da www.articolo21.org
27 Ottobre 2024
Velia Titta. Al fianco di Matteotti
e poi in ostaggio del regime fascista
Elisa Signori
L’appuntamento della nostra rubrica “Dalla parte di Lei” l’ultimo lunedì di ottobre coincide con il centenario della marcia su Roma. È dedicato a Velia Titta Matteotti, la compagna e moglie di Giacomo Matteotti: il 2024 è stato anche il centenario del suo brutale assassinio il 10 giugno 1924.
I centenari sono talvolta un capestro, ma quest’anno l’occasione è stata utile e inevitabile per fare i conti con Giacomo Matteotti. Ci sono voluti cento anni perché libri e testi teatrali, mostre e convegni, podcast, graphic novels e giornali si impegnassero insieme per ridare a Giacomo Matteotti il posto che gli spetta nella storia del nostro paese e per proporne l’eredità intellettuale e politica, mai come oggi preziosa, alla consapevolezza collettiva degli italiani.
Molti interventi di diversa qualità e ampiezza, taluni con nuovi risultati di ricerca e nuove interpretazioni, nei registri dell’approfondimento storiografico e della divulgazione, hanno evitato che l’anniversario fosse una celebrazione retorica, anzitutto emancipando la personalità di Matteotti dal mito del martire e la sua biografia dal contesto esclusivo del delitto di stato fascista.
I contributi migliori hanno puntato a restituirci nella sua complessità e modernità la personalità di Matteotti: studioso di diritto, organizzatore politico pragmatico, pacifista intransigente, amministratore competente, militante «riformista perché rivoluzionario», come egli stesso ebbe a dire, oppositore acuto e preveggente della «dominazione fascista». Ma, insieme e oltre a tutto ciò, si è voluto illuminarne la ricca sfera affettiva, la sensibilità per le arti, dalla musica al cinema al teatro, la passione per i viaggi, il radicamento nel suo affamato Polesine e l’apertura costante all’orizzonte europeo. Insomma si è delineato un ritratto a tutto tondo che fa tornare Matteotti vivo tra noi, a ricordarci che libertà e democrazia non cadono dal cielo.
Tra gli effetti collaterali di questa stagione di studi e ricerche un fascio di luce è stato proiettato su Velia Titta Matteotti, anch’ella sin qui prevalentemente rappresentata come appendice subalterna del martire e imprigionata nel clichè della vedova e vittima. Per la verità a riscattarla da questo stereotipo riduttivo aveva provveduto già molti anni fa la pubblicazione dell’epistolario tra Velia e Giacomo, egregiamente curata da Stefano Caretti, in due successive tranches del 1986 e del 2000.
Ma anche in questo caso la scadenza centenaria ha catalizzato un nuovo interesse per quelle bellissime lettere, che ci offrono un’angolatura diversa per capire Matteotti, ma anche per cogliere l’autonomia intellettuale di Velia e lo scambio intenso d’affetti, di sensibilità e di idee che la legò al marito in un sodalizio amoroso straordinariamente moderno e paritario.
Velia Titta Matteotti con la figlia Isabella
Cominciamo dall’epilogo tragico per poi tracciare a ritroso qualche tratto di questa complessa personalità.
Quando Matteotti viene sequestrato dalla Ceka, Velia ha 34 anni, conosce Giacomo da 12 anni ed è sposata con lui da 8, è madre di tre figli, Giancarlo, Matteo e Isabella, rispettivamente di 6, 3 e quasi 2 anni. Con questo fardello di responsabilità e di angoscia sulle spalle, accompagnata dalla sorella, va chiedere notizie del deputato Matteotti, scomparso da cinque giorni rivolgendosi al presidente del consiglio Mussolini. E’ un incontro che Velia avrebbe poi raccontato a Salvemini qualche tempo più tardi per rettificare una ricostruzione fasulla dell’accaduto, pubblicata dal “Giornale d’Italia”. In quest’ultima le si faceva recitare la parte della povera donna lacrimosa, convocata da un Mussolini virilmente commosso e fermo nell’offrire conforto e rassicurazione. Velia tenne invece precisare che l’incontro era stata una sua iniziativa, volle spogliare di ogni teatralità il breve colloquio, descrivere Mussolini come uno «spettro di terrore», nonché puntualizzare il suo rifiuto di una automobile governativa e l’uso invece di un taxi per il rientro a casa.
Dignità, freddezza, distacco nel vis a vis con Mussolini che Turati poteva confermare sulla base di altre testimonianze: Velia aveva dichiarato che non veniva a chiedere il cadavere del marito, ma a reclamare un suo diritto e allontanandosi non aveva stretto la mano al suo interlocutore.
