Se ne va Gorbaciov, il padre della Perestroika

www.huffingtonpost.it
30 Agosto 2022

Se ne va Gorbaciov,

il padre della Perestroika

di Huffpost
Tentò di riformare il comunismo in Urss, non riuscendovi. Aveva 91 anni
La perestroika, il crollo del Muro di Berlino, la fine della guerra fredda, il disarmo nucleare, il ritiro dall’Afghanistan: il nome di Mikhail Gorbaciov, spentosi oggi in ospedale all’età di 91 anni dopo una lunga malattia, evoca un’intera epoca di cambiamenti storici conclusasi nel ’91 con il crollo dell’Urss, di cui fu l’ultimo presidente prima di cedere il potere al suo rivale Boris Ieltsin.
Gorbaciov arriva dalla provincia, da un villaggio della regione meridionale di Stavropol, dove nasce il 2 marzo 1931 da una famiglia di agricoltori che gli trasmette l’amore per la terra e le cose semplici. Dopo un’esperienza nel Komsomol – la gioventù comunista – ancora impregnata di retorica staliniana, sbarca a Mosca all’inizio degli anni Cinquanta e si laurea in giurisprudenza nel 1955. Negli anni universitari si iscrive al partito comunista e conosce Raissa Titarenko, che con il suo sorriso e la sua eleganza rivoluzionerà l’immagine della first lady sovietica. La sposa poco dopo e resterà la sua fedele, amatissima compagna di vita sino alla sua morte, nel 1999. La carriera politica di Gorbaciov inizia nel 1970, quando viene nominato primo segretario del partito a Stavropol. Dieci anni dopo torna a Mosca come membro a pieno titolo del Politburo: è il più giovane di tutti. Rafforza la propria posizione sotto le ali protettive di Andropov, capo del Kgb e originario anche lui di Stavropol. Viaggia spesso all’estero e nel 1984 incontra per la prima volta l’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, “un osso duro” con cui stabilirà poi un rapporto di stima e fiducia. L’anno dopo, con la morte di Cernenko, è il suo turno. L’11 marzo 1985 diventa segretario generale del Pcus: ha solo 54 anni, una svolta generazionale dopo un lungo periodo di gerontocrazia. Il 1986 è già un anno cruciale, che rafforza le attese e le speranze, in Urss come nel resto del mondo, legate alla nuova leadership sovietica. A febbraio Gorbaciov lancia le sue parole d’ordine, Glasnost (trasparenza) e Perestroika (ristrutturazione), per portare una inedita ventata di libertà nei media e nell’opinione pubblica e per riformare un sistema economico sempre più stagnante. In ottobre invece si incontra con l’allora presidente americano Ronald Reagan a Reykjavik, in Islanda, per discutere la riduzione degli arsenali nucleari in Europa, suggellata l’anno successivo dalla firma di uno storico trattato. Nel luglio del 1991 fa il bis con George Bush: lo ‘Start 1’ per una forte riduzione delle armi nucleari strategiche. Gorby, come ormai viene amichevolmente chiamato in Occidente, riabilita anche i dissidenti più celebri, a partire dal fisico Andrei Sakharov, dopo otto anni di confino. Il percorso democratico interno avanza, le riforme economiche meno.
