloni verso politicanti dementi come Salvini? Radio Maria di padre Livio ha beneficiato di 40 mila euro di donazione in eredità da una parrocchiana di Sacconago (Varese). 420 mila euro li ha lasciati alla parrocchia. Questo non è far cassa sul culto mariano? E pensare che un grande papa come Paolo VI con la Marialis cultus metteva già allora in guardia dalla “vana credulità”.
Hai ragione don Giorgio a non sopportare questi “culti cadaverici”, ma contro la creduloneria mi sento impotente. Ho smesso di dialogare con loro da tempo.
Per ultimo non ti sorge il dubbio che il generale Vannacci sia al servizio di Putin e dei putiniani di casa nostra? Se la storica Lucetta Scaraffia sul libro di Vannacci afferma: “Non è omofobo né razzista, merita di essere preso sul serio”, i dubbi non aumentano?
Alberto Ravagnani con questa immagine di buffoncello presuntuoso che seppur giovane, pensa di saper già tutto, probabilmente in virtù dell’unzione ricevuta che lo fa sentire superiore a tutti…insomma Alberto Ravagnani non rappresenta nemmeno lontanamente la Chiesa che mi piace. A mio avviso non rappresenta la modernità, il futuro della Chiesa ma semplicemente un tentativo frivolo e superbo che non gioverà alla Chiesa e alle parrocchie che disgraziatamente lo avranno come Vicario. Il vero maranza è lui….e social e whatsapp sono il male per le comunità. Il modo per evitare confronti, contatti…per evitare discussioni faccia a faccia. I preti che spesso han problemi a relazionarsi con le persone mettendosi in discussione, trovano nei gruppi whatsapp lo strumento perfetto…fan pastorale così comandando via messaggi ed annullando i contatti personali…e le Chiese si svuotano.