Maris, sorella del cardinale Carlo Maria Martini: «Da ragazzino andava a gettare i libri proibiti nel Po. Il Papa? Non volle mai farlo»

Carlo Maria Martini con la sorella Maria Stefania
da il Corriere della sera

Maris,

sorella del cardinale Carlo Maria Martini:

«Da ragazzino andava a gettare

i libri proibiti nel Po.

Il Papa? Non volle mai farlo»

di Aldo Cazzullo
Maris Martini, sorella del cardinale morto 10 anni fa: «Dietro Carluccio mi apparvero papà e mamma. Davanti a Wojtyla si inginocchiò con le scarpe bucate»
Dal nostro inviato
GARDA (VERONA) — Maria Stefania Martini, detta Maris, è una donna alta, bella, dagli occhi chiari. L’aria di famiglia è quella. A 88 anni, sta passando qualche giorno in una casa di cura sul lago di Garda; «ma solo per dimagrire».
Signora Maris, com’era suo fratello, Carlo Maria Martini?
«Carluccio. In famiglia tutti lo chiamavamo così. Quando qualcuno, per far intendere di essere in confidenza con lui, lo chiamava Carlo Maria, io sorridevo».
Com’era Carluccio?
«Il miglior fratello che potessi sognare. Mi portava in casa le mie amiche in bicicletta. Organizzava per noi i mercatini, i giochi con le bambole».
Giocava pure lui?
«No, a lui piaceva giocare a nascondino con gli altri ragazzi. Ma non era un leader. Si prendeva cura degli amici, badava a che nessuno fosse escluso».
A scuola com’era?
«Il più bravo. Lo ricordo sempre sui libri. Passava i compiti al vicino di banco, ma gli diceva: “Sei sicuro che sia per il tuo bene?”. Per questo qualcuno non lo amava. Francesco, il nostro fratello più grande, lo picchiava gridando: “Sei un perfettino, ti faranno Papa!”».
Ci andò vicino.
«Non voleva assolutamente. Lei se lo ricorda al funerale di Wojtyla, alla vigilia del conclave del 2005? Arrivò zoppicando, appoggiato a un bastone nodosissimo. Non gli avevo mai visto un bastone così in vita sua. Si sedette a San Pietro e lo appoggiò davanti, ostentandolo in mondovisione il più possibile. Era il suo modo di dire: “Non votatemi”».
Eppure in quel conclave ebbe almeno 35 voti.
«Che, dicono, fece confluire su Ratzinger. Avevano idee diverse; ma mio fratello lo considerava l’uomo giusto per la Chiesa in quel momento».
Com’era il rapporto tra loro?
«Quando glielo chiesi, dopo che Ratzinger divenne Papa, mi indicò con il suddetto bastone un cassetto. Dentro c’era la loro corrispondenza. Si confrontavano sulla Bibbia, dandosi rigorosamente del lei».
Nel suo libro «L’infanzia di un cardinale» lei cita una testimonianza di Alfonso Signorini, il direttore di «Chi».
«L’argomento era l’omosessualità di Signorini, che confidò a mio fratello le proprie sofferenze. Lui rispose che “saremo ricordati per quanto avremo amato”. Una frase in cui non riconosco il suo stile; ma l’aveva trovata in San Giovanni della Croce, su cui stava lavorando per un ciclo di esercizi spirituali».
La famiglia Martini era religiosa?
«Nostra madre Olga sì. Nostro padre Leonardo, ingegnere, non tanto. Ma Carluccio era nato con la vocazione dentro».
Ebbe mai fidanzate?
«No. E quando Montanelli gli chiese se avesse avuto tentazioni, rispose: lei pensa che interessi ai lettori? Lo ricordo nel 1940, al lido di Camaiore, fermarsi a pregare in un convento vicino alla spiaggia. Una grazia naturale, che sentiva di dover confermare con la propria vita. Il resto lo fecero i gesuiti. Un giorno, nel 1941, cominciò a gettare i libri di nostro padre nel Po…».