Il potere viene spostato dal partito agli organi legislativi eletti a suffragio universale e nel marzo del 1989 ci sono le prime libere elezioni: una data storica. Nel 1990 il ricostituito Congresso dei deputati del popolo elegge Gorbaciov presidente, con più ampi poteri. Nel frattempo è già cambiata la geografia e la storia dell’Europa, che per il padre della peretroika deve diventare “una casa comune”.
Il 9 novembre 1989 crolla il Muro di Berlino, il simbolo della guerra fredda, seguono le rivoluzioni di velluto nell’Europa centro-orientale e la riunificazione della Germania.
Tutto con l’avallo di Gorbaciov, che nel 1989 ritira anche le truppe dall’Afghanistan. Nello stesso anno compie due visite storiche: a maggio a Pechino, dove Cina e Urss riallacciano i rapporti interrotti trent’anni prima; il primo dicembre in Vaticano da Wojtyla, primo leader sovietico ad incontrare un Papa. Inevitabile, e meritato, il Nobel per la pace nel 1990. Il 1991 è però un anno drammatico per lui: in agosto viene sequestrato per tre giorni nella villa presidenziale in Crimea, vittima di un golpe dei comunisti conservatori spento solo dalla coraggiosa resistenza del presidente russo Ieltsin. Che l’8 dicembre successivo firma con Ucraina e Bielorussia la nascita della Csi, la Comunità di Stati indipendenti: è la fine dell’Urss. Impotente e ormai impopolare dopo le sue riforme troppo lente e prudenti, inviso anche per la sua crociata contro la vodka, umiliato nel duello con l’esuberante Ieltsin, il riflessivo Gorbaciov getta la spugna poche settimane dopo, il giorno di Natale.
Insieme alla bandiera rossa viene ammainata un’epoca, tramontava un impero che aveva sconfitto i nazisti e mandato il primo uomo nello spazio ma anche milioni di suoi concittadini nei gulag. Nella sua biografia restano alcune ombre, come l’invio del carri armati in Lituania contro le prime aspirazioni indipendentiste o la catastrofe nucleare di Cernobyl nel 1986, passata sotto silenzio per diversi giorni nonostante la glasnost. Ma i suoi meriti storici prevalgono di gran lunga, nonostante l’impopolarità o l’indifferenza tra i russi, che non gli perdonano il crollo dell’Urss. Il suo impegno a favore della pace, della democrazia e dell’ambiente è continuato sino a poco tempo fa, tra conferenze, incontri e critiche aperte alla deriva autoritaria di Putin. Anche se nel 2014 era tornato a difenderlo come paladino degli interessi russi, a partire dall’annessione della Crimea, contro l’imperialismo Usa. Ma chiedendo anche, fino alla fine dei suoi giorni, di evitare il rischio di uno scontro nucleare.
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31 AGOSTO 2022

