Beppe Sala: «Lo dico da sindaco di Milano, l’Autonomia è un danno anche per il Nord del Paese»

dal Corriere della Sera

Beppe Sala:

«Lo dico da sindaco di Milano,

l’Autonomia è un danno anche

per il Nord del Paese»

di Beppe Sala*
La lettera del primo cittadino di Milano al «Corriere»: «Questa profonda e squilibrata Autonomia aumenta il divario tra Regioni e aree dell’Italia. Non sono state ascoltate le grandi città, ora attendere i Lep»
Gent.mo Direttore,
ha raggiunto il quorum di firme la proposta di referendum per abrogare la legge sull’Autonomia differenziata, elaborata dal ministro Calderoli e approvata dalla maggioranza lo scorso giugno. Vedremo il parere della Corte costituzionale, ma intanto va evidenziato che, nel giro di soli due mesi dall’approvazione della legge, già più di mezzo milione di italiane e italiani avanzano la richiesta di un referendum che si pone l’obiettivo di bocciare la riforma, a dimostrazione di quanto questo tema sia sentito in tutto il Paese. Il ministro Calderoli ha sostenuto qualche giorno fa che il referendum abrogativo spaccherebbe il Paese tra Nord e Sud. Un’affermazione paradossale, per due motivi: è questa profonda e squilibrata Autonomia che semmai aumenta il divario tra Regioni e aree dell’Italia; e non è né scontato né vero che il Nord del Paese approvi una riforma così sperequata, come invece spera il suo autore. Da sindaco di Milano, vorrei esprimere e motivare la mia contrarietà rispetto a questo disegno legislativo, che ritengo iniquo sotto più punti di vista.
Il tema
Ci tengo a sottolineare che la mia non è affatto una posizione ideologica, originata dal rifiuto preventivo di quanto viene proposto dagli avversari politici. E nemmeno ritengo che la Costituzione non si possa giovare delle riforme, anzi — purché siano riforme giuste ed equilibrate, capaci di fare il bene della collettività—. Ma, da amministratore di una metropoli come Milano, così come da persona con lunga esperienza nelle politiche private e pubbliche, mi sento di intervenire su un tema che giudico estremamente delicato e plausibilmente dannoso per l’Italia. Sono per vocazione e formazione molto legato alla concretezza e propongo quindi un’analisi tecnico-politica. I punti del mio ragionamento, dunque.
1. La costituzione delle Regioni risale al 1970. Sono passati più di cinquant’anni. Mezzo secolo è sufficiente per trarre un bilancio della loro storia. È una storia di successo? Non ne sono per niente certo. Si tratta di istituzioni che, soprattutto, non sempre sono state in grado di affievolire i divari in termini di qualità della vita, innalzando piuttosto criticità note a tutti nei settori che riguardano economia, lavoro, trasporti, sanità, welfare. Ora si pensa a un potenziamento del decentramento. Saranno in grado le Regioni di garantire un percorso di miglioramento nell’erogazione dei servizi ai cittadini in mancanza di un prerequisito fondamentale per poterlo fare e cioè le risorse economiche?
I tempi
2. In ogni caso, c’è da chiedersi come si possa immaginare una riforma delle autonomie senza avere consultato o ascoltato la voce delle grandi città, che sono il principale traino dell’economia e della giustizia sociale del Paese. In tutto il mondo va affermandosi la centralità delle città metropolitane, per capacità di vedere il futuro e di programmarlo. Una riforma dell’autonomia e del decentramento che aumenta il divario non solo tra regione e regione, ma tra regioni e grandi città, nasce già cariata. Della riforma del Testo unico delle autonomie locali (Comuni, Città metropolitane, Province), nel frattempo, nessuno parla.