Nel Po?
«Carluccio aveva portato a casa l’Indice dei libri proibiti, e si era reso conto che la biblioteca di casa ne era piena; a cominciare da Balzac. Avevamo lasciato la nostra casa natale di via Cibrario e ci eravamo trasferiti sul Lungo Po. Mio fratello e mia madre scesero sulla riva. Lei ritagliava il frontespizio dei libri, per cancellare titolo e autore; e lui li gettava con tutta la sua forza al centro del fiume, in modo che la corrente li portasse via».
Quando decise di farsi prete?
«Nel settembre 1944. Andò a Cuneo, in seminario. Siccome sapeva il tedesco gli accadde di fare da interprete: conobbe Peiper, il boia di Boves. Mio padre soffrì moltissimo il doversi privare di lui. Scrisse a suo fratello Pippo e a sua sorella Elena, dolendosi perché stava perdendo il figlio prediletto. Entrambi gli risposero che sarebbe stata una benedizione per tutta la famiglia».
Fu così?
«Non siamo santi. E Carluccio non era un asceta. Era un uomo che amava le gioie della vita. Ad esempio gli piaceva andare al ristorante: quand’era rettore della Gregoriana scoprì la cucina di Roma, mangiavamo insieme i carciofi alla giudia e la carbonara. Certo, era un uomo di grande fede».
Non aveva mai dubbi?
«Se li aveva, li confidava al confessore, non a noi. Nel 1972 perdemmo nel giro di pochi mesi nostro padre, nostra madre e nostro fratello Francesco, stroncato da un ictus cento giorni dopo essersi sposato. Fu un dolore terribile. Tempo dopo mi confidai con Carluccio, lui era già arcivescovo di Milano. Mi disse: “Maris, non è come dici. Loro non sono morti. Sono qui con noi. Non li vedi?”. Io alzai lo sguardo, e alle sue spalle vidi mamma, papà e Francesco».
Anche vostra madre aveva sofferto per la sua scelta?
«Sì. Sarà stato il 1949, Carluccio studiava teologia a Chieri, quando gli venne una polmonite. La mamma voleva portargli un cuscino più morbido; ma nel convento non lasciavano entrare le donne. La ricordo mentre stringe e bacia il cuscino su cui il figlio avrebbe posato il capo, prima di affidarlo a papà perché glielo portasse».
Il giovane Martini viaggiò molto, in America e in Terrasanta.
«Vicino a Gerusalemme, arrivando dall’Egitto, cadde in un pozzo. Stava visitando un sito archeologico quando la terra gli franò sotto i piedi, e lui precipitò. Si salvò per miracolo, ma ruppe la macchina fotografica che portava al collo. Era mia, gliel’avevo prestata. Rimase mortificatissimo».
Con Wojtyla che rapporto avevano?
«Certo non provavano la stessa sintonia che legava mio fratello a Paolo VI. Eppure fu Wojtyla a mandarlo a Milano, anche se erano così diversi. Noi eravamo una famiglia borghese, all’ordinazione episcopale venne la nostra balia veneta, la Lisa, con sua figlia, la Elsa. Le presentammo al Papa, che però non capiva la parola “balia”. La Elsa ebbe un colpo di genio: “Mi son la figlia de la dona di servissio”. Wojtyla annuì».
Come ricorda la cerimonia?
«Quando mio fratello si prosternò davanti al Papa, vidi che aveva le scarpe bucate. Il vescovo africano al fianco le aveva lucidissime. Carluccio non amava il Vaticano, si sentiva soffocare. Le cerimonie lo annoiavano, i formalismi lo infastidivano. Indossò le calze rosse da cardinale sbuffando».