Mikhail Gorbaciov,

l’uomo visto nel momento della sconfitta

di Enrico Franceschini
Il ricordo di quell’ultima intervista al Cremlino poco dopo l’annuncio delle dimissioni. E di come l’ultimo leader sovietico sapeva ridere di sé stesso
LONDRA – Gioviale, caloroso, dotato di un’inesauribile energia: così ci sembrava Mikhail Gorbaciov, il 26 dicembre 1991, poche ore dopo avere annunciato in televisione le dimissioni. Erano anche le ultime ore che l’ormai ex-presidente trascorreva nell’ufficio al Cremlino, da lui occupato dal giorno dell’insediamento al potere, sei anni prima. Accogliendo me e la mia collega Fiammetta Cucurnia, allora corrispondenti di Repubblica da Mosca, per quella che fu la sua ultima intervista all’interno della fortezza sulla piazza Rossa, dalla cui cupola il giorno prima era stata ammainata la bandiera rossa, Mikhail Sergeevic non dava l’impressione di uno sconfitto, non appariva demoralizzato o depresso: al contrario, in un certo senso era come se gli avessero levato un formidabile peso dalle spalle.
La fine dell’Urss era nell’aria perlomeno da sei mesi prima, quando i nostalgici del comunismo avevano tentato di rovesciarlo con un golpe: da vittima designata, Mikhail Sergeevic diventò agli occhi del suo stesso popolo un complice del complotto, perché quegli uomini li aveva scelti lui, nel continuo zig-zag tra riforme e passi indietro per tenere insieme il Paese più grande del mondo. In un certo senso, dopo il golpe d’agosto, era stato dunque un lungo addio, dall’epilogo scontato. Ciò non significa che Gorbaciov non fosse amareggiato e preoccupato dal crollo dell’Urss. “Non siamo né tartari né tedeschi”, disse nella lunga conversazione, protratta più di quello che ci aspettavamo, il segno che non aveva fretta, perché i suoi impegni ufficiali erano conclusi. Intendeva che la Russia non era né Asia né Europa, bensì una cerniera fra i due continenti: avrebbe voluto risolvere così l’eterno dilemma tra slavofili ed europeisti. Ma il tempo dei compromessi era passato. E il suo tempo personale era scaduto.
Dal villaggio del sud al Cremlino
Per misurare il viaggio compiuto da Gorbaciov tra il 1985, quando il Politbjuro del Pcus lo elesse segretario generale dopo la morte di tre anziani leader uno dopo l’altro, Breznev, Andropov e Chernenko, e il 26 dicembre ’91 della sua uscita di scena, serviva un altro viaggio. Lo avevo compiuto, spinto dalla curiosità e dal caso, nel luglio precedente, poche settimane prima del colpo di stato, recandomi a Privolnoe, un villaggio di duemila abitanti nel sud della Russia, dove Gorbaciov era nato e cresciuto. Nel silenzio della campagna assolata, c’era una sola “stalovaja”, una mensa invasa di mosche, tra le misere izbe in legno e le orrende casupole di stile sovietico. Il giovane Mikhail andava a scuola nel villaggio vicino ogni mattina su un carro trainato da un trattore o dai buoi. Il nonno, giudicato un kulako, un contadino arricchito, aveva subito le persecuzioni staliniane. La nonna aveva segretamente battezzato Mikhail, come usava allora. Forse da lì veniva la sua abitudine, ripetuta più volte nel corso della nostra intervista, di esclamare “slava Bogo”, grazie a Dio: era strano per me sentire l’ex-capo della superpotenza comunista, della nazione che predicava l’ateismo, intercalare con il nome del Signore il suo discorso sulle riforme riuscite o mancate della perestrojka. Una delle contraddizioni del potere dei Soviet: Stalin aveva mandato il suo aguzzino Kaganovic a fucilare i preti, ma non era riuscito a sradicare del tutto la religione dal linguaggio del socialismo reale.
Quello sperduto villaggio nella regione di Stavropol, in cui spiccava una sola abitazione, modesta come le altre ma protetta da un casotto di guardia del Kgb, perché lì dentro continuava a vivere la madre di Gorbaciov, era lontano dalla Piazza Rossa, dal Cremlino, dall’ufficio con la bandiera rossa sul tetto, come la terra dalla luna. Ci era voluta una determinazione di ferro per compiere quel percorso: la capacità di fare carriera usando fermezza antica e metodi nuovi, di apparire un continuatore e un innovatore, per non spaventare i nostalgici ma pure per dare al sistema lo scossone che anche il suo predecessore e padrino Andropov, un ex-capo del Kgb, dunque uno dei pochi a conoscere il vero stato del disfacimento sovietico, giudicava necessario. Ma quella duplicità, che aveva funzionato per portarlo fino al vertice, non lo aveva più servito quando si era trattato di cambiare