Francesca Nanni e Beniamino Zuncheddu
dal Corriere della Sera
La procuratrice che riaprì il caso Zuncheddu:
«Così ho capito che era innocente,
le mie frasi hanno smosso la coscienza
di chi lo accusava.
Dopo la sentenza ho pianto»
di Giusi Fasano
Il pastore sardo, dopo 33 anni di carcere, è stato assolto per non aver commesso il fatto. Francesca Nanni era Pg a Cagliari, oggi è a Milano
«Non le nascondo che ho pianto. Quando si fa un lavoro come il mio si finisce per costruirsi addosso una specie di corazza di fronte alla sofferenza altrui. Però non sempre funziona…».
In questi due giorni non ha funzionato. Francesca Nanni si è commossa ogni volta che ha sentito parlare di lui, di quel pastore sardo che nemmeno conosce.
Oggi è la procuratrice generale della Corte d’appello di Milano, ma nel 2019 aveva lo stesso incarico a Cagliari e fu lei a firmare la richiesta di revisione per Beniamino Zuncheddu . Fu lei a credere, studiare, collegare fatti, indagare. Insomma: fu lei a trovare la chiave che poi avrebbe aperto la cella di quell’uomo in carcere da innocente.
Nella sua vita professionale ha avviato soltanto due istanze di revisione: questa e l’altra per Daniele Barillà, pure lui alla fine assolto e scarcerato. Non l’ha invece convinta la richiesta — l’unica delle tre presentate che toccava a lei valutare — per la revisione del processo sulla strage di Erba: ha mandato tutto ai colleghi di Brescia ma con un parere negativo. E quando loro hanno deciso comunque di riaprire il caso lei ha commentato con poche parole, istituzionali. Mai una frase sul merito: «Aspettiamo serenamente l’esito del nuovo dibattimento. I processi — ripete — si fanno nelle aule di giustizia e guai alla pressione mediatica che, come ho detto anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario, non fa bene ai magistrati».
Il caso Zuncheddu, per dire. La dottoressa Nanni ricorda di aver «lavorato in silenzio per mesi prima di arrivare alla revisione».
La prima volta che quel pastore catturò la sua attenzione fu quando — dopo 27 anni di cella — ripeté una volta di più di essere innocente. Eppure sarebbe stato facile uscire, a quel punto: bastava ammettere di essere l’assassino di cui parlavano le sentenze, cioè l’uomo che aveva ucciso tre persone e aveva ferito Luigi Pinna, poi diventato testimone oculare. «Fu una circostanza alla quale feci caso» ricorda la procuratrice. «Più avanti il suo avvocato venne a parlare prima con un mio sostituto e poi con me. Era preciso, capace, mi fece un’ottima impressione. E allora feci una cosa che avevo imparato nei processi di mafia: andai a vedere se e quali episodi criminali si erano verificati in quella zona prima del triplice omicidio. È così che arrivammo al sequestro Murgia e intuimmo che poteva avere a che fare con il nostro caso».
Ma la dottoressa Nanni è una donna pratica. Chiamò l’avvocato e gli disse: «Mi ha convinto, quest’uomo è innocente ma con le prove che abbiamo non andiamo da nessuna parte». Oggi dice che «ci voleva qualcosa di più. E allora convinsi la Procura ordinaria ad aprire un’inchiesta per cercare eventuali altri complici e mettemmo sotto controllo alcune persone. Fra gli altri anche Luigi Pinna».
Un giorno Pinna fu convocato al palazzo di giustizia. «Io stavo preparando la richiesta di revisione, quindi lo chiamai per chiarimenti. Ricordo che gli dissi più volte questa frase: “Vede, Pinna. Io la capisco, vedo il suo tormento. So che in tutto questo tempo lei ha vissuto male e io e lei sappiamo perché: lei ha il dubbio che quella persona che dice di aver visto non sia il vero responsabile”. Quando uscì andò dalla moglie che lo aspettava in macchina e disse le famose frasi: quelli hanno capito, sanno la verità».
