da www.huffingtonpost.it
27 Marzo 2023
Morto Gianni Minà, L’annuncio su Facebook:
“Ci ha lasciato dopo una breve malattia cardiaca”
Avrebbe compiuto 85 anni a maggio. Ha raccontato otto mondiali di calcio e sette olimpiadi, oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli storici di Muhammad Ali. Storica la sua intervista di 16 ore a Fidel Castro. E impareggiabile il suo rapporto con Maradona
Una malattia cardiaca ha portato via Gianni Minà. Il celebre giornalista si è spento oggi a Roma, avrebbe compiuto 85 anni a maggio. L’annuncio della morte è stato dato sulla sua pagina Facebook: “Gianni Miná ci ha lasciato dopo una breve malattia cardiaca. Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Un ringraziamento speciale va al Prof. Fioranelli e allo staff della clinica Villa del Rosario che ci hanno dato la libertà di dirgli addio con serenità”.
La sua è stata una storia giornalistica inimitabile. Iconica, tra le tante, resta la foto che lo ritrae gioioso a cena a Roma con Muhammad Ali, Sergio Leone, Robert De Niro e Gabriel García Marquez. Resta scolpita la passione con cui raccontò Diego Armando Maradona: un’amicizia, la loro, che continuò dopo l’addio al calcio del fuoriclasse argentino. E straordinario anche il dialogo che Minà ebbe con Fidel Castro, sublimato in un’intervista che, come amava raccontare il giornalista, era andata avanti per sedici ore. Era il 1987. Ne venne fuori un documentario da cui viene tratto un libro: il reportage intitolato ‘Fidel racconta il Che’.
Nella carriera di Gianni Minà si contano otto mondiali di calcio e sette olimpiadi, oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli storici dell’epoca di Muhammad Ali.
Nato a Torino il 17 maggio 1938, Gianni Minà ha iniziato la carriera da giornalista nel 1959 a ‘Tuttosport’ (di cui fu poi direttore dal 1996 al 1998). Nel 1960 debutta in Rai collaborando alla realizzazione dei servizi sportivi sui Giochi Olimpici di Roma. Approdato a ‘Sprint’, rotocalco sportivo diretto da Maurizio Barendson, a partire dal 1965 si occupa di documentari e inchieste per numerosi programmi, tra cui ‘Tv7’, ‘AZ, un fatto come e perché’, ‘Dribbling’, ‘Odeon. Tutto quanto fa spettacolo’ e ‘Gulliver’.
Con Renzo Arbore e Maurizio Barendson fonda ‘L’altra domenica’. Nel 1976 viene assunto al ‘Tg2’ diretto da Andrea Barbato. Nel 1981 vince il ‘Premio Saint Vincent’ in qualità di miglior giornalista televisivo dell’anno. Dopo aver collaborato con Giovanni Minoli a ‘Mixer’, debutta come conduttore di ‘Blitz’, programma di Raidue di cui è anche autore, che accoglie ospiti come Eduardo De Filippo, Federico Fellini, Jane Fonda, Enzo Ferrari, Gabriel Garcia Marquez. Ha diretto la rivista letteraria Latinoamerica e tutti i sud del mondo. Collaboratore per anni di quotidiani come Repubblica, l’Unità, Corriere della Sera e Manifesto, ha scritto numerosi libri.
Di sé, Minà diceva: “Mi hanno sempre attratto persone capaci di andare controcorrente, anche a costo dell’isolamento, della solitudine. Persone capaci di raccontare storie, di mostrare visioni altre. E inevitabilmente hanno acceso la mia curiosità, perché, come diceva il mio amico Eduardo Galeano, capace di raccontare la storia dell’America Latina attraverso racconti ironici e apparentemente non importanti, fatti di cronaca, ‘il cammino si fa andando’, non sai mai dove queste storie ti possano portare. E’ il bello della vita, tutto sommato”.
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18 Aprile 2018
“Cuba per me rappresenta un’utopia riuscita.
La Revolución non finisce con i Castro”.
Intervista a Gianni Minà
di Giulia Belardelli
“L’isola merita più rispetto da parte dei media: ha resistito al più lungo embargo della storia moderna. L’intervista di 16 ore a Fidel? Mi cambiò la vita”
Il cambio al vertice di Cuba “rappresenta la fine di un’epoca, ma non la fine della Rivoluzione cubana”. Ne è convinto Gianni Minà, giornalista, scrittore e saggista, autore di trasmissioni storiche della Rai e grande conoscitore dell’America Latina e di Cuba. Lo abbiamo intervistato a poche ore dal voto con cui il Parlamento cubano è chiamato a eleggere il nuovo presidente dell’isola.