l’Urss senza rivoluzionarla: come tutti i riformatori, Gorbaciov era rimasto solo, abbandonato dai nostalgici del comunismo come dai radicali democratici. E sbeffeggiato dalla gente comune per la sua battaglia contro l’alcolismo, che gli valse il soprannome di “segretario minerale”, come se fosse astemio, un’infamia per un russo paragonabile a quella di un italiano che disdegna la pizza o gli spaghetti. Non era vero che non beveva: qualche volta, nei giorni finali di solitudine al Cremlino, si era perfino sbronzato di cognac, come confessò il suo più stretto collaboratore Anatolij Cernjaev nel proprio diario. Non era un ubriacone come il suo successore Boris Eltsin, tuttavia. Non avrebbe mai detto, come il principe Vladimir, fondatore della prima Russia, “bere è la gioia dei russi, non possiamo vivere senza”, rifiutando per questo l’Islam come fede di stato, perché vietava l’alcol, e abbracciando invece il cristianesimo.
Il giorno dopo l’intervista a Gorbaciov tornai al Cremlino per intervistare il suo braccio destro Aleksandr Jakovlev, detto “l’architetto della perestroika”, anche lui intento a traslocare e abbandonare il suo ufficio. Uscendo dalla stanza di Jakovlev, in chi ci imbattiamo di nuovo Fiammetta, io e il nostro redattore russo Sergej Avdeenko? In Gorbaciov, che si aggirava per i corridoi, con il colbacco in testa, come un uomo che non sa più dove andare, cosa fare, impossibilitato ad andarsene per sempre. Baciò Fiammetta. Strinse la mano a me. Quindi la porse anche a Sergej. Ma Sergej si ritrasse, quasi come se una forza oscura lo spingesse verso il muro del corridoio. “Non capisci?”, mi disse più tardi. “Per me era come se l’imperatore, Dio in terra, fosse sceso dal trono o dal cielo a stringermi la mano. Non mi sembrava possibile”. Questo era il segretario generale del Pcus: un dio in terra. E ora la terra era franata, travolgendolo.
Il collasso dell’Urss
Quella intervista doveva essere il suo testamento politico. Ma era un testamento pronunciato troppo a caldo per essere completo, meditato. Rividi ancora Gorbaciov a Mosca, poi in Israele dove ero stato trasferito dal giornale, infine a Londra, dopo un nuovo trasferimento. E proprio nella capitale britannica Mikhail Sergeevic offrì una riflessione più acuta, oltre che più dolorosa e più consapevole dei problemi creati dal fallimento della perestroika e dal collasso sovietico: “Ci facevano fretta, ma saremmo dovuti andare più piano”. Disse che i primi anni di Vladimir Putin erano stati buoni, per riportare un po’ di ordine senza imbrigliare del tutto la nascente democrazia russa e i buoni rapporti con l’Occidente, ma che poi Putin aveva sbagliato a spingere sull’autoritarismo e sulla forza. Quella forza che Gorbaciov non aveva usato, lasciando che l’Europa orientale si liberasse dalle catene, regalando agli stessi russi lo spiritello della libertà. Ma la libertà, come ripetevano le massaie di Mosca davanti ai negozi vuoti, non si mangia.
Nemmeno con Eltsin, il rivale che per spodestarlo aveva mandato in frantumi l’Urss, Gorbaciov usò la forza. “Avrei potuto mandarlo a fare l’ambasciatore in Canada e non avremmo mai più sentito parlare di lui”, ricordava nel dicembre 1991. Invece era stato clemente, lo aveva tenuto a Mosca, gli aveva dato una seconda chance. Forse perché gli faceva comodo, nella costante ricerca di un equilibrio tra comunisti e democratici. In parte perché era quello il suo carattere.
La cosa più bella che ci disse, come spesso succede nelle interviste, venne a registratore chiuso, sulla porta dell’ufficio. Ricordò un viaggio di tanti anni prima, quando era soltanto segretario di Stavropol, invitato in Sicilia dai compagni del Pci per una vacanza insieme alla moglie Raissa, in un’era in cui solo i sovietici autorizzati potevano recarsi all’estero, mettendo il naso fuori da quell’immenso stato-prigione. E Raissa, bella quando il mondo la conobbe nei panni di una moderna first-lady, da giovane doveva essere ancora più bella: “In spiaggia, vicino a Palermo”, raccontava Mikhail Sergeevic, “cominciarono a girarle attorno dei bellimbusti locali. E io dovetti tirare fuori i muscoli per farli allontanare! Che figura! Chissà cosa avranno pensato di quello zoticone russo!” L’uomo della perestroika, l’ultimo presidente sovietico, il leader che per liberare un impero lo ha distrutto, era fatto così: sapeva ridere di sé stesso. Perfino nel momento in cui aveva perso tutto.
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31 Agosto 2022