È da quelle frasi che è ripartito il processo, poi il colpo di scena: Pinna che in aula ritratta la sua vecchia testimonianza e racconta che fu un poliziotto a mostrargli la foto di Zuncheddu e indicarlo come colpevole. Francesca Nanni dice: «Mi piace pensare che quella mia frase ripetuta più volte abbia mosso la coscienza del teste, anche se non credo che lui abbia mai pensato di accusare un innocente». Zuncheddu le ha fatto arrivare un milione di «grazie» ma per lei resta uno sconosciuto («lo conosco dalle carte»). Incontrarlo? «Se e quando ci sarà l’occasione lo incontrerò volentieri».
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dal Corriere della Sera
Strage del Sinnai,
la sentenza della Corte d’Appello:
assolto Zuncheddu.
«È la fine di un incubo» dopo 33 anni di carcere
di Ilaria Sacchettoni
Era stato condannato nel 1991 perché accusato della strage del Sinnai in Sardegna. I giudici della Corte d’Appello hanno deciso per l’assoluzione
Beniamino Zuncheddu
«È la fine di un incubo». Con queste parole Beniamino Zuncheddu, in lacrime, ha accolto la sentenza di assoluzione dei giudici della Corte d’appello «per non aver commesso il fatto»: era imputato del massacro di Sinnai. Una sentenza arrivata per lui dopo 33 anni passati in carcere.
La vicenda
Torniamo allora al buio di quella sera: l’8 gennaio 1991, in un ovile di Su Enazzu Mannu (Sinnai), un fucile fa fuoco su Gesuino Fadda di 57 anni, suo figlio Giuseppe di 25 e il loro pastore Ignazio Pusceddu, 57 anni anche lui. Il quarto uomo, Luigi Pinna (genero di Gesuino: è sposato con la figlia Daniela), colpito alla gamba e alla spalla, respira in silenzio senza darsi per vinto: la mattina dopo lo troveranno ferito ma vivo le forze dell’ordine, unico sopravvissuto al massacro. L’eccidio di Sinnai ha un testimone ma subito appare incerto. Chi ha fatto fuoco, spiega, aveva il volto coperto da una calza di nylon. Siamo nell’Italia del pentapartito che si prepara alla rivoluzione felpata del pool milanese e alle Mani pulite dell’anticorruzione. A chi interessano gli allevatori del Cagliaritano? Ne parlano per un po’ le cronache nazionali ma poi il caso scivola giù sulle pagine locali e i tormenti del supertestimone Pinna finiscono nel cono d’ombra mediatico. Il pubblico ministero dell’epoca si indirizza verso un movente «agropastorale», mucche trucidate con vecchi fucili al confine fra ovili, gli allevatori hanno la loro ferocia e punto. Si fa avanti però un ambizioso dirigente di polizia, Mario Uda, che vuol chiudere la faccenda, archiviare il faldone della procura trovando un colpevole. Fa sapere, allora, ai magistrati dell’epoca di aver ricevuto una confidenza speciale, una dritta. L’autore del triplice omicidio, denuncia, è un servo pastore con la seconda media: si chiama Beniamino Zuncheddu. Il sopravvissuto Pinna, tornando sui suoi passi, lo indica come responsabile della mattanza. Il servo pastore finisce dentro a ventisei anni, cinque mesi prima sua madre è morta in un incidente stradale, lui è già provato e quasi incapace di combattere contro quella che appare una circostanza più grande di lui. Il tempo trascorre lento quando si sta in una cella finché nel 2017 accade qualcosa.
