Omelie 2012 di don Giorgio: Domenica dopo Natale

30 dicembre 2012: Domenica dopo il Natale

Pro 8,22-31; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14

Ciò che accomuna i tre brani della Messa di questa domenica è il fatto che ci troviamo di fronte a tre inni o composizioni poetiche, intendendo per poesia qualcosa di veramente sublime, e non semplicemente di qualcosa di estetico, pur ricco di sentimenti umani.
Tre inni che hanno origini diverse, ma che sono stati ispirati dalla medesima mente divina. Si parla di sapienza che ha origine in Dio e che opera nel creato (il brano del libro dei Proverbi), si parla del Verbo o Parola di Dio che si fa carne umana (il Prologo di Giovanni), si parla di Cristo che nella sua pasqua riconcilia tutte le cose (il brano di san Paolo).
Vorrei soffermarmi in particolare sul brano del Vangelo. La notte di Natale ho citato le parole del cardinale Martini: “Il Prologo è uno dei brani più difficili di tutto il quarto Vangelo e non si finisce mai di studiarlo, di rimeditarlo, di contemplarlo… Su questo testo si può dire moltissimo, si sono scritte migliaia di pagine sia sotto il profilo teologico sia sotto quello filologico”. Questo però non ci deve far concludere che allora è meglio passare ad altro, come quando non riusciamo a capire una cosa. Se la Liturgia ce l’ha riproposta anche oggi, vuol dire che questa pagina è importante, che vale la pena di tentare di coglierne almeno un barlume di verità. Davanti a un dipinto fortemente simbolico chi non prova qualche emozione? Così quando sentiamo un brano di grande musica, magari non di immediato effetto. Non si può vivere solo di cose già scontate. Non miglioreremmo mai. Migliorare comporta uno sforzo di elevarci al di sopra della banalità quotidiana.
Nel Prologo troviamo il termine greco “Logos”, tradotto in italiano con Verbo (dal latino “verbum”) o Parola. Diciamo subito che il termine “Logos”, al di fuori del Prologo, lo troviamo solo una volta nella prima lettera di Giovanni (1,1): “Ciò che era fin da principio…, ossia il Logos della vita”) e una volta nell’Apocalisse (19,13): “È avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Logos di Dio”. In questi testi il Logos indica senza equivoci il Figlio di Dio che si è fatto carne.
Ma perché Giovanni chiama Gesù Cristo Logos, cioè Verbo, Parola? Non poteva usare un termine più comune, per esempio “sophia”, che vuol dire sapienza? Il primo brano, tolto dal libro dei Proverbi, parla proprio della sapienza che viene personificata e presentata come prima creatura di Dio: attraverso di lei il disegno di Dio creatore ha trovato piena realizzazione e gli uomini, nel seguirla, trovano la pienezza della vita.
Logos è un termine filosofico che ha tanti significati diversi tra loro. Probabilmente Giovanni ha voluto rivolgersi anche agli ambienti ellenistici, di cultura greca. Non dimentichiamo che ad Efeso, dove Giovanni dimorava e dove forse ha scritto il Vangelo, il filosofo greco Eraclito aveva dato l’avvio, cinque secoli prima, alle speculazioni greche sul Logos e l’alessandrino Apollo, poi missionario cristiano, poteva aver diffuso il pensiero di Filone, filosofo ebreo, secondo il quale il Logos era mediatore e strumento dell’opera creatrice di Dio: di Logos, dunque, gli efesini dovevano aver sentito parlare parecchio.
Giovanni dà alla parola Logos un significato preciso: “manifestazione di qualcosa”. È parola, ma in quanto rivela un’idea, un pensiero; Gesù allora è Verbo o Parola di Dio in quanto rivela il Padre. Come rivela il volto del Padre? Incarnandosi.
Ecco la straordinaria novità. Il cristianesimo dunque non è tanto una dottrina o una morale, ma l’incarnazione del Figlio di Dio che manifesta chi è il vero Dio.
Qui potremmo inserire una considerazione molto pratica. Che senso diamo alle nostre parole? Vi ho già fatto notare la differenza tra parole parlate e parole parlanti. Le parole parlate sono quelle buttate fuori senza senso, le parole parlanti sono quelle che hanno un senso. Ogni parola che diciamo deve rivelare qualcosa di importante. È sempre così? Viviamo in una società dove tutti parlano, ma ben pochi sanno ciò che dicono o, meglio, non danno alla parola che usano un senso ben preciso.
“Il Logos o il Verbo si fece carne”. Il  cardinale Martini commenta: “La realtà divina, eterna, invisibile, inaccessibile, inscrutabile, indicibile, al di là di ogni pensiero umano, di ogni affermazione umana è qui, è carne. Il Logos si è racchiuso in un grumo di carne, si è reso visibile, si è attendato fra noi”. Che significa “si è attendato tra noi”? La traduzione della testo di Giovanni che si usa nella Liturgia è questa: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Non è la traduzione esatta del testo originale che invece dovrebbe essere:  “E il Logos si fece carne e pose la sua tenda tra di noi”. È un esplicito riferimento al deserto, quando il popolo ebraico viveva sotto le tende, e quando sotto una tenda Dio aveva scelto di essere vicino al suo popolo.
