UN GRIDO DI INTERCESSIONE
Card. Carlo Maria Martini
Omelia nella veglia per la pace
organizzata dai giovani di A.C.
Duomo, 29 gennaio 1991
LETTURA LITURGICA: dal Libro di Neemia (9,1-10.26-37)
Il ventiquattro dello stesso mese, gli Israeliti si radunarono per un digiuno, vestiti di sacco e coperti di polvere. Quelli che appartenevano alla stirpe d’Israele si separarono da tutti gli stranieri, si presentarono dinanzi a Dio e confessarono i loro peccati e le iniquità dei loro padri.
Poi si alzarono in piedi nel posto dove si trovavano e fu fatta la lettura del libro della legge del Signore loro Dio, per un quarto della giornata; per un altro quarto essi fecero la confessione dei peccati e si prostrarono davanti al Signore loro Dio.
Giosuè, Bani, Kadmiel, Sebania, Bunni, Serebia, Bani e Kenani si alzarono sulla pedana dei leviti e invocarono a gran voce il Signore loro Dio.
I leviti Giosuè, Kadmiel, Bani, Casabnia, Serebia, Odia, Sebania e Petachia dissero: “Alzatevi e benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il tuo nome glorioso che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode! Tu, tu solo sei il Signore, tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli e tutte le loro schiere, la terra e quanto sta su di essa, i mari e quanto è in essi; tu fai vivere tutte queste cose e l’esercito dei cieli ti adora.
Tu sei il Signore, il Dio che ha scelto Abram, lo hai fatto uscire da Ur dei Caldei e lo hai chiamato Abramo.
Tu hai trovato il suo cuore fedele davanti a te e hai stabilito con lui un’alleanza, promettendogli di dare alla sua discendenza il paese dei Cananei, degli Hittiti, degli Amorrei, dei Perizziti, dei Gebusei e dei Gergesei; tu hai mantenuto la tua parola, perché sei giusto. Tu hai visto l’afflizione dei nostri padri in Egitto e hai ascoltato il loro grido presso il Mare Rosso; hai operato segni e prodigi contro il faraone, contro tutti i suoi servi, contro tutto il popolo del suo paese, perché sapevi che essi avevano trattato i nostri padri con durezza; ti sei fatto un nome fino ad oggi.
Ma poi sono stati disobbedienti, si sono ribellati conto di te, si sono gettati la tua legge dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li scongiuravano di tornare a te, e ti hanno offeso gravemente.
Perciò tu li hai messi nelle mani dei loro nemici, che li hanno oppressi. Ma al tempo della loro angoscia essi hanno gridato a te e tu li hai ascoltati dal cielo e, nella tua grande misericordia, tu hai dato loro liberatori, che li hanno strappati dalle mani dei loro nemici. Ma quando avevano pace, ritornavano a fare il male dinanzi a te, perciò tu li abbandonavi nelle mani dei loro nemici, che li opprimevano; poi quando ricominciavano no a gridare a te, tu li esaudivi dal cielo; così nella tua misericordia più volte li hai salvati. Tu li ammonivi per farli tornare alla tua legge; ma essi si mostravano superbi e non obbedivano ai tuoi comandi; peccavano contro i tuoi decreti, che fanno vivere chi li mette in pratica; la loro spalla rifiutava il giogo, indurivano la loro cervice e non obbedivano. Hai pazientato con loro molti anni e li hai scongiurati per mezzo del tuo spirito e per bocca dei tuoi profeti; ma essi non hanno voluto prestare orecchio. Allora li hai messi nelle mani dei popoli dei paesi stranieri.
Però nella tua molteplice compassione, tu non li hai sterminati del tutto e non li hai abbandonati perché sei un Dio clemente e misericordioso.
Ora, Dio nostro, Dio grande, potente e tremendo, che