Per la prima volta, a sessant’anni dalla rivoluzione, Cuba non avrà più un Castro presidente. Che effetto le fa?
“Mi rendo conto che tutte le previsioni fatte da tanti cosiddetti esperti sull’isola e la sua sopravvivenza sono state clamorosamente smentite dalla realtà. Eduardo Galeano, che era la coscienza dell’America Latina, un giorno mi disse: “Il comunismo è morto, il capitalismo ha fatto la stessa fine, mentre la Rivoluzione cubana è ancora lì, povera e dignitosa con i suoi limiti ma con un prestigio continentale, ma potrei anche dire internazionale, indiscutibile”. Sessant’anni di embargo degli Stati Uniti non sono riusciti a domarla, mentre nel mondo scoppiavano (e scoppiano) guerre insulse e assassine. Una realtà che dovrebbe far riflettere dopo i fallimenti dei conflitti in Vietnam o in Medio Oriente”.
Cosa rappresenta questo cambio generazionale, sia dal punto di vista simbolico che dal punto di vista pratico?
“Rappresenta la fine di un’epoca che non significa però la fine della Rivoluzione cubana”.
Cosa resta della rivoluzione cubana? Proviamo a fare un bilancio…
“Restano le conquiste nella medicina, nello sport, nelle scienze, nella cultura, tanto nel cinema come nella musica e le arti plastiche, senza contare i 70mila medici formati, istruiti e inviati, nell’arco di 50 anni, nelle nazioni più povere che assicurano a Cuba il prestigio di cui gode in tutti i paesi, in particolare nel continente latinoamericano. Non a caso questo riconoscimento è stato espresso dall’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ma per esempio è stato ignorato finora da Trump”.
Qual è stato il punto più alto del castrismo? E quale il punto più basso?
“Il momento più alto, a mio avviso, è stato quello del trionfo della solidarietà espressa da Cuba a nazioni africane come l’Angola, la Namibia e il Sudafrica. Un sacrificio materializzatosi nel tempo con l’invio di quasi 300mila soldati cubani da parte di Fidel Castro. Questa inusitata solidarietà sicuramente ha avuto un peso fondamentale nella battaglia campale di Cuito Cuanavale che rappresentò la disfatta o la fine di molte nazioni africane reduci dal colonialismo. Non a caso Nelson Mandela, l’eroe dell’indipendenza sudafricana, sottolineò, con molta chiarezza che “senza l’apporto dei cubani avremmo dovuto aspettare molti anni in più per sconfiggere l’apartheid”. Un simile sforzo, però fu pagato da Cuba con la dolorosa condanna a morte, nel 1989, di un eroe della Rivoluzione come il generale Ochoa che, nell’immane tentativo di reperire le risorse necessarie per sostenere questo impegno, era entrato in contatto con dei narcotrafficanti che chiedevano, in cambio di dollari, di poter avere una base operativa in un’isoletta cubana per i loro traffici. “Se avessimo avuto il polso debole, massimo in 48 ore sarebbero arrivati i marines coronando un sogno antico, quello di annientare la Rivoluzione”, mi spiegò una volta Fidel Castro in una delle interviste che ho realizzato con lui nell’arco di trent’anni. Se devo esprimere un giudizio quello fu uno dei momenti più contraddittori di un’isola dei Caraibi costretta a difendersi per il peccato di non accettare l’assedio e l’embargo disonesto della nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti d’America”.
La sua intervista di 16 ore a Fidel è entrata nella storia. Da allora sono passati 31 anni. Quali momenti le sono rimasti più impressi nella memoria? Ha un aneddoto personale su Fidel e su Raul che ricorda particolarmente?
“Quell’intervista del 1987 cambiò anche la mia vita professionale per i documentari che ho realizzato negli ultimi trent’anni e che mi hanno aiutato a tentare di capire e spiegare nel modo più onesto possibile la realtà di un paese speciale come Cuba. Oltretutto questi documentari mi hanno procurato riconoscimenti professionali indimenticabili come il premio alla carriera al festival di Berlino nel 2007”.
Cosa sappiamo e cosa possiamo aspettarci da Miguel Díaz-Canel?
