30 agosto 2015: Prima dopo il Martirio
Is 29, 13-21; Eb12,18-25; Gv 3,25-36
Quando i profeti erano… profeti!
Il primo brano della Messa, anche senza doverlo inquadrare storicamente, basterebbe da solo a sintetizzare l’annuncio degli antichi profeti che, di fronte alla religiosità di Israele, non erano mai teneri, ed erano così essenziali nel colpirne ipocrisia da essere attuali, sempre attuali. Ma forse, oggi, in un momento in cui la religione sente tutto il peso di millenni di ipocrisie e perciò esigerebbe un annuncio ancor più radicale, quei profeti dell’Antico Testamento ci mancano.
Come tutti i profeti, anche Isaia è vigile custode del rapporto di fiducia nell’Alleanza con il Signore. Egli vede, nella religiosità che si pratica in Giudea, un pericolo sempre esistente, che qui acquista caratteri molto evidenti: diffusa superficialità, forte formalismo nella pratica del culto, tenace attaccamento ai gesti, scrupolo per assolvere precetti, parole di preghiera ripetute con le labbra, senza una consapevolezza ed una adesione di cuore. Ma Dio vuole il cuore, poiché è proprio il cuore che si allontana da Dio oppure lo ama, lo cerca, si fida. Il cuore, nel mondo ebraico, esprime tutta l’interiorità della persona.
Quando la pratica di fede è un imparaticcio di precetti umani
Più che incontrare il Signore, ci si accontenta di gesti, di parole e di un miscuglio di poche regole. Molto efficace l’espressione usata dal profeta Isaia: “un imparaticcio di precetti umani”.
“Un imparaticcio di precetti umani”. Sì, di precetti umani: di divino che cosa c’è nel nostro modo di pregare, di vivere il cosiddetto cattolicesimo? E la religione non fa che potenziare ciò che è puramente terreno o frutto di strutture tipicamente terrene. C’è magari ancora tanto di religioso, ma ben poco di sacro, ovvero di quel divino che fa parte del nostro essere più interiore.
“Un imparaticcio”: imparaticcio significa “cosa imparata male, senza assimilazione, superficialmente”. Non è che oggi dovremmo sentirci offesi se tornassimo ancora a riprendere la parola “imparaticcio”, e applicarla a un certo modo di vivere la fede davvero sconcertante. Ma forse di sconcertante c’è poco, secondo l’opinione pubblica, visto che tutto fa parte del calderone del fai da te: un miscuglio di ideologie politiche e di fedi religiose. Una brodaglia dove c’è di tutto.
Ciò che impressiona del modo di vivere la fede da parte del credente di oggi è la sua superficialità: un mucchio di nozioni assemblate a caso, o per comodità. L’assimilazione delle cose avviene attraverso un consumo e un condizionamento sempre sul piano delle cose. Il pensiero non fa più da filtro. Le cose entrano nella nostra vita dall’esterno e pietrificano la stessa anima, per non parlare poi dello spirito, che sembra una parola proibita.
Dunque, cose imparate male, che condizionano il nostro agire, senza assimilazione tramite il pensiero o la coscienza, il tutto in modo superficiale. La cosa, senza più alcun senso spirituale, resta cosa-cosa, e noi siamo diventati cose. Consumiamo cose, e siamo ogni giorno consumati dalle stesse cose.
Lascio la parola ad un esegeta, che attualizza così il messaggio del profeta Isaia: «Fino ad oggi il culto minaccia d’essere un imparaticcio di precetti umani, una tradizione culturale, assai più che l’espressione della fede personale. Nei tempi più recenti lo si vede in maniera clamorosa attraverso l’uso spudorato che gli uomini politici fanno della religione; essi certo non si occupano di Dio, né della fede; si appellano invece a quelle tradizioni che segnano l’identità stessa degli italiani. E gli italiani, che effettivamente si sentono minacciati nelle proprie identità, spesso rispondono agli appelli dei politici in difesa dei valori religiosi con deciso consenso. Sono spiazzati da una Chiesa che, invece, predica l’accoglienza dello straniero, del musulmano, di colui che è diverso».
