Iran, la fatica di capire il silenzio di Bergoglio

www.huffingtonpost.it
22 Novembre 2022

Iran,

la fatica di capire il silenzio di Bergoglio

di Michele Brambilla
Non si insegna al Papa a fare il Papa, ma da cattolico balbetto il mio disagio davanti al Vaticano che non dice nulla della strage dei ragazzi in Iran
Non si insegna al Papa a fare il Papa. Questo è il primo comandamento da rispettare: tanto più se si fa il giornalista. Un cattolico, poi, vede nel successore di Pietro – in ogni successore di Pietro – nientemeno che il Vicario di Cristo.
Chi scrive questo articolo è cattolico. Pieno di dubbi e peccatore, come dovrebbe riconoscere chiunque abbia un minimo di sincerità. Ma cattolico. Non so (nessuno lo sa: infatti si recita il Credo, non il So) se Dio esista né tantomeno se si sia fatto uomo, sia morto e risorto e asceso al cielo, dal quale tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti. Non lo so: ma con tutte le mie forze spero che sia tutto vero. Per questo considero il Papa – ogni Papa – la guida, la bussola per orientarmi in questa vita così incerta.
E dunque è con la massima umiltà che confesso il mio personale disagio di fronte al silenzio di Francesco su quanto succede in Iran.
Sono passati più di due mesi da quando Mahsa Jina Amini, una ragazza di 22 anni, è stata uccisa per non aver indossato l’hijab imposto dal regime degli ayatollah. L’hijab è il velo reso obbligatorio in Iran dal 1983: le donne che non lo indossano sono private dei diritti elementari. Non possono lavorare. Vengono arrestate. Uccise.
La morte di Mahsa ha scatenato in tutto il Paese la rivolta delle donne: rivolta, naturalmente, repressa nel sangue. Sono già state uccise 400 persone: anche maschi, anche bambini (una cinquantina). In tutto il mondo il coraggio delle donne iraniane è sostenuto con manifestazioni e gesti che certo, sono solo simbolici, ma che ci sono, si vedono, in qualche modo urlano. Il mondo non sta zitto.
Papa Francesco, invece, non ha mai parlato della vergognosa condizione della donna in Iran, della persecuzione, dei femminicidi in nome di Dio, degli arresti, delle torture. Ha parlato decine e decine di volte per denunciare altre ingiustizie, altre sofferenze. In questi due mesi ha parlato della guerra e degli speculatori, dei migranti, dei morti nella calca a Seul, delle suore e dei preti che guardano i film porno, dello scandalo del cibo buttato, di una strage di bambini in un asilo thailandese, dei disabili morti in autostrada e di tante, tantissime altre cose ancora. Ma mai dell’Iran.
Un tempo nessuno si sarebbe stupito. Il Papa era una figura ieratica, inaccessibile, chiusa nel suo palazzo apostolico. Non viaggiava, parlava pochissimo. E quando parlava lo faceva per indicare l’Eterno: lui Pontefice, cioè ponte fra questa Terra e il Regno di Dio. Volava più alto delle povere miserie del mondo. Raramente interveniva. Si ricorda l’appello di Benedetto XV ai governanti di tutte le nazioni per fermare “l’inutile strage” (1° agosto 1917). Si ricorda Pio XII che va nel rione San Lorenzo per portare conforto ai romani dopo un devastante bombardamento alleato (19 luglio 1943). E poco altro.
Nemmeno a Papa Luciani, che fu una specie di parroco universale, fu concesso di parlare al popolo subito dopo l’elezione: il rituale non lo consentiva. Dovette aspettare l’Angelus della domenica per pronunciare il suo primo, umanissimo e commovente discorso: “Mai avrei immaginato…”.
Fu Papa Wojtyla a rompere la tradizione. Fu lui il primo a entrare in modo totale nella cronaca, nella politica, nella vita quotidiana di tutti noi. Qualcuno si scandalizzò e disse: adesso il Papa commenta il telegiornale.
Fatto sta che oggi siamo abituati ad ascoltare, e perfino ad attendere, il giudizio del Papa sui fatti del mondo. Il Papa, questo Papa in particolare, parla con molta generosità: all’Angelus, nelle omelie quotidiane a Santa Marta, nelle interviste, al telefono. Commentò, in una di queste interviste, anche un articolo di Fabio Fazio sul coronavirus e il lockdown. Ma sull’Iran nulla.
Non si insegna al Papa a fare il Papa. Ma i dubbi sono di molti, se è vero che il 6 novembre, sull’aereo papale, durante il volo dal Bahrein a Roma, alcuni cronisti hanno chiesto a Francesco che cosa pensasse di ciò che sta accadendo in Iran. Lui ha risposto parlando del “maschilismo che uccide l’umanità”, dei diritti delle donne, eccetera: ma possiamo dire che ne ha parlato in modo generico? Mai ha citato l’Iran. Mai ha parlato di obbligo del velo, di teocrazia, di quanto sia più grave un crimine quando è spacciato per volontà divina.
Perché questo silenzio? Sembra quasi di rivivere quello di Papa Pacelli sulla deportazione e lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Chi lo difende sostiene che Pacelli tacque per prudenza, temendo una ritorsione contro i cattolici nei Paesi occupati dai nazisti. E può darsi, chissà, che oggi Papa Francesco taccia per timore di scatenare una guerra di religione. Per timore di scatenare il mondo islamico contro l’Occidente. La prudenza è in fondo la prima delle virtù cardinali.
E però molti, anche nel mondo islamico, non hanno paura di urlare in terra e al cielo che quella degli ayatollah non è religione, ma un utilizzo della religione. Non hanno avuto paura le atlete della nazionale di basket iraniana, che si sono fatte fotografare senza velo. Non hanno avuto paura, ai mondiali del Qatar, i calciatori della nazionale iraniana, che non hanno cantato l’inno nazionale.
Non si insegna al Papa a fare il Papa, e nemmeno si può imporre a nessuno ciò che deve dire (sarebbe violenza anche quella): però si può balbettare, un po’ confusi, di fronte a un silenzio che si fa fatica a capire.
Non si insegna al Papa a fare il Papa, e nemmeno si può imporre a nessuno ciò che deve dire (sarebbe violenza anche quella): però si può balbettare, un po’ confusi, di fronte a un silenzio che si fa fatica a capire.

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