Omelie 2023 di don Giorgio: NONA DOPO PENTECOSTE

30 luglio 2023: NONA DOPO PENTECOSTE
2Sam 12,1-13; 2Cor 4,5b-14; Mc 2,1-12
Vorrei soffermarmi sul secondo brano. Una pagina di san Paolo da meditare a lungo, soprattutto da parte di un ministro di Cristo, e anche di chi si dice semplicemente cristiano.
Diciamo subito che la predicazione di Paolo non era accettata da tutti, anzi spesso era guardata con sospetto. Nella comunità di Corinto alcuni inducevano a rifiutare Paolo come apostolo, perché dicevano che non ne aveva diritto: infatti, non aveva neppure conosciuto personalmente Gesù Cristo. E temevano Paolo, anche perché aveva inizialmente perseguitato i cristiani, andandoli a prenderli nelle case per consegnarli alle autorità ebraiche per farli condannare. Poi c’è stata la famosa conversione sulla via per Damasco.
Alcuni cristiani di Corinto lo equiparavano a certi predicatori imbroglioni o perdigiorno che si presentavano alle comunità con false lettere di presentazione. Qui ci sarebbe subito da riflettere. Come non pensare anche ai nostri giorni, dove le “lettere di presentazione”, anche vere, hanno preso forme diverse, anche per via internet. Come si può sopportare che la parola di Dio abbia bisogno di lettere di raccomandazione?
Forse sono ossessivamente allergico a certe cose: un prete è semplicemente un umile servitore di Cristo, senza aver bisogno di lauree per garantire meglio il suo servizio. Cristo ha detto: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide” (o capi), perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Ed è successo di tutto, lungo la storia della Chiesa: si è inventato una lunga interminabile fila di titoli onorifici… E poi: se tu sei prete laureato, c’è bisogno di mettere “dott.” ecc. prima del tuo nome, anche quando c’è l’annuncio della tua morte? E questi titoli che cosa sono? Una specie di raccomandazione, come per dire: se lui, laureato in teologia o in sacra scrittura parla di Dio, conta più di me, povero prete di campagna (come si usava dire una volta in segno di disprezzo).
Ho letto una frase che mi fa sempre riflettere: la verità ha valore in sé, e non dal personaggio tal dei tali che la pronuncia. Il personaggio non dà più valore alla parola, la quale, se è verità, si impone da sola. Più titoli di studio non garantiscono maggiore credibilità alla parola. Anzi, può succedere che il laureato sia tentato di metterci del “suo”, così da non capire se è parola di Dio o parola del professore tal dei tali. Certo che i preti devono studiare, certo che anche i laici credenti dovrebbero studiare la parola di Dio, ma per coglierne il nocciolo, togliendo la Parola da ogni incrostazione dottrinale, con cui la Chiesa istituzionale ha sempre coperto l’essenza del Cristianesimo.
Torniamo a San Paolo, che, di fronte alle accuse, si difende presentandosi seriamente impegnato e onesto, rispettoso e fedele alla Parola del Signore. Così scrive: «Abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio… Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi siamo i vostri servitori a causa di Gesù».
Sono parole che troviamo nei versetti precedenti il brano di oggi.
C’è di più. Rimproverano a Paolo di fare poche conversioni perché, come oratore, vale poco (2Cor 10,10). Paolo si difende premettendo che quelli che hanno successo, tra loro, sono sleali e falsificatori del messaggio di Gesù, poiché nascondono le esigenze morali più significative. È come se san Paolo dicesse anche ai credenti di oggi: basta poco per avere successo, farsi ascoltare, ridurre la parola di Dio a qualcosa di accattivante in senso carnale, ovvero togliendo al messaggio di Cristo la sua radicalità, la sua essenzialità, e per fare questo occorre un distacco che costa.
San Paolo si difende e garantisce di non aver mai falsificato il messaggio di Gesù con espedienti meschini. Sa di essere, come apostolo, “vostro servitore a causa di Cristo” e questa è una splendida presentazione per chi ha compiti pastorali nella Comunità cristiana, a cominciare dalla gerarchia ecclesiastica.
Il compito della Chiesa è quello di far splendere la luce di Gesù nel mondo, portata dalla testimonianza di una fede che va oltre la carnalità strutturale. La luce splende nell’intimo, e da lì irradia verso l’esterno.
Una pastorale che non vive di interiorità, di che cosa vive, o, meglio: come può vivere, e come potrebbe far vivere? Una pastorale evangelica scaturisce dall’interiorità, che è l’Intelletto o Spirito divino o, diciamo anche, lo stesso Pensiero purissimo di Cristo, che è perciò incontaminato da ogni mediazione religiosa o ecclesiastica. Il cosiddetto pastore d’anime dove attinge per la sua attività pastorale? Dalle cose esteriori?
San Paolo, tuttavia, riconosce anche i suoi limiti. Ecco che cosa scrive: «E Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo. Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi».
Dunque, il Vangelo è un tesoro custodito in vasi di creta, nella debolezza e infermità dei ministri di Cristo, della stessa chiesa istituzionale, di ogni struttura religiosa.
Attenzione: leggiamo bene le parole. Si parla di una debolezza e infermità che non riguarda solo la carne o il corpo: il corpo (è sotto gli occhi di tutti) è come un fragile vaso di creta che si può rompere da un momento all’altro: basta una malattia, ecc.
Ma più che riferimento al corpo c’è in San Paolo la consapevolezza della fragilità di tutta la sua persona: corpo, psiche e spirito.
Eppure, continua Paolo, il Signore preferisce gli strumenti deboli per realizzare le sue meraviglie. È il Vangelo che conta, e non i vasi di terracotta che lo contengono.
San Paolo sa di essere pieno di difetti e di manchevolezze, ma rivendica il tesoro che porta in sé, come corpo, psiche e spirito: il Vangelo è incorruttibile, prezioso per sé e per gli altri, amati dal Signore, che hanno bisogno della forza di Gesù, che va al di là delle nostre debolezze umane e delle nostre presunzioni pastorali di fare a meno della stessa grazia di Dio, aggrappandoci a mezzi tecnologici che, anche se sono apparentemente potenti, prima o poi si rivelano fragili e inutili.
San Paolo sembra dire: non sono io che conta nel Regno di Dio, il mio io è un fragilissimo vaso di creta, sempre soggetto alla rottura: ciò che conta è la Grazia di Dio, ed è la Grazia, dice Paolo, la mia forza interiore, il motore del mio agire per il vero bene della mia gente.

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