Dio come reagisce o, a modo suo, si vendica
Alla denuncia segue la minaccia, espressa in termini paradossali, addirittura sarcastici. E dal momento che la gloria di Dio è ricordata per i suoi interventi mirabolanti a salvezza del popolo, bisogna stare attenti – dice il profeta – che la stessa potenza prodigiosa del Signore non possa addirittura rivoltarsi contro il popolo indegno. E i prodigi potrebbero diventare avvenimenti disastrosi e terrificanti.
Dio non abbandona il suo popolo, continuerà a compiere cose meravigliose. Ecco ciò che succederà: “perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti”. Perirà, più precisamente, la sapienza di quanti vogliono sottrarsi alla vista del Signore per dissimulare i loro piani, di coloro che agiscono nelle tenebre, dicendo in cuor loro: Tanto chi ci vede? chi ci conosce? Perirà la sapienza di coloro che contano sul fatto che tanto il cuore è nascosto.
Ma la vera vendetta di Dio sta nel dare voce ai più emarginati e disprezzati. La punizione dei superbi è la rivalutazione degli umiliati. Perirà la loro sapienza, e si accenderà invece la sapienza di coloro che oggi sono disprezzati e appaiono esclusi da ogni sapienza, perché sono sordi e ciechi: «Udranno in quel giorno i sordi le parole del libro; gli occhi dei ciechi, liberati dall’oscurità e dalle tenebre, vedranno. Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo d’Israele».
Quando la religione è un insieme di faziosità e di invidie
Passiamo alla pagina del Vangelo. Ricordiamo brevemente il contesto: nei quattro Vangeli ci sono tracce di qualche difficoltà tra i discepoli di Giovanni Battista e i discepoli di Gesù, una sorta di rivalità che il Battista in nessun modo alimenta, anzi. E quando, come nella pagina odierna, i discepoli di Giovanni tentano ancora una volta di contrapporlo a Gesù, di provocarlo descrivendo il grande successo del cugino che battezza e tutti vanno da lui, il Battista nuovamente sostiene di non esser lui il Messia inviato da Dio ma solo il battistrada, l’apripista.
Un esegeta commenta: la testimonianza di Giovanni Battista «nasce, lasciatemi dire, in un contesto di meschinità umane, di corte visioni, una religione ridotta a numeri, ad appartenenze, segnate da sussulti di rivalità e da gelosie. E guardate un po’ dove a volte trovano terreno fertile le nostre discussioni, anche religiose… Voi mi capite, non ci si chiede se alcuni, tanti o pochi, fanno un passo avanti nel cammino dello spirito. No, ci si preoccupa se aderiscono per caso a un altro, ci si preoccupa dell’assottigliarsi del numero degli appartenenti al proprio gruppo.
E sono, pensate, i discepoli più stretti del Battista, quelli che in un certo senso lo vanno idolatrando, e, di conseguenza, del nome dell’altro, di Gesù, non vogliono nemmeno sporcarsi le labbra, è diventato un senza nome: “colui” dicono – colui! – “che era con te dall’altra parte del Giordano e su cui tu hai dato testimonianza, battezza più di te”. A parte che sembra che a battezzare non fosse Gesù, ma fossero i discepoli, comunque il problema era che faceva discepoli più del Battista, più del loro leader spirituale, con il pericolo di un esodo silenzioso di appartenenti al gruppo. Idolatria del leader, idolatria del gruppo. E a questo punto ecco l’affermazione di Giovanni: “Io non sono lo sposo, ma solo l’amico dello sposo”. E in quanto ‘amico’ Giovanni dice d’esser in ascolto della voce dello Sposo, di provare gioia per questa voce e conclude: “Io devo diminuire mentre Lui deve crescere”… Pensate a una chiesa che prende sul serio questa parola del Battista: “Lui deve crescere, io invece diminuire”. Doveva diminuire se stesso e farsi da parte. Pensate la bellezza di una chiesa che si diminuisce e si fa da parte. Non accende i riflettori su di sé, ma su un Altro. Ne dobbiamo fare ancora di strada! Diminuire!… Avessimo accolta veramente l’eredità del Battista, non potremmo, voi mi capite, presentarci come un assoluto, non ambiremmo a occupare noi lo spazio, non avremmo l’aria di chi si sente padrone né della verità, né della morale, né del popolo di Dio, né delle ultime parole su tutto. Ma ci sentiremmo al contrario relativi. A chi? A Cristo. Mendicanti della luce».
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