L’allarme di Draghi per l’Europa: “È un momento critico, il suo modello di crescita si è dissolto”
www.huffingtonpost.it
29 Novembre 2023
Basta la presenza.
Mario Draghi riappare in un gioco scenico
di suggestioni
di Alessandro De Angelis
Curiosità, attesa, pochi politici e molta gente: alla presentazione del libro di Aldo Cazzullo l’ex premier si sottrae alla politica. E alla fine resta l’enigma: che vuole fare?
L’importanza di chiamarsi Mario Draghi è anche questa: avere una fama (tu chiamala se vuoi: reputation), che ti precede e ti accompagna quasi “a prescindere”. E che suscita un’attesa e una curiosità che restano sempre “a prescindere” dalle parole pronunciate. Alla fine pare un enigma che si autoalimenta. La sua riapparizione a Roma alla presentazione del bel libro di Cazzullo (Quando eravamo padroni del mondo. Roma: l’impero infinito, HarperCollins) è essenzialmente questo: la sottolineatura di una presenza che si dilegua dopo aver manifestato sé stessa. Un corpo più che un discorso in un formidabile gioco scenico. Il trono di velluto rosso adiacente all’altare, in una chiesa non sconsacrata (inusuale per la presentazione di un libro) di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore di quei gesuiti cui l’ex governatore di Bankitalia, ex presidente della Bce, ex premier deve la sua formazione. “Mejo der Papa”, titola Dago, sapiente e graffiante narratore della romanità e del suo barocco da Grande Bellezza, amplificato dalle letture di Nancy Brilli e dalla “cupola finta”, la cupola che non è tale ma sembra tale perché nel Seicento mancava il denaro per realizzarla e si supplì con il trompe-l’oleil, l’illusione che inganna l’occhio.
Tanti cronisti, telecamere e taccuini, roba che neanche Giorgia Meloni quando incontra Biden, vivono anch’essi nell’illusione di un ritorno che non è tale, ma un po’ lo è. Pochi politici (Zanda, Guerini e Calenda), il solito generone romano, molta gente comune, e comunque la chiesa è stracolma. E sempre Dago ci brucia sul tempo: “Tutti in trepidante attesa di una benedizione urbi et orbi di Draghi che spenga la fiammetta dei balilla d’Italia”. Epperò anche questo è un inganno ottico perché lui, la tecnocrazia spianata dal populismo, dice poco o nulla sull’attualità, anche se lo dice benissimo: “Che abilità a sottrarsi” chiosa quella vecchia volpe di Marco Follini, che aveva i calzoni corti quando frequentava l’irripetibile scuola democristiana del dire e non dire.
La curiosità morbosa ha il volto di Stefano Candiani, che ha portato gli occhi sospettosi e le orecchie allarmate di Salvini. Passa tutto il tempo sul telefonino a chattare una specie di cronaca in diretta. Da quelle parti sono convinti che Giorgia Meloni stia lavorando per portare Draghi alla guida del Consiglio europeo al posto di Charles Michel, e questa rischia di essere una notizia, se non di una trama anche qui di un’apprensione legata al nome. Con annesso paradosso che è però la storia di questi anni: quelli che a destra lo sostenevano (con parecchi mal di pancia) lo vivono come una minaccia, chi stava all’opposizione ne ha accettato i vincoli come patente per governare.
Alla fine chissà se ha trovato la pistola fumante nei pochi, pochissimi passaggi politici, di stampo ça va sans dire dichiaratamente europeista ma non eccessivamente spigolosi: gli Stati Uniti d’Europa, la necessità di reinventarsi, di rivedere i presupposti dello stare assieme di fronte alle sfide sovranazionali, eccetera eccetera. Insomma lo spartito del politicamente corretto di un certo mondo: è l’establishment bellezza, che nel mostrarsi non fa mai conti con la sconfitta, nell’eterna illusione di surfare sul populismo senza sfidarlo, anche se ha affondato l’ultima riserva della Repubblica, e non solo quella. “C’ho provato a attualizzare Adriano – dice Draghi riflettendo di pace e del famoso treno per Kiev, ma sono stato colpito e affondato”, unico riferimento a ciò che è stato. E nonostante i tentativi dell’ottimo Cazzullo di utilizzare il passato per una riflessione sul presente. Mica l’apologia o tantomeno nostalgia dell’Impero romano, sia chiaro, ma qualche spunto del passato, per riflettere sull’oggi. L’antica Roma ne regala a bizzeffe: ruolo della donna, immigrazione, guerra e pace, la famosa culla del diritto. Niente da fare, non ci casca: “Se noi cerchiamo legittimazione nella storia dei nostri argomenti è rischioso, la distanza è grande. La storia non è magistra di nulla che ci riguardi”. Però il libro è davvero bello e Cazzullo è un ineguagliabile divulgatore nel raccontare e analizzare gli elementi fondanti dell’identità italiana e le suggestioni nel presente, passando da Giulio Cesare a Mark Zuckerberg e Elon Musk, grandi appassionati dell’antica Roma. Fine dell’apparizione.