La stessa sofferta fierezza la si ritrova al momento delle esequie di Matteotti: per impedire ogni manifestazione popolare di cordoglio il governo aveva imposto che la salma fosse trasportata a Fratta Polesine di notte e Velia non solo respinse un treno di Stato e volle un treno normale, ma pretese l’assenza di qualsiasi elemento fascista al funerale:
«Chiedo che nessuna rappresentanza della milizia fascista sia di scorta al treno, nessun milite fascista di qualunque grado o carica, comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario in servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio e a Fratta Polesine fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina italiana che compie i suoi doveri, per potere esigere i suoi diritti, quindi nessuna vettura salone, nessuno scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio, ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno, quale risulta dall’orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d’ordine, detto servizio sia affidato solamente ai soldati Italiani».
Al camposanto si contarono diecimila persone e volarono invettive contro i carabinieri che bloccavano l’accesso. Velia, secondo le testimonianze, invitò alla calma e congedò tutti: «Andate a casa. Siate buoni, ed amatevi come insegnò Gesù Cristo».
Un ultimo tassello nelle scelte pubbliche di Velia è offerto dal testo da lei inviato il 18 gennaio 1926 al presidente della Corte d’Assise di Chieti con il quale comunicava la sua intenzione di estraniarsi dal processo per l’assassinio di suo marito, da lei definito «tragedia mia e dei miei figli, tragedia dell’Italia libera e civile». Il testo, concordato con i suoi avvocati, esprime insieme indignazione e fermezza. Il processo–beffa è stigmatizzato senza incertezze «nelle varie vicende giudiziarie e per la recente amnistia, il processo- il vero processo- mano a mano svaniva. Ciò che oggi ne rimane non è più che l’ombra vana […] volevo solo giustizia. Gli uomini me l’hanno negata, l’avrò dalla storia e da Dio».
Come è noto, mandanti e esecutori del delitto ebbero pene insignificanti, per alcuni di loro si provvide allo stralcio, altri furono amnistiati.
Mancavano 12 anni alla morte di Velia, anni di prostrazione fisica e di sofferenza profonda, vissuti in un isolamento via via più ermetico, in ostaggio del regime, risoluto a impedire l’espatrio suo e dei figli con due strategie convergenti: l’ossessivo controllo di ogni sua mossa o contatto ad opera di uno stuolo di poliziotti e l’infiltrazione nella sua famiglia di spie prezzolate per manipolarne le scelte. Fu un calvario logorante , che la fece di nuovo vittima di un sistema subdolo e insieme spietato di oppressione e repressione.
Ma torniamo all’altra vita di Velia, ai 12 anni raccontati nell’epistolario, dall’incontro con Giacomo nella villeggiatura a Boscolungo sull’Abetone nell’estate del 1912 a un’altra estate, quella tragica del 1924.
Una digressione metodologica s’impone al proposito. E’ una fonte straordinaria questa della scrittura epistolare che peraltro nel nostro tempo è avviata all’estinzione o ormai già estinta per l’avvento prepotente di altri sistemi comunicativi e tecnologie digitali. E’ scomparsa così una chiave per accedere alla dimensione privata o addirittura intima di personaggi oscuri e illustri, né al momento è chiaro per quali altre vie si potrà in futuro esplorarla e quale impatto avrà tale mutazione documentaria sulla conoscenza del passato.
Certo la comprensione dell’universo morale, sentimentale e psicologico di Velia e Giacomo sarebbe impossibile se queste lettere non fossero state scritte, fossero andate perdute o distrutte.
Il dialogo avviene tra due persone colte: Velia è amante della poesia con la quale si cimenta in gioventù e della letteratura, cui contribuisce con un romanzo, L’idolatra, pubblicato con lo pseudonimo di Andrea Rota. Ama la musica e condivide una cultura musicale raffinata col fratello Ruffo – nome d’arte Titta Ruffo- che è apprezzato baritono, anch’egli poi perseguitato dal fascismo. Parole straniere, citazioni letterarie, descrizioni di opere d’arte e di panorami naturali punteggiano le lettere di entrambi. Se tutte queste affinità li avvicinano, le differenze di temperamento o di convinzioni, quelle religiose di Velia, o politiche, la fede socialista di Giacomo, non intaccano la loro profonda intesa, né attenuano la passione che li avvince nell’accettazione integrale dell’altro.
Ritratto di Velia Titta
Velia emerge in queste pagina come una personalità risoluta – è lei per prima a riconoscere in Giacomo il suo compagno di tutta la vita – e capace di offrire un sostegno e un ancoraggio affettivo stabilizzante a Giacomo: è lei che, dopo il matrimonio – celebrato con rito civile per riguardo alle idee di Giacomo – , accetta una divisione tradizionale dei ruoli familiari e pur senza rinunciare a coltivarsi, consente al marito di seguire la sua esclusiva, totalizzante vocazione politica. Pertanto partecipa con letture, commenti, consigli e giudizi all’attività del marito, ne soffre la lontananza, ma non ne ostacola mai l’impegno rigoroso anche se col passare del tempo, ne avverte con lucidità i rischi crescenti. Va detto che questo epistolario documenta il desiderio cocente di entrambi di vivere l’uno accanto all’altro, in una loro casa comune, e la sorte avversa che rende invece l’assenza una condizione quasi strutturale del loro fidanzamento prima e della vita coniugale poi.