Vi spiego perché i russi

odiano così tanto Gorbaciov

di Massimiliano Di Pace
C’entra la fine dell’impero sovietico, ovviamente, ma anche la resistenza al cambiamento e, non ultima, la…vodka
La morte di Mikhail Gorbaciov, segretario generale del partito comunista sovietico, e quindi (conseguenza da noi non così logica), presidente dell’Urss, dal marzo 1985 all’agosto 1991 (quando viene sequestrato in Crimea, mentre era in vacanza, circostanza da cui nacque la fine del comunismo e dell’Urss), rappresenta un evento percepito in modo completamente differente dall’Occidente e dai russi, a riprova che non c’è sintonia di visione del mondo e di filosofia di vita tra l’estremità orientale del continente europeo (e tutta l’Asia del nord, che costituisce il grosso del territorio della Federazione russa), e il resto dell’Europa e buona parte del mondo.
Infatti, chi non è a conoscenza della realtà russa rimarrà piuttosto perplesso nell’apprendere che, mentre da noi Gorbaciov è visto come una figura mondiale di elevatissimo livello, riportata nei nostri libri di storia in modo positivo, avendo creato condizioni di pace e di sicurezza nel mondo, allora senza precedenti (e non per nulla nel 1990 gli fu assegnato il premio Nobel per la pace), e contribuendo in modo determinante al miglioramento delle condizioni di vita delle generazioni successive alla sua (risultato su cui dovrebbero essere valutati i politici e i partiti a tutte le latitudini), grazie alle sue riforme politiche (гласность, glasnost, ossia trasparenza), ed economiche (перестройка, perestroika, ossia ricostruzione), in Russia, dopo un primo innamoramento collettivo per Gorbaciov e la sua intelligente moglie (chi non ricorda Raissa Titarenko, con il suo sorriso?), grazie alla sua giovane età, ed aspetto gioviale (del tutto diverso dai precedenti leader sovietici, più simili a mummie, che a normali esseri umani), ha cominciato a crescere nei suoi confronti un sentimento di insofferenza, che si è tramutato poi in un odio dichiarato.
Questo giudizio su Gorbaciov ho avuto modo di apprenderlo personalmente nei frequenti viaggi in Russia (tra il 1996 e il 2019), quando, constatando tra la fine degli anni ’90 e il primo decennio del 2000 un costante miglioramento delle condizioni economiche e sociali della Russia, mi capitava di far presente ai miei interlocutori locali che tutto questo era dovuto alle lungimiranti politiche di Gorbaciov.
Infatti, succedeva, con mia grande sorpresa, di ricevere a commento della mia considerazione, quando andava bene, una smorfia, e quando andava male, un “иди к черту”, ossia “vai al diavolo” (in realtà le risposte erano po’ più pittoresche, ma qui non posso scrivere parolacce, neppure in russo).
Va detto però che il giudizio negativo è espresso in modo convinto solo da coloro che sono nati prima del 1980, ossia che hanno oggi più di 40 anni, mentre le generazioni di russi più recenti si limitano a ribadire blandamente l’opinione collettiva su Gorbaciov, che è d’altronde argomentata nei loro libri di storia, che narrano il periodo sovietico come un’epoca d’oro in cui Mosca era l’ombelico del mondo, e l’Urss il paese guida di qualche decina di nazioni (comprese quelle dell’est Europa, molte delle quali hanno in odio i russi proprio per quel dominio), che, avendo regimi comunisti, ubbidivano come oggi Putin si aspetta da tutti i russi, compresi i dissidenti (che imparano a dire di sì sempre e comunque dopo un corso durato 15 anni, svolto in aule che si trovano, guarda caso, in prigione), e che ricevevano in cambio di cotanta ubbidienza, ancora più povertà.
Molti dei miei conoscenti in Russia (inclusi i parenti) la pensano così, e avendone chiesto in più occasioni ragione di quello che a me (come a molti di noi) sembrava un giudizio (negativo) ingiustificato e immeritato, ho ricevuto per risposta tutta una serie di circostanze, che vanno dal fatto banale alla motivazione storico-esistenziale.