Fu felice di trasferirsi a Milano?
«Accadde tutto all’improvviso. Gli spiaceva lasciare Roma e il suo clima tiepido. Noi siamo torinesi, la nostra chiesa di riferimento è la Consolata. Per i milanesi invece il Duomo, l’arcivescovo, sono tutto. Si trovò benissimo. In tanti — Albertini, de Bortoli, Liliana Segre… — lo adoravano».
Prima però viene la Milano del terrorismo.
«Mio fratello celebrò matrimoni e battesimi in carcere. Fu criticato per questo; ma lui ha sempre avuto la passione del dialogo. Fece incontrare carnefici e vittime. E si fece consegnare due sacchi pieni di armi. Gli chiesi: e se vi beccavano? Credo avesse avvertito le forze dell’ordine e i magistrati. Al suo segretario aveva detto solo: ti porteranno questi due sacchi, tu ritirali. Era la resa incondizionata dei terroristi. L’inizio della riappacificazione».
Poi venne la Milano da bere.
«Giravano molti soldi. Lui con le offerte aprì la Casa della carità, il museo diocesano… Ora ho fatto fare una Rosa che porta il suo nome, e siccome per qualche anno la produzione è limitata le ho prese tutte io, le rose, per regalarle ai luoghi che Carluccio aveva nel cuore. Per primi, appunto, la Casa della carità, il museo, le carceri».
Quindi arrivò Tangentopoli.
«Gli dissi: tu tieni i tuoi discorsi, poi i tuoi parroci fanno votare per la Lega… Sorrise. Era un uomo molto spiritoso e bonario».
E andò a Gerusalemme.
«Diceva: “A Gerusalemme è meraviglioso morire, ma è terribile essere moribondi”. Viveva nel Pontificio istituto biblico, aveva il Parkinson, gli servivano cure, a volte cadeva, ma non voleva disturbare i confratelli, che passavano tutto il giorno fuori a studiare. Sognava di essere sepolto nella Valle di Giosafat, dove si terrà il Giudizio universale; è venuto a morire a Gallarate».
Dieci anni fa. Nella casa dei gesuiti. Sei mesi prima delle dimissioni di Ratzinger e dell’elezione di Francesco.
«Con Bergoglio si erano sfiorati nel 1974. Erano entrambi a Roma per la congregazione generale della Compagnia di Gesù. La spaccatura tra conservatori e difensori della teologia della liberazione era terribile, mio fratello tentava di mediare. Per calmare gli animi, padre Arrupe, che aveva una bella voce, nei momenti di massima tensione intonava un canto».
Il cardinal Martini temeva la morte?
«Sì. Forse perché presagiva che sarebbe stata una morte pubblica. L’arciprete gli chiese in quale parte del Duomo volesse essere sepolto. Rispose: faccia lei».
Come ricorda il 31 agosto 2012?
«I miei figli, Giulia e Giovanni, mi mandarono a chiamare. Gli tenevo la mano, ma non era più cosciente. Ha avuto una bella morte; troppo affollata, però. Il soggiorno era pieno, in camera sua erano in dodici. Ricordo un’orribile coperta peruviana in pile, ricamata a farfalle e fiori. Era il 31 agosto e proprio non serviva. Gliel’aveva messa addosso una suora, temo per farla a pezzetti da diffondere come reliquie. Ma io avrei preferito un lenzuolo bianco e un cuscino morbido, come quello che tanto tempo prima gli aveva portato la nostra mamma. Come nell’iconografia della morte dei santi».