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29 NOVEMBRE 2023
L’allarme di Draghi per l’Europa:
“È un momento critico,
il suo modello di crescita si è dissolto”
di Emanuele Lauria
L’ex presidente del Consiglio: “C’è una paralisi decisionale in Ue, serve integrazione politica e pensare che siamo italiani-europei”. Sull’Expo mancato a Roma: “Non credo a complotti universali”
ROMA – Torna sulla scena e lancia un monito, anzi un grido d’allarme in piena regola volto al rilancio dell’istituzione che più ha a cuore: un’Europa il cui modello “si è dissolto”. Rieccolo, Mario Draghi, accolto con sussiego e quasi con deferenza quando giunge in lieve ritardo e va a sedersi sulla sua poltrona proprio sotto l’altare della chiesa di Sant’Ignazio di Loyola.
L’occasione è la presentazione dell’ultimo libro di Aldo Cazzullo, “Quando eravamo padroni del mondo”. Il giornalista e l’ex premier sono una coppia di richiamo che in realtà è un trio piuttosto anomalo, completato da Nancy Brilli che dal podio legge alcuni brani del volume sull’antica Roma. E’ composito anche l’uditorio. Seduti sulle prima panche ci sono, tra gli altri, Carlo Calenda e Lorenzo Guerini, ma anche Urbano Cairo, Ernesto Galli della Loggia, Gianpiero Mughini. Draghi dribbla abilmente qualsiasi giudizio sui temi che alimentano oggi la politica interna – immigrazione, violenza sulle donne e patriarcato, Expo – per concentrarsi, nell’ultima parte del colloquio, sulle questioni che riguardano l’Ue. Senza risparmiarsi, stavolta. L’Europa, dice, “sta vivendo un momento critico e speriamo che ci tengano uniti quei valori fondanti che ci hanno messo insieme”. Draghi non nasconde ansie e timori: “Il modello di crescita si è dissolto e bisogna reinventarsi un modo di crescere ma per fare questo occorre diventare Stato. Il mercato europeo è troppo piccolo, ed è in realtà costituito da tanti mercati separati. Per questo motivo – afferma – quando nasce un’impresa e cresce, preferisce poi magari spostarsi negli Stati Uniti. Noi abbiamo fatto un errore colossale alla fine degli anni ’90, deliberando l’allargamento senza aver modificato le regole per le decisioni che dobbiamo prendere. Abbiamo mantenuto le stesse regole di quando i Paesi erano dodici”.
È un’Europa, quella descritta da Draghi, che fa fatica perché lontana dall’idea di un’entità politica unica: “Il mercato è diviso: ad esempio per i farmaci negli Usa c’è una sola agenzia, in Europa 26. E ora le sfide che abbiamo sono sovranazionali, a partire dalla lotta al cambiamento climatico, dalla difesa”. Sul clima, alla vigilia della Cop28 a Dubai, l’ex premer dice “che ogni Paese ha la propria politica. La lotta non procede allo stesso ritmo ma l’emergenza è di tutti”. E sulla difesa un’altra constatazione critica: “Dobbiamo coordinare meglio la spesa: la nostra è da tre a cinque volte superiore quella della Russia”. L’annotazione finale è quasi sconsolata: “In questo momento c’è paralisi decisionale. Occorre cominciare a pensare a un’integrazione politica europea, cominciare a pensare che siamo italiani ma siamo anche europei”.
Fra i rimproveri c’è anche quello che riguarda la mancanza di una politica estera comune. Ad esempio sulla crisi mediorientale: “L’Europa dovrà fare qualcosa di più di quello che sta facendo, non basta mettere molto denaro. Dovrà avere un ruolo, non credo militare perché siamo deboli e non credibili, ma certamente umanitario”. È un appello da costituente di una nuova Unione, e qualcuno maligna che sia in pista per un ruolo negli assetti europei che seguiranno le elezioni. Di certo, Draghi aggira qualsiasi fronte di polemica con il governo Meloni. Evitando di gettare sale anche sull’ultima ferita aperta, la mancata assegnazione dell’Expo 2030 che si terrà in Arabia Saudita: “Non siamo riusciti ad avere l’Expo a Roma, ma non conosco l’intera storia: non so perché abbiamo preso solo 17 voti e non so – ironizza l’ex presidente del Consiglio – cosa direbbe Cesare… Non credo a complotti universali. Tutto il mondo vuole l’Expo e in fondo noi l’abbiamo appena avuto con Milano nel 2015”.
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