Pietro Ingrao, il comunista che voleva la luna e che “scavò nella polvere”

da www.strisciarossa.it

Pietro Ingrao, il comunista 

che voleva la luna e che “scavò nella polvere”

27 Febbraio 2025
di Pietro Spataro
“Ma ormai nuovi pensieri erano in campo e riguardavano non solo l’assetto delle scuole, ma l’idea stessa del vivere e dell’amare. E s’era compiuta l’irruzione delle donne, non solo per una parificazione giuridica con i maschi ma per affermare il loro sentire, la loro sessualità, il loro rapportarsi col mondo. Si dilatava l’esistere nonostante le sconfitte sul campo”. Il ’68 sta per finire, il pugno di ferro della repressione cerca di soffocare la ventata di libertà e di cambiamento portata in piazza dal movimento degli studenti mentre si prepara l’anno della protesta operaia e Pietro Ingrao riflette su quella novità dirompente e sui ritardi del Pci, sull’incapacità di cogliere a pieno il mutamento della scena con quella marea di giovani che impone nuovi temi e un nuovo modo di intendere la politica.
La copertina della nuova edizione di “Volevo la luna”

Una nuova edizione dell’autobiografia “Volevo la luna”

È il passaggio dell’autobiografia di Ingrao, “Volevo la luna”, che torna in libreria sempre per Einaudi dopo quasi vent’anni in occasione del decennale della morte e mantiene intatti il suo valore e la potenza del racconto. È un libro nel quale la politica si dilata, lo sguardo attraversa i confini del partito, il confronto con l’altro diventa fecondo, la riflessione intima è una lente attraverso la quale vedere la caducità dell’essere umano, la sua fragilità. È un libro, se vogliamo, sui limiti dell’azione umana scritto da un leader comunista che sul “fare” ha costruito la propria vita e nel “gorgo” ha misurato la forza del cambiamento.
Pietro Ingrao è stato uno strano animale politico e l’autobiografia riflette fino in fondo questa sua anomalia. È stato per un lungo periodo un uomo totus politicus. Ha accettato, a volte troppo ordinatamente, la dura ragion di partito, anche quando il suo pensiero e il suo cuore andavano altrove. Tuttavia, dentro di lui hanno continuato a gorgogliare, sin dall’inizio ma in modo più prorompente durante la sua maturità, passioni e sentimenti difficilmente catalogabili dentro la cornice dell’attività politica. Ha amato il cinema – su cui ha anche scritto – e frequentato sin da giovane i grandi registi italiani, ha inseguito la grande letteratura europea, ha scritto bellissime poesie, ha osservato spesso il mondo e le persone che abitano il mondo con gli occhi curiosi di chi vuole capire l’animo umano, le sue debolezze e i suoi sussulti, piuttosto che spiegare qual è la risposta giusta. Per questo è stato tormentato dal dubbio che lo ha spinto a farsi tante domande che di solito la politica non si fa. E proprio grazie a questo suo sguardo largo è stato uno dei leader più amati dai giovani che erano in cerca di nuove sfide e di diverse modalità di stare in campo.
Leggere – o rileggere – questo libro significa ripercorrere il Novecento, affrontare le sue brutture, le guerre che hanno insanguinato l’Europa, le dittature nazifasciste che l’hanno devastata facendo strage di milioni di innocenti. Significa rivivere i momenti salienti del riscatto, seguire il viaggio dei tanti ragazzi che salirono in montagna o cospirarono in città per dare vita a quel grande movimento della Resistenza contro il fascismo che resta una delle pagine più belle della nostra storia. Significa conoscere da vicino quella straordinaria comunità di donne e di uomini che diedero vita al più grande partito comunista dell’Occidente, lo resero forte, lo portarono fino alle soglie del governo. E significa anche ripercorrere con quel gruppo di giornalisti usciti dalla lotta partigiana il processo di costruzione dell’Unità come grande giornale nazionale della classe operaia. Ma sfogliare questo libro significa anche fare i conti con i travagli, gli errori e i ritardi dei comunisti italiani, a cominciare da quell’”indimenticabile 1956” che Ingrao affronta da direttore dell’Unità in modo “sconvolgente e amarissimo” considerando l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche “inspiegabile e infame”. Non era il solo nel partito a pensarla così. C’era una schiera di giovani dirigenti come Reichlin, Tortorella, Pintor, per citarne solo alcuni, che capì quale rottura si stava consumando ma non ebbe il coraggio o la forza o tutte e due le cose insieme per ribellarsi alla linea di supino sostegno a Mosca imposta da Palmiro Togliatti.
Ingrao alle spalle di Enrico Berlinguer