Che si tratti del servizio militare inflitto al pacifista Matteotti in Sicilia fino alla primavera del 1919 o che lo reclamino gli impegni romani, le corveés elettorali del militante, le discussioni parlamentari o i lavori delle commissioni, di cui il deputato è membro, o ancora che Giacomo debba sottrarsi alle violenze fasciste e star lontano da Fratta da cui gli squadristi l’hanno bandito, Velia affronta con coraggio l’ansia e il dolore delle continue separazioni. I momenti di intimità, le vacanze trascorse insieme e con i bambini diventano perciò luminose parentesi per entrambi, che ne rievocano poi con trasporto il calore, l’intensa felicità. Ma ciò non toglie che per tutte queste diverse circostanze Velia viva le maternità plurime in solitudine e solo raramente possa assaporare una “normalità” familiare, che per lo più è inibita a entrambi e da entrambi vagheggiata invano. E’ proprio intorno a questa sempre sfuggente normalità che l’armonia amorosa che sostanzia tutto l’epistolario talvolta si incrina e lascia intravvedere la sofferenza e la fragilità di entrambi.
Chinarsi su queste lettere richiede discrezione e capacità di analisi perché ciascuna di esse si può anche leggere come un esercizio strenuo d’introspezione che i due corrispondenti praticano insieme, giorno dopo giorno, chiarendo a se stessi e all’altro/a la complessità del vivere, gli errori e i problemi da affrontare.
Al proposito conviene segnalare il lavoro di Fernando Venturini dedicato a Il Giaki e il Chini, cioè a Giacomo e Velia, questi sono i vezzeggiativi cui ricorrono nell’intimità, e al ritratto familiare che quest’epistolario offre. Per la verità l’epistolario non si chiude nel ristretto orizzonte familiare, ma si presta ad essere l’osservatorio per seguire l’esperienza di una coppia nell’Italia di primo Novecento, l’Italia nella quale Sibilla Aleramo pubblicava la sua scandalosa autobiografia Una donna (1902), nella quale solo nel 1919 si abolì l’autorizzazione maritale e si decise il diritto delle donne, almeno in linea di principio, ad accedere a tutte le professioni, ad eccezione degli impieghi pubblici politici, militari o giurisdizionali, un’Italia, infine, in cui il diritto di voto attivo e passivo era comunque sempre precluso così alla popolazione femminile come ai reclusi in carcere, ai minorati e agli interdetti.
Un ultimo capitolo nel libro di Venturini mette a fuoco gli anni di Velia dopo l’uccisione di Giacomo illustrando la pervasività del sistema fascista di controllo e le angherie di cui la famiglia Matteotti fu bersaglio. Un ruolo chiave in questa vicenda fu recitato da un conoscente di Giacomo, tal Domenico De Ritis, che riuscì ad accreditarsi presso Velia come consulente finanziario e a diventare amico di famiglia anche agli occhi dei figli Matteotti. Solo di recente il rinvenimento delle relazioni informative settimanali o bisettimanali che De Ritis inoltrava al capo della polizia, Arturo Bocchini, ne ha chiarito il ruolo di spia agli ordini dell’OVRA e ha rivelato il raggiro in cui Velia fu irretita, inteso a screditarla agli occhi dell’antifascismo all’estero. Tocchiamo qui con mano la perfidia individuale del De Ritis, ma anche l’accanimento persecutorio del regime e di Mussolini stesso nei confronti di una donna sola, inerme e già gravemente provata.
Casa Matteotti, ora Museo, a Fratta Polesine
Queste rivelazioni si saldano ai risultati della ricerca di Alberto Vacca su De Ritis, individuato come artefice di subdole trame non solo ai danni della famiglia Matteotti, ma anche di Bruno Buozzi, alla cui cattura da parte dei nazifascisti probabilmente egli non fu estraneo. Né stupisce che nel secondo dopoguerra egli riuscisse assolto dai tre processi intentati a suo carico, anche per le favorevoli deposizioni dei figli Matteotti e della vedova Buozzi, tutti ignari del criminale doppiogioco del simulatore De Ritis.
Ernesto Rossi raccontando nei dettagli la storia di Carlo Del Re, delatore e responsabile dell’arresto della cellula clandestina lombarda di “Giustizia e libertà” alla fine del 1930, nonché della gravose condanne poi comminate e del suicidio in carcere di Umberto Ceva, scrisse del «maleodorante retrobottega» della polizia e del regime fascista. Anche la vicenda di De Ritis esala gli stessi miasmi.
Elisa Signori
Testi citati nell’ordine
• G. Matteotti, Lettere a Velia, Pisa, Nistri Lischi, 1986
• V. Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, Pisa, Nistri Lischi, 2000
• F. Venturini, Il Giaki e il Chini. Cronache della vita di Giacomo Matteotti e Velia Titta, Quaderni di casa Matteotti, Cierre ed.2024
• A. Vacca, L’occhio del duce in casa Matteotti. La spia dell’Ovra Domenico De Ritis, Roma, Edup 2023
• E. Rossi, Una spia del regime, Milano Feltrinelli 1955
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