Il nuovo scenario
Il nuovo difensore, Mauro Trogu, un avvocato che, all’epoca, non ha ancora quarant’anni porta avanti indagini difensive. Studia di buona lena il caso del rapimento coevo di Giovanni Murgia che si era concluso positivamente dietro il pagamento di un riscatto di 600 milioni di lire e rintraccia dei punti in comune. Il massacro di Sinnai cambia tonalità e da truce vicenda pastorale diventa sanguinoso indotto di un antico business sardo, quello dei rapimenti. Il fascicolo Zuncheddu viene riaperto dalla Procura di Cagliari che dispone nuove intercettazioni. Si controllano i cellulari e, sorpresa, emergono nuovi elementi che tradotti dal perito della Procura (il dialetto sardo si conferma complesso) rivelano un’altra storia.
L’inganno
Pinna, spossato, confida a sua moglie l’inganno. Affiora in particolare che il sopravvissuto, trentadue anni prima, era stato sottoposto a pressione, la foto del giovane Beniamino Zuncheddu gli era stata prima mostrata da Uda quindi era stato invitato a riconoscerlo come il killer dell’ovile. Lei, Daniela Fadda, sottolinea come sia importante mantenere sempre la stessa versione dei fatti. Qualunque reato un magistrato possa ravvisare in questa presunta manipolazione delle prove da parte dell’ambizioso Uda oggi sarebbe prescritto. Però. C’è un però. Anche una giustizia lenta e lacunosa, stavolta, non può voltarsi dall’altra parte, deve fare i conti con l’enormità della scoperta. Ricorda l’avvocato Trogu: «Ho bussato a varie porte per cercare di far capire la necessità di porre rimedio a quella ingiustizia e ogni volta che quelle porte restavano chiuse perdevo sempre più fiducia nel sistema della giustizia. Poi, però, alcune porte si sono aperte, persone di spessore straordinario hanno iniziato a voler ascoltare quella storia e con il loro lavoro hanno messo in moto una macchina che è arrivata fin qui».
La bugia originale
Ricapitoliamo allora: ci sono le nuove intercettazioni nelle quali Pinna confida in modo inequivocabile il peccato originale di quel riconoscimento che ha aperto le porte dell’ergastolo a Zuncheddu. E c’è un nuovo movente che i magistrati rintracciano all’interno del rapimento Murgia. Le vittime di Sinnai, i Fadda, avrebbero avuto qualche legittimo appetito verso il riscatto pagato per liberare Murgia. Dunque sarebbero diventate rivendicative e ingombranti. È un radicale cambio di prospettiva. La pg Nanni indirizza alla Corte d’Appello di Roma, competente a decidere, una corposa istanza di revisione (firmandola con Beniamino). «La dinamica dell’assalto all’ovile ricostruita nei punti precedenti consente di sostenere che gli omicidi furono commessi da un professionista del crimine per causali molto più rilevanti di qualche pallino sparato contro delle bestie» scrive. Tutto procede velocemente allora? Macché. La richiesta di revisione affonda nella palude delle pendenze processuali romane, circa 50mila fascicoli di arretrato (censite nel 2016 dall’allora presidente della Corte d’Appello Luciano Panzani, forse al momento sono di più). Beniamino ora deve guardarsi anche dalla burocrazia.
La bugia originale
Un’istanza di scarcerazione al tribunale di sorveglianza di Cagliari, intanto, viene respinta. Scatta il ricorso di Trogu. La Cassazione riconosce che non vi è un motivo valido per tenerlo ancora dentro ma nulla si smuove se non che anche dalla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma viene chiesta la revisione del processo. L’avvocato, con tutti i suoi dubbi, porta avanti la propria battaglia. «Quando ho letto» confida «per la prima volta la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Cagliari che nel 1992 aveva confermato la condanna all’ergastolo di Beniamino ho avuto paura. Ho pensato che se un giudice può valutare le prove in quel modo nessun cittadino può sentirsi al sicuro». Don Giuseppe Pisano, intanto, il parroco del paese da cui viene Beniamino lo ricorda nelle sue omelie e tiene i rapporti con Augusta. La garante dei diritti dei detenuti di Cagliari, Irene Testa, chiede un nuovo processo. C’è chi come il fotografo Alessandro Spiga realizza un servizio per lui, gli scatti lo mostrano compito nella sua rassegnazione. Un piccolo movimento d’opinione inizia a farsi strada. E Zuncheddu può usufruire di un permesso per lavorare al mattino all’esterno delle mura carcerarie: in un bar al centro di Cagliari, Le Bon Bec Cafè. E la domenica può pranzare a casa della sorella.