Una delle prime ragioni dell’odio dei russi che ho sentito è che Gorbaciov aveva limitato fortemente l’uso della vodka.
I russi, durante il comunismo, conducendo una vita effettivamente di stenti (che chi scrive ha potuto osservare, visitando Germania dell’est e Cecoslovacchia prima della caduta del muro di Berlino, ed ascoltare ovviamente dai parenti russi, che però negano che quelli fossero “stenti”), trovavano facile rimedio alla situazione con una bella sbronza, appunto, a base di vodka, che costava pochissimo (ed anche negli anni più recenti una bottiglia da mezzo litro la pagavo un paio di euro, tanto da farne incetta, e utilizzarle come omaggio quando in Italia mi invitavano a cena).
Ma ciò che ha infastidito di più i russi di allora è stato il cambiamento del modo di lavorare (bisognava lasciare libertà di gestione a fabbriche e fattorie, circostanza che richiedeva la necessità di pensare, e nessuno era abituato a farlo), di vivere (bisognava dire le cose con chiarezza agli altri!), e di pensare (sono un cittadino!? Ma no, non è possibile…).
Ma la conseguenza peggiore della politica di Gorbaciov, e che i russi non gli hanno mai perdonato, è stata prima la fine dell’impero sovietico con l’abbandono dei paesi satelliti (prima quelli europei, e poi quelli negli altri continenti, come Cuba), e poi il disfacimento dell’Unione sovietica, che, pur garantendo qualità della vita da terzo mondo, offriva la soddisfazione morale di sentirsi importanti, ancorché la sensazione non poteva essere verificata all’estero, data l’impossibilità di andare oltre la cortina, tranne per i pochi e fedelissimi membri della nomenklatura, che tornando in patria si guardavano bene dal dire che non avevano visto all’estero tutti questi archi di trionfo per il cittadino sovietico.
Non è stata quindi una sorpresa per me constatare nei siti russi che la morte di Gorbaciov è stata, sì segnalata come notizia principale, ma commentata ricordando in modo asettico le principali tappe della sua carriera politica e delle sue principali politiche (tra cui la lotta all’alcolismo, rimasta molto impressa), e non tralasciando valutazioni negative dei suoi anni (definiti “turbolenti”), caratterizzati dal ritiro dall’Afghanistan, e soprattutto dalla fine del Patto di Varsavia, con la successiva ritirata dei russi dall’Europa orientale.
Insomma, anche la morte di Gorbaciov evidenzia il fatto che i russi non hanno ancora digerito il proprio passato, o meglio, non lo hanno capito, e cercano, in modo disordinato e casuale, una rivincita, ossia un ruolo importante della Russia in un nuovo ordine mondiale, e a pagarne le spese di questa vagheggiata rivincita russa, è stata l’Ucraina, che ha l’unica colpa di essere un paese confinante con la Russia, e legato storicamente ad esso per un centinaio di anni.
Ma indipendentemente dall’esito del conflitto con l’Ucraina, Putin non potrà riscrivere i libri di storia, e quindi non potrà cancellare né la sconfitta ideologica del comunismo (di cui lui era un fautore, con buona pace del suo ex amico Berlusconi), né il crollo dell’Unione sovietica, e del suo sistema di presudo-colonialismo, di cui diversi paesi in Africa ancora pagano il conto.

 

 

 

1 Commento

  1. Giuseppe ha detto:

    Nemo profeta in patria. Se non sbaglio anche Gesù Cristo è stato cacciato da Nazareth.
    Il popolo russo abituato ad essere sfruttato prima dagli zar e poi dai bolscevichi, viveva comunque nell’illusione di far parte di una nazione potente e temuta, che se non altro, contribuiva a mandare giù i bocconi amari di una condizione umiliante da un punto di vista economico, sebbene ci fosse qualcuno che non se ne rendeva conto, visto che era praticamente impossibile andare oltre frontiera e fare paragoni con l’occidente. La realtà storica, come ben sappiamo e molto diversa e ieri il mondo ha perduto un gigante della storia umana che ha saputo uscire di scena con una dignità pari alla sua grandezza di statista.

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