1956, invasione dell’Ungheria: l’occasione mancata del Pci

Fu, quella, proprio in quel passaggio storico drammatico, una grande occasione mancata che ritardò il rinnovamento del Pci e il conseguente distacco dall’Unione sovietica che avvenne a quasi vent’anni di distanza. Ingrao visse quella vicenda in modo bruciante. Nel libro racconta come, proprio nel giorno in cui le truppe sovietiche entrarono a Budapest, arrivò a casa di Togliatti a Montesacro per esprimergli il proprio sgomento. Ma il segretario del Pci lo gelò dicendogli che, di fronte a quei fatti, lui invece aveva festeggiato e “bevuto un bicchiere di vino in più”. Erano due modi diversi di misurarsi con il dramma del comunismo sovietico che si faceva feroce e soffocava nel sangue qualsiasi tentativo di rinnovamento democratico.
Ma chiediamoci se sarebbe stata possibile, allora, una contestazione della linea togliattiana che non significasse l’uscita dal partito, come fecero molti intellettuali, a cominciare da Italo Calvino, e diverse migliaia di iscritti che non rinnovarono la tessera. L’autorità di Togliatti era indiscutibile e una contestazione frontale avrebbe significato sicuramente la spaccatura del Pci. Basti ricordare l’episodio riportato da Paolo Spriano nel suo libro “Le passioni di un decennio” per capire quale fosse il clima. A chi contestava la linea del partito e riteneva giuste le critiche contenute nella lettera dei 101 con cui si condannava l’invasione sovietica, il segretario del Pci, racconta Spriano, rispose in modo provocatorio: “Volete fare una frazione contro la direzione del partito? Allora la farò anch’io la frazione. Vedremo chi avrà la maggioranza al congresso”. Erano, quelli, tempi di ferro e fuoco. Tempi feroci, che spinsero molti a pensare che, nonostante tutto, non si potesse lottare per un altro mondo al di fuori delle file del partito comunista che restava l’unico baluardo in un’Italia dominata dal potere democristiano e infestata da rigurgiti neofascisti e stragisti.
Ingrao la pensò in questo modo, nonostante le alterne fortune che ebbe nel gruppo dirigente comunista, fino a quando quel partito fu sciolto dopo la svolta della Bolognina che lui contestò in modo determinato in due congressi.
Oggi quel mondo sembra molto lontano, quel Novecento ci appare quasi come preistoria. Tuttavia, leggere questa autobiografia ci aiuta anche a capire dove siamo finiti e perché ci siamo finiti. In una fase in cui un pericoloso estremismo di destra soffia sul mondo partendo dal cuore dell’America e qui in Italia siedono a Palazzo Chigi gli eredi del fascismo che gli uomini come Ingrao combatterono mettendo a repentaglio la propria vita, ripercorrere la storia di quelli che volevano cambiare il mondo può essere utile per sapere quali passioni animarono più generazioni, ma soprattutto per capire che cosa di quel modo di fare politica e di mettersi al servizio della parte più debole della società è stato sbagliato buttare via.
Ingrao direttore dell’Unità durante una diffusione del giornale

“Voi giovani dovete leggere e studiare per capire il mondo”