“Il Logos si fece carne”. Anzitutto chiariamo che la parola “carne” nel linguaggio biblico non significa solo il corpo, ma l’uomo con tutti i suoi risvolti di precarietà, debolezza e divenire. Cristo in tutto si è fatto uno di noi. E, proprio per questo, ha voluto esserci vicino ovunque andiamo, ovunque ci troviamo. La tenda comporta la mobilità. La chiesa, come costruzione materiale, di per sé indica immobilismo. Cristo non ha fissa dimora. Cristo è qui in chiesa, e fuori. Va oltre un momento storico. S’incarna anche oggi, nella realtà di tutti i giorni, nei vari aspetti della vita umana. La sua dimora è l’Umanità, nei suoi aspetti più esistenziali. E qui manifesta il volto di un Dio che è amore, misericordia, pace.
Il cristianesimo è una continua sfida al mondo moderno, in quanto incarnazione globale dell’amore di un Dio che non vuole farsi prigioniero di alcuna religione. Più il cristianesimo si fa religione, si fa struttura vincolante, si fa dogma, si fa codice morale, e più allontana Dio dal mondo e il mondo da Dio.
Seguendo sempre l’analisi di Martini, c’è una seconda parola chiave presente nel Prologo di Giovanni: “pienezza”. Il Figlio di Dio è “pieno di grazia e di verità”, in contrapposizione alla legge. Qualcuno traduce “amore e lealtà” invece di “grazia e verità”. Martini suggerisce un’altra traduzione: “tenerezza e fedeltà”. Capite allora che ci troviamo di fronte ad un capovolgimento radicale della concezione ebraica della religione come un codice così vincolante da creare un concetto di Dio, legislatore severo e giudice implacabile. D’altronde, prima di Cristo Dio era l’innominabile, l’inaccessibile, il santo dei santi, il separato. Dio ha voluto così avvicinarsi a noi da donarci suo Figlio che si è “incarnato”. In Cristo ogni separazione è stata eliminata. In Cristo Dio ora ha un volto. Quello di un padre tenero e sempre fedele alle sue promesse. Basterebbe ricordare alcune tra le più note parabole di Gesù.
Vorrei insistere su questo aspetto. Il cristianesimo non è anzitutto un codice legislativo, non è un codice giuridico, non è un codice moralistico.
Noi cristiani abbiamo il compito di rivelare la tenerezza di Dio, che va oltre certe regole fissate dal diritto canonico. Ancora oggi la Chiesa è schiava di se stessa in quanto struttura dottrinale o morale. La grazia di Dio dipende ancora dalle regole fissate da una Chiesa che si preoccupa di salvare se stessa. Che cos’è la grazia? Pensate alla tenerezza. Forse per questo Giovanni Paolo I (Papa Luciani) non ha esitato a dire che Dio è anche madre. Durante l’Angelus del 10 settembre 1978, disse: «Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: (Dio) è papà, più ancora è madre». Del resto, questa frase è una citazione di un passo dell’Antico Testamento, nonché semplice interpretazione di alcuni passi del Vangelo.
Dire che Dio è anche madre, perciò è anche donna, cambia tutto: la legge richiama un legislatore, la grazia o tenerezza richiama la tenerezza di un amore che va al cuore di ogni singola persona.
Ci sono altre parole chiave contenute nel Prologo: ad esempio, accoglienza e non accoglienza. Tornando al termine “logos”, dobbiamo anche dire che racchiude il concetto di ascolto. Se uno parla, dobbiamo ascoltarlo, altrimenti perché parla? La parola esige perciò l’ascolto. E dall’ascolto nasce poi l’accoglienza o la non accoglienza, ovvero il rifiuto. Nel Prologo si parla di un mondo che non riconosce il Verbo o la Parola di Dio fattasi carne; si parla più particolarmente dei “suoi” che non lo accolgono.
Come si può parlare del Natale, dell’amore di un Dio che si fa carne umana, parlare di tenerezza materna, e poi parlare di non accoglienza, di rifiuto, addirittura di ostilità? In realtà, ogni rivelazione di Dio comporta una chiusura, quasi un accecamento. Basterebbe pensare ai contrasti tra Gesù e gli scribi e i farisei. Il Prologo accenna ad un altro tema: il contrasto tra le luce e le tenebre, tema che poi Giovanni svilupperà con il miracolo del cieco nato.
A conclusione vorrei rileggere ancora le ultime righe del primo brano della Messa. Dovrebbero essere come un esame di coscienza per noi moderni. Ripeto, la Sapienza è presentata come se fosse una persona. La Sapienza era presente quando Dio creava il mondo. “Io ero con lui come artefice (qualcuno traduce forse meglio “come giovane o fanciullo”), ed ero la sua delizia ogni giorno; giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”.
Una bellissima e consolante visione: la sapienza come un fanciullo si muove nel creato danzando. Ma oggi che cosa vediamo? Spettri di paura, magari danze di morte? Perché essere tristi? Apriamo gli occhi e il cuore: Dio non farà mancare la sua sapienza. Essa ormai fa parte della nostra carne.

1 Commento

  1. Luciano ha detto:

    Grazie don Giorgio per questa analisi del prologo del Vangelo di Giovanni. Anch’io condivido la certezza che il cristiano, deve testimoniare la tenerezza di Dio, ascoltando le sue Parole Parlanti e trascurando le nostre parole parlate spesso a vanvera. E’ vero il cristianesimo non può essere ridotto a religione, come si continua a tentare di costringerlo. Il cristianesimo è la Proposta d’Amore per ogni creatura. L’unica misura dell’Amore è credo, non avere misura. Io credo, come scrive Alberto Maggi, che Dio è Padre di ogni uomo ma, non tutti gli uomini sono Suoi figli. Perchè ognuno di noi può scegliere di non accettare lAmore che Dio ci offre nel suo Figlio Gesù Cristo. Davvero grazie don Giorgio per questo grande aiuto che accetto e condivido in questo Cammino di Speranza e di Ricerca della Verità. Buona serata e Buona Festa.

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