“Diaz Canel è un ‘quadro’ politico che viene da un lavoro importante svolto nelle province di Villa Clara e Holguin e che attualmente l’ha portato a essere vicepresidente del Consiglio di Stato e dei ministri. Come ha specificato Raul Castro all’ultimo congresso del partito e come mi ha chiarito Fidel Castro nell’ultima intervista che mi ha concesso due anni fa prima di passare ad altra vita, Diaz Canel come tutta una nuova generazione di cubani, dovrà portare al successo il cambiamento di un paese che non ha le risorse di nessuno dei fratelli latinoamericani, ma non può perdere nessuna delle conquiste sociali guadagnate in cinquant’anni di rivoluzione e alle quali nessun cubano vuole rinunciare.
Può essere una scommessa, ma potrebbe essere anche un esempio per un mondo superficiale”.
Secondo lei i Castro continueranno a governare di fatto l’isola?
“Beh uno è morto da quasi due anni e l’altro, a 86 anni, ha annunciato ufficialmente che si allontanerà dalla politica dopo avere per mezzo secolo salvaguardato, come ministro della Difesa e comandante delle forze armate, la sicurezza di una Rivoluzione che non piaceva agli Stati Uniti e a parte del mondo occidentale. A chi non crede, dico che la storia per ora ha smentito illazioni e valanghe di bugie costruite immancabilmente da agenzie di intelligence come CIA e FBI”.
Qual è oggi la situazione dell’economia cubana? A che punto sono le tanto annunciate riforme?
“Se le riforme dovessero avere il sapore e procurare le angustie che il libero mercato ha assegnato a mezzo mondo, mi viene da dire che sarebbe meglio non cambiare niente. Ma questa potrebbe essere l’opinione di chi, come il sottoscritto, a furia di girare il mondo non ha fiducia nel libero mercato. Dire come Diaz-Canel poi equilibrerà le conquiste sociali del suo paese con le esigenze economiche attuali proprio non lo so, quello che credo di capire è che, secondo la sua tradizione, pure in povertà Cuba saprà rispettare le esigenze della sua gente”.
Ora che il disgelo con gli USA di Obama è solo un ricordo, come impatta la politica estera di Trump sui processi politici ed economici di Cuba?
“Trump purtroppo ha scelto di dispiacere a tutto il mondo, ma non vedo nei mezzi di informazione occidentale lo sdegno che la politica del presidente nordamericano dovrebbe esprimere. Peccato perché una situazione come questa meriterebbe una maggiore onestà intellettuale e non le trombe della propaganda che negli ultimi anni hanno distrutto quello che il mondo aveva ricostruito dopo la fine della seconda guerra mondiale”.
Cosa rappresenta, per lei, Cuba? E cosa ci insegna la sua storia?
“Per me Cuba rappresenta un’utopia riuscita, quella di sopravvivere al più lungo embargo della storia dell’umanità moderna. Solo per questo penso che meriterebbe più rispetto da parte dei mezzi di informazione”.
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Gianni Minà e la morte di Castro
Gianni Minà:
«Io, Fidel e quell’intervista di 16 ore.
Vi spiego perché non è stato un dittatore»
Lo scrittore e saggista, autore di trasmissioni storiche della Rai, ha conosciuto il lider maximo meglio di molti altri giornalisti occidentali.
di Paolo Conti
Gianni Minà, scrittore e saggista, autore di trasmissioni storiche della Rai («Blitz», solo pe fare un esempio, ma fu anche tra i fondatori de «L’altra domenica») ha conosciuto Fidel Castro meglio di molti altri giornalisti occidentali. «Il comandante» gli rilasciò due interviste televisive (poi trasferite nei suoi libri): la più famosa è quella, fluviale, del 1987 perché durò sedici ore, tutte registrate, un record imbattuto nella storia della Rai.
Ma come andò, Minà?