La richiesta di grazia
Una richiesta di grazia è stata inviata al Quirinale per Zuncheddu, detenuto «modello» per il rispetto degli orari e delle norme penitenziali, la capacità di sopportazione e la dignità dell’uomo, remissivo e collaborativo che si è sempre sforzato di convivere con l’inaccettabile realtà. E il presidente della Camera Penale di Roma, Gaetano Scalise commentava: «Beniamino ha diritto di veder definito in tempi ragionevoli un processo di revisione in cui sono emersi fatti che fanno pensare al suo coinvolgimento in un drammatico errore giudiziario». Da novembre scorso un primo risultato: Beniamino può affrontare gli ultimi mesi di processo in libertà. Il giorno dopo la sua scarcerazione, accanto alla garante dei diritti dei detenuti della Sardegna Irene Testa, dirà: «Non sono l’unico, ci sono altri innocenti nelle carceri, chi avrà voglia di leggersi le carte troverà la verità».
La sentenza
Infine ieri la sentenza della Corte d’Appello di Roma dopo il processo di revisione. I giudici hanno revocato l’ergastolo facendo cadere le accuse per Zuncheddu con la formula «per non avere commesso il fatto». «Per me è la fine di un incubo», ha affermato l’ex allevatore apparso visibilmente emozionato. La Corte d’Appello ha, quindi, accolto le richieste del procuratore generale, Francesco Piantoni, che nel corso della requisitoria ha ricostruito trent’anni di vicenda giudiziaria ponendo al centro del suo discorso la credibilità di Luigi Pinna, oggi 62enne.
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da www.huffingtonpost.it
29 Gennaio 2024
I magistrati onnipotenti
che non chiedono scusa a Beniamino Zuncheddu
di Pierluigi Battista
Le toghe diffondono la bugia secondo cui la responsabilità civile dei giudici mortificherebbe la loro indipendenza. E invece darebbe un potente incentivo a fare meglio il loro lavoro
Naturalmente nessuno chiede scusa a Beniamino Zuncheddu che ha trascorso quasi 33 anni di carcere da innocente per l’insipienza, l’incompetenza, l’inadeguatezza di chi lo ha malamente inquisito, processato e incarcerato.
Non chiede scusa l’Anm, l’organo sindacal-corporativo dei magistrati che protesta solo se viene negato alla magistratura un potere assoluto e incondizionato che schiaccia gli individui, in quella parodia di Stato di diritto che siamo diventati.
Non chiede scusa un giornalismo pigro e subalterno che si sdraia sui materiali dell’accusa e non tiene in nessun conto, come in questo caso, il profilo umano di chi è vittima di un sistema giudiziario capace di queste nefandezze.
Tranne il Partito Radicale, che si è impegnato in questa battaglia garantista, tacciono imbarazzati i partiti che temono di aprire un conflitto con la magistratura onnipotente.
E si fanno pochi complimenti a Francesca Nanni, che è riuscita a ottenere la revisione del processo: una professionista accurata e attenta, a differenza dei suoi colleghi che non pagheranno nulla per la loro sciatteria.
Il risarcimento dovuto a Zuncheddu è, naturalmente, a carico dello Stato. I magistrati che si vogliono onnipotenti diffondono la bugia secondo cui la responsabilità civile dei giudici mortificherebbe la loro indipendenza. E invece darebbe un potente incentivo a fare meglio il loro lavoro e a non costringere una vittima come Zuncheddu a veder distrutta la propria vita.
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