L’EDITORIALE
di don Giorgio
C’è droga e droga
Quando si parla di droga si pensa a certe sostanze che hanno la capacità di annebbiare la mente, creando stati tali di ebbrezza o di allucinazione da proiettare il drogato in un mondo falso di evasioni dalla realtà, che nessuna droga riuscirà mai a trasformarla in un paradiso terrestre.
Le droghe hanno conseguenze anche fisiche, che durano il tempo della loro efficacia, creando però stati tali di dipendenza che il drogato non può più farne a meno: la droga crea un legame infernale con il drogato.
Quello dei drogati viene ritenuto un mondo quasi a parte, da condannare o da redimere con sistemi rieducativi anche duri, per distogliere i soggetti/schiavi dalla dipendenza della droga.
Eppure, se ci pensiamo seriamente, tutta la società è drogata: si è schiavi di un tale consumismo che neppure ce ne accorgiamo: siamo vittime di cose anche le più banali, nella loro esigenza del tutto e subito tale da costruire una esistenza sull’inutile più banalmente eccessivo, ma ritenuto talmente necessario da determinare stati di ansie e di desideri stressanti fino all’inverosimile. E anche qui, come per il drogato, il legame con le cose diventa un’ossessione di dipendenza, da cui non si può più fare a meno. E se le crisi economiche o le emergenze sanitarie ci costringessero a lasciare il mondo del superfluo o la dipendenza dalle cose, passata la crisi economica o l’emergenza tutto torna come prima, e la gente corre come pazza a ricuperare il superfluo perduto.
In fondo, tutti siamo drogati di cose; e ci sembra di condurre una esistenza “normale”, solo perché facciamo parte del sistema del superfluo, non importa se imposto da un dover vivere all’insegna della carnalità all’ultima moda.
Parlare di essenzialità è visto come qualcosa che comporta sacrifici come ostacoli al progresso che avanza, con un falso benessere alla portata di tutti.
Che i sacrifici siano oggi visti solo nel loro lato negativo, quasi come una violazione della libertà di un io da accarezzare in ogni suo capriccio, è il retaggio di un passato, in cui la religione imponeva sacrifici anche corporali fini a stessi, in vista di una ascesi spirituale. Il corpo andava punito, oltre il necessario. Si doveva soffrire, e basta.
Qualcosa di puro sadismo. Un sacrifico, dunque, fine a se stesso.
La Mistica ha aperto una visuale nuova, facendo del sacrificio quel distacco dal superfluo che imprigiona lo spirito interiore. Il distacco toglie l’eccesso, l’inutile per dare allo spirito la sua libertà di agire.
Lo spirito, sciolto dalle cose, si sente leggero, e così può unirsi al mondo del Divino o di quel Bene Assoluto, ovvero di quel Bene sciolto (ab-solutus) da ogni condizionamento carnale.
I Mistici arrivavano a dire che Dio o, meglio, la Divinità è il Distacco essenziale.
Il distacco, anche se è radicalmente impegnativo, non ha valore negativo, ma è positivo in vista della liberazione dello spirito dalle cose superflue, dando al corpo la sua funzione di servire lo spirito.
Sì, tutti quanti siamo drogati dalle cose o da un corpo idolatrato al massimo, per di più, se siamo credenti, vittime di una religione che a sua volta droga, imponendo un organismo carnale, il “grosso animale” di cui parlava Platone, fatto di strutture e di ritualità tali da imporre un proprio idolo, immagine della stessa religione.
I Mistici (e mi riferisco sempre alla Mistica medievale) ci insegna la via, l’unica, da prendere, se vogliamo essere spiriti liberi, tanto liberi da essere “dèi”.
28 novembre 2020
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