«Stavo realizzando una serie di interviste con i presidenti dell’America Latina. Attendevo a Cuba da dieci giorni la possibilità di incontrare Fidel Castro. Avevo già pronte ben ottanta domande avevo preparato insieme all’amico Saverio Tutino, grande intellettuale e giornalista, ex partigiano, che fu corrispondente dell’America Latina. Mi aiutò molto, i quesiti erano puntuali, mai banali. Venni convocato. Chiesi subito a Fidel se per caso volesse sapere prima le domande, come fanno sempre i capi di Stato e molti interlocutori. Mi diede una risposta che non dimenticherò: “Con la storia che abbiamo, possiamo aver paura delle parole? Risponderò a tutte le domande”. Capii subito che non sarebbe stata una navigazione facile. Finimmo alle 6 del mattino, rischiai di perdere l’aereo per il Messico dove avevo fissato un appuntamento col presidente di quel Paese». Intorno a Minà (che sta presentando in Italia il suo film documentario «Papa Francesco, Cuba e Fidel», che racconta la visita del Pontefice nell’isola caraibica dal 19 al 22 settembre 2015), le tracce di una vita professionale. Molti premi, tra cui il Kamera della Berlinale alla carriera, il più prestigioso per i documentaristi. Sulla parete, i ritratti della moglie e delle due figlie di Minà firmati dal pittore messicano Omar Cuevas Manueco. Racconta Minà «che allora si girava in pellicola a 16 millimetri, e il materiale della Rai stava per finire. C’era con Fidel il suo assistente che improvvisamente sparì e tornò con un cartone pieno di pellicola giapponese dell’archivio cinematografico delle Forze armate rivoluzionarie».
Mangiaste qualcosa in quelle sedici ore?
«Noi qualche panino. Fidel molto tè tiepido e basta. Ricordo che l’intervista si trasformò in un vero e proprio happening, vista la lunghezza».
Se si chiede a Minà quale sia stato il particolare che lo colpì di più, risponde così: «Capii che non si sarebbe alzato da quella sedia se non avesse finito di parlare di Che Guevara. Gli dedicò cinquanta minuti».
Fidel Castro, lo ha ricordato la stampa italiana e straniera, ha anche imprigionato molti dissidenti, intellettuali, omosessuali. Lei ebbe la sensazione che Fidel lo ammettesse?
«Vorrei dire che a Cuba avviene ciò che succede anche in tanti Paesi occidentali….ammetteva che la Cia lavorava nell’ombra a Miami, organizzando anche molti atti terroristici nell’isola. Molti responsabili sono ancora vivi e non sono mai stati processati, non credo sia una bella pagina nella storia degli Stati Uniti…».
Però anche Pietro Ingrao su «Liberazione» definì Cuba «una pesante dittatura», e tutto era, Ingrao, tranne che un uomo di destra…
«Ingrao è stato un padre della sinistra, un grande politico e intellettuale.
Ma in quel caso scrisse senza conoscere la realtà, non sapendo come stavano le cose. Mi dispiace dirlo, ma dette un giudizio superficiale. Per criticare, occorre sapere. Io ho diretto per quindici anni la rivista «Latinoamerica e tutti i sud del mondo» e ho ospitato molte voci del dissenso. Ma parlando dall’interno dell’isola».
Per Cuba, secondo Minà, si deve parlare di rivoluzione tradita o attuata?
«Sicuramente non tradita. Funziona un sistema che assicura alla gente la casa, il cibo, la sanità pubblica uguale per tutti, l’istruzione, la cultura. Oggi sarebbe uno dei tanti Paesi dell’America Latina che attendono che almeno qualcosa cambi, anche di poco, ma cambi. Invece a Cuba funziona, per fare un solo esempio, un centro di ingegneria genetica all’avanguardia nel mondo. Così come Cuba può inviare i suoi atleti alle gare internazionali e alle Olimpiadi, e in molti casi vincerle».
Minà è convinto che con la morte di Fidel Castro a Cuba non cambierà niente.
«No, sull’isola non credo ci saranno contraccolpi. Sarà Trump a doverci dire se vuole ringraziare quelli che, a Miami, hanno pagato parte della sua campagna elettorale. Cuba ha avuto e ha attori politici che sono entrati nella storia e hanno acquisito una grande credibilità. Ci sarà una ragione se papa Francesco ha voluto incontrare Fidel nella sua abitazione privata a Cuba durante il suo viaggio. E ci sarà sempre una ragione se proprio lì papa Francesco e il Patriarca Kirill hanno raggiunto un’intesa dopo mille anni di divisioni. Il Vaticano ha una visione ben diversa di Cuba rispetto a quella presentata da tanta stampa occidentale».
A proposito di papa Francesco, Minà: lei pensa che Fidel possa essersi convertito – lui, ex alunno dei gesuiti – in punto di morte?
«Su questo punto, l’ultima volta in cui ci siamo visti, nel settembre 2015, è stato chiaro. Non ha mai usato la parola fede. Mi ha detto: “Sono stato educato da un’altra cultura. Poi ho incontrato questa, con cui tuttora vivo”. No, direi proprio nessuna conversione…»
27 novembre 2016
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