3. La legge sull’Autonomia differenziata è tecnicamente un processo che, per svilupparsi secondo i disegni dei suoi promotori, prenderà molto, molto tempo. Ora, per giungere ad attuazione ed evoluzione, bisogna intervenire da principio con una pianificazione di lungo periodo che sia all’altezza dell’arduo compito. Chiunque segua la politica ha imparato in questi mesi il senso della sigla Lep: sono i Livelli essenziali delle prestazioni che vengono erogate. Ovvero i requisiti minimi di servizio necessari ad assicurare in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, in modo da garantire uguaglianza sui diritti sociali e civili, come la Costituzione sancisce. Poiché sulla misura, la forma e la mappatura dei Lep siamo ancora in alto mare, viene proposto di partire con le materie che non richiedono Lep. Non va bene. Non si parte sulla base di un «partiamo e poi si vedrà». (Per chi non ne fosse informato, il governo si è preso due anni per definire questi benedetti Lep. A partire da lì si procederà alla definizione — e soprattutto alla ricerca — dei fondi necessari).
Le risorse
4. E torniamo quindi sul punto fondamentale: siamo ancora in attesa che qualcuno spieghi agli italiani quali e quante risorse economiche servono, nella cruda realtà, affinché questi ineludibili livelli essenziali siano garantiti. Dobbiamo essere onesti: non è pensabile che si tratti di una riforma a costo zero. Per i Lep che richiedono copertura e finanziamento, si possono impegnare risorse solo nei limiti permessi dai ben noti vincoli di finanza pubblica e ciò deve peraltro venire assicurato a tutte le Regioni e non solo a quelle che fanno richiesta di maggiori competenze. Senza queste coperture, le funzioni rimangono prerogativa statale, non regionale. E questa disposizione la dobbiamo a un emendamento presentato da FdI: nemmeno la maggioranza era o rimane compatta di fronte al rischio che i cittadini perdano uguaglianza nei diritti. Quindi, di quali risorse economiche parliamo? Certamente di miliardi. (Nota a margine. Mentre scrivo queste righe leggo che il governo, ragionando di Finanziaria 2025, ipotizza misure per favorire uscite in pensione anticipata, estensione della flat tax, sgravi al ceto medio, pensioni minime più elevate. E poi verranno i Lep. Hanno trovato la pianta dei soldi?).
Le materie
5. Torno su un tema che ho pubblicamente già affrontato. Forse non a tutti è chiara l’ampiezza delle materie che le Regioni possono chiedere di gestire in proprio. Si va dall’istruzione alla salute pubblica, dall’ambiente a competenze fiscali. E l’energia. Ora, immaginiamo venti Regioni che vanno a trattare all’estero dai fornitori di energia, per strappare un prezzo inferiore a quello che riesce a ottenere uno Stato. Pura fantasia. E voglio essere estremo nel ragionamento (non provocatorio, estremo): a mio giudizio le politiche energetiche del futuro dovranno necessariamente essere continentali più che nazionali, e qui si pensa invece di regionalizzarle!
Il Paese
6. A riprova che la mia non è una posizione ideologica, bensì pratica, riconosco volentieri che nel dibattito iniziale non mi sono espresso aprioristicamente contro l’Autonomia. Ma in quel momento, le materie toccate dal ddl Calderoli non erano affatto quelle che poi si sono rivelate nella pratica. Come ha ricordato l’ex presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, ora europarlamentare, «si è stati favorevoli a un allargamento del decentramento che riguardasse solo alcune delle 23 materie potenzialmente previste e con lo scopo fondamentale di sburocratizzare e dare risposte efficaci e rapide ai cittadini» (oltre al fatto che prima di procedere si riteneva indispensabile che fossero garantiti e stabiliti i Lep in tutto il territorio nazionale e che fosse assicurato il coinvolgimento del Parlamento). Per tutti questi motivi, e poiché stiamo parlando di un danno che evidentemente non riguarda solo il Sud, ma tutta l’Italia, Nord compreso, da Milano dico no alla legge sull’Autonomia differenziata. E dico però, anche, lavoriamoci assieme affinché il Paese possa individuare la via più giusta per garantire un’uguaglianza vera e concreta a tutte e tutti.
*sindaco di Milano

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