Ho conosciuto Ingrao, grazie a mia madre, che ero un bambino e il rapporto tra le nostre famiglie, pur così diverse, mi sembra una delle cose belle della mia vita. Ricordo che quell’uomo importante che a casa chiamavamo “dottor Pietro” mi incuteva sempre molta soggezione mentre mi trovavo più a mio agio con sua moglie Laura Lombardo Radice che, a differenza sua, aveva una maggiore leggerezza e una spiccata predisposizione all’ascolto nei rapporti umani e soprattutto nei rapporti con noi bambini e poi con noi ragazzi. Crescendo ho imparato a conoscere politicamente quell’uomo che spesso mi regalava i libri o mi faceva curiosare tra i suoi a caccia di doppioni da portarmi a casa. Voleva che leggessi tanto, voleva che noi giovani leggessimo tanto. Una volta, ero poco più che un ventenne appena arrivato in Cronaca di Roma dell’Unità, me lo chiese a bruciapelo durante un pranzo tra le nostre famiglie: “Quanti libri al mese leggi, quanti?”. Difronte ai miei balbettii insistette: “Dimmi quanti…”. Provai a dire quattro-cinque, bluffando un po’ sul numero. Se ne accorse e mi rimproverò sorridendo: “Voi giornalisti dell’Unità dovete leggere anche i libri per capire il mondo, non solo gli articoli”.
Ingrao era un uomo che voleva capire, studiare per capire. Fermarsi per ragionare sui fatti e sulle tendenze. Quando decise che non voleva più fare il presidente della Camera spiegò che sentiva il “bisogno di riflettere” non solo sul fallimento del compromesso storico ma anche “sull’Europa, troppo spesso dimenticata da noi” e sul “Terzo mondo che viveva vittorie e sconfitte” perché riteneva che fossimo “troppo chiusi nei nostri confini”.
Il delitto Moro uno spartiacque nella storia d’Italia
La storia politica di Pietro Ingrao, che questo libro racconta con un misto di grandi passioni, di sentimenti, persino di tenerezze, è una bella storia che purtroppo finisce in un fallimento. Ma è un fallimento che ci riguarda tutti.
Il Pci è stato un grande partito, una grande comunità che ha aiutato a crescere chi ne faceva parte e che ha dato a molti diseredati la speranza di un riscatto. La forza di quel movimento e il tentativo di dare un futuro diverso a questo paese si sono arenati per errori politici sicuramente ma anche perché, come si è scoperto poi, si sono messi all’opera in quegli anni in cui il Pci si avvicinava al governo del Paese forze sotterranee interne ed esterne che hanno fatto di tutto per fermare il cambiamento. Da una parte gli americani, dall’altra i sovietici, uniti in tempi di guerra fredda, nel far fallire il tentativo che Berlinguer e Moro fecero per arrivare alla democrazia dell’alternanza. Gli uni perché non volevano assolutamente i comunisti al governo in un Paese strategico come l’Italia, gli altri perché non volevano che un Partito comunista che aveva rotto con Mosca e che percorreva una via democratica al socialismo potesse avere successo. Il 1978 con l’omicidio di Moro è uno spartiacque. Dopo, nulla sarà come prima. E quello che è venuto dopo è figlio di quella stagione. Non a caso il libro di Ingrao si chiude proprio con il rapimento e l’assassinio di Moro. Perché quell’assalto delle Brigate rosse al cuore dello Stato aprì il capitolo dei “misteri di quella tormentata transizione”. Che è ancora aperta, oggi, dopo quasi cinquant’anni.
“Pensammo una torre / scavammo nella polvere”, dice una poesia di Pietro Ingrao contenuta nella raccolta “Il dubbio dei vincitori”. È illuminante nella sua brevità perché racchiude in sé il senso di una storia che si è consumata tra grandi speranze e brucianti sconfitte. Oggi ci resta la visione, drammatica, del declino del mondo e delle scarse possibilità di cambiarlo. Tuttavia, quei versi e tutta l’esperienza politica di uomini come Ingrao ci indicano una direzione. Hanno la straordinaria capacità, come scrivono le figlie Celeste, Bruna, Chiara e Renata e il figlio Guido nella introduzione alla nuova edizione del libro, di “parlare anche al nostro presente e di proiettarsi nel futuro”. Insomma, per ricominciare bisognerebbe ripartire da lì, da dove ci eravamo lasciati: riprendere a scavare nella polvere per ricostruire insieme quella torre crollata a terra in mille pezzi.

Il libro di Pietro Ingrao “Volevo la luna” (Einaudi) sarà presentato a Roma lunedì 3 marzo alle ore 18 presso l’Auditorium del Goethe Institut in via Savoia 13.
Intervengono il segretario della Cgil Maurizio Landini, la giornalista e scrittrice Benedetta Tobagi, la storica Albertina Vittoria, coordina Pietro Spataro, giornalista di strisciarossa. Porteranno i loro saluti l’assessore alla cultura del Comune di Roma Massimiliano Smeriglio e la direttrice del Goethe Istitut Jessica Kraatz Magri. L’attore Tony Allotta leggerà alcuni brani del libro.

 

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