 

***
dal Corriere della Sera

Carlo Maria Martini,

dieci anni dalla morte:

che cosa di lui oggi ci porterebbe un po’ di luce?

di Marco Garzonio
Intuizioni, riflessioni e inquietudini del cardinale arcivescovo di Milano. A Basilea con Aleksi fu protagonista nel 1989 del primo incontro ecumenico dopo 500 anni. Durante Tangentopoli fu un salvagente morale
Per fare memoria di Carlo Maria Martini, morto il 31 agosto 2012, dobbiamo chiederci cosa di lui oggi sarebbe utile avere per prospettare qualche punto fermo nel disorientamento che offusca individui, governi, relazioni internazionali e un po’ di luce sul cammino di persone e comunità. È un modo per rispettare lui e assumere su di noi il riferimento al Salmo che il cardinale volle inciso sulla tomba in Duomo: «Lampada per i miei passi è la tua Parola». Sempre nello spirito che Martini ha disseminato negli oltre 22 anni di magistero immaginiamo sette (numero biblico per eccellenza cui infinite volte l’Arcivescovo fece riferimento) possibili nessi tra memoria viva del cardinale e attualità cocente.
Casa Europa
Non c’era evento piccolo o grande di cui Martini non cercasse consonanze nella Scrittura. Dalla liturgia del giorno o dal brano che gli balzava all’occhio aprendo la Bibbia si chiedeva «Che cosa mi dicono queste parole». Dio non ha parlato una volta per tutte e non ha abbandonato l’uomo al suo destino. La creatura è chiamata ogni giorno a continuare l’opera del Creatore con altri uomini, ambiente, cultura. Martini fu protagonista nel 1989 del primo incontro ecumenico dopo 500 anni: a Basilea guidò i cristiani d’Europa insieme ad Aleksi, Metropolita di Leningrado poi Patriarca della Russia. Niente scontri di civiltà ma la Parola (il titolo di Basilea, «Giustizia, pace, salvaguardia della Creazione», era sintesi del vangelo delle Beatitudini) rende fratelli. Il progetto d’una casa comune europea coi cristiani al lavoro fianco a fianco contribuì al crollo del Muro di Berlino.
Il senso della storia
Allo scoppio di Tangentopoli Martini fu un salvagente morale nello sfarinamento di politica, istituzioni, economia (Romiti chiese scusa in pubblico al cardinale per il coinvolgimento della Fiat nello scandalo). Ma punto di riferimento per tutti, credenti e non, divenne perché propose una visione del vescovo estraneo a beghe pratiche e logiche di potere. Riportò d’attualità il patrono Ambrogio, «defensor civitatis», capace di negare la comunione all’Imperatore per comportamenti dispotici.
Potenzialità individuali
La prima lettera pastorale di Martini «La dimensione contemplativa della vita» stupì i laici e mise in crisi i cattolici. I primi trovarono un uomo di Dio che esponeva pensieri, idee, valutazioni in modo molto laico, con una libertà invece poco praticata nelle «chiese ideologiche» dei tempi (marxiste, liberal); i secondi, affetti ancora da dosi di clericalismo e rendite di posizione d’un Paese che si credeva cattolico, vennero riportati alla coscienza individuale. «Cristiani adulti» era leit motiv della pastorale martiniana.
Il ruolo della politica
Alla morte di Lazzati (1986) Martini istituì le Scuole di formazione al sociale e al politico. Le intitolò all’ex rettore della Cattolica che, tornato dalla prigionia in Germania, aveva scritto un manifesto «I fondamenti di ogni ricostruzione» ed era stato Padre Costituente (si attende che Roma sblocchi la causa di beatificazione di Lazzati). La politica come servizio ispirata al bene comune procurò guai a Martini. La Lega ne chiese la rimozione da Milano. Ma anche molti cattolici faticarono ad accettare il senso di liberazione che lui espresse finita l’esperienza storica della Dc: la fede poteva essere lievito, granello di senape, animare un piccolo gregge nel sociale e non strumento di governo o di favori. Iniziava la traversata del deserto che dura oggi: la Chiesa di Francesco non dice per chi votare e che tratterà con chi andrà a palazzo Chigi. Resta il punto fermo del vangelo.
Le braci
Nell’intervista postuma pubblicata dal «Corriere» l’1 settembre 2012 Martini evocò l’icona delle braci. Torna il senso della storia, arricchito dal riferimento al possibile apporto ricreatore della Spirito. Il vento soffia e i tizzoni fan sprigionare il fuoco. Il cardinale non si arrese anche se la Chiesa si mostrava arretrata di 200 anni.
Preghiera, non sogni
Nel libro «Conversazioni notturne a Gerusalemme» Martini fa una confidenza a padre Spoerschil: prima aveva sogni sulla Chiesa, ma adesso (2007, l’ultimo anno a Gerusalemme) lui «prega per la Chiesa». Sembra una distonia con un Papa che da quasi dieci anni sprona a sognare. Forse è l’abbandono fiducioso alla «lampada per i miei passi» che conta più delle parole.
Pensieri e inquietudini
Quando Martini compì 80 anni Tettamanzi guidò un pellegrinaggio a Gerusalemme per portargli gli auguri della città. Ai Getsemani Martini si congedò dai fedeli così: «L’importante è che impariate a pensare, a inquietarvi». Riprendeva un’antica preghiera cristiana che lui aveva ripreso: «Dona Signore al tuo popolo Pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze». Coscienza, idee, libertà, responsabilità: quattro virtù senza tempo né casacche, attualità per la città e per il mondo.

6 Commenti

  1. luigi egidio ha detto:

    Che Delpini difetti di intelletto lo capisce anche un adulto bambino non cresciuto nella fede che abbonda nella Chiesa come appare dalla celebrazione festosa per il nuovo cardinale. La chiesa di s. Abbondio sembra il luogo adatto per lo show di Delpini. Si è fatto venire quel coraggio mancato al curato don Abbondio del Manzoni. Con il suo stile e il suo tatto s’è scordato di quella frase (il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare) e si è lanciato senza paracadute facendo una figura di m…a in tutti i sensi. Nella confusione ha sbagliato pure la squadra per la quale tifa il Papa (Ciclón, Cuervos, Santos e Los Matadores del San Lorenzo e non Los Millionarios del River Plate squadra dei ricchi del Nord ai quali si contrappongono gli Xeneizes del Boca Juniors in prevalenza di origine genovese gente povera del Sud). Papa Francesco ha la tessera n. 88235 del San Lorenzo meglio di quella n.1816 della P2 di Berlusconi. Se avrebbe veramente coraggio Delpini si dimetta da vescovo della diocesi di Milano e si ritiri in un eremo a sua scelta. Lì solo lì può trovare quella pace interiore che gli farà vincere quella superbia che lo rende ridicolo non solo ai milanesi e ai lombardi. Se no rimarrà il trottolino come lo chiama don Giorgio che girerà le parrocchie per cercare di placare le insane inquietudini che lo affliggono.

  2. Simone ha detto:

    se proprio ci tiene lo può trovare qui:

    https://youtu.be/459Z4bNgiT8?t=8051

    è il video integrale della celebrazione ma parte dal momento esatto in cui parte il messaggio del vescovo.

  3. Simone ha detto:

    Caro don Giorgio,
    spero che lei non abbia guardato il video con il messaggio al termine della celebrazione di ringraziamento per la creazione a cardinale di Oscar Cantoni, da parte del vescovo Mario (si trova sul sito della diocesi).
    Ben rappresenta l’abisso che c’è tra il cardinal Martini e il vescovo Mario.
    Quasi imbarazzante il suo discorso; è riuscito a dare del pazzo al papa e a banalizzare un momento di fede. Premetto che i cardinali non dovrebbero esistere, ma un vescovo frivolo, banale, che spera di far ridere è una vera condanna. Probabilmente non aveva parole sensate profonde, allora ha scelto di fare questa scenetta che ha fatto ridere giusto i vescovi dietro di lui.
    Manchi Carlo Maria, quanto manchi a queste terre.
    Oggi siamo immersi nel nulla, nel vuoto cosmico. Ci riempiamo di parole inutili e non possiamo che vedere una minaccia nel futuro. Lei aveva lo sguardo lungo, la parola profetica, infondeva sicurezza. Potevamo dire: “c’è il pastore”. Oggi c’è un piccolo comico che nell’imbarazzo di non esser stato scelto come cardinale cerca di far ridere il popolo. Pirandello definiva l’ironia come il sentimento del contrario. Brucia non esser stato creato cardinale…già fin troppo poter sedere indegnamente sulla cattedra di Ambrogio, Carlo, Ildefonso, Carlo Maria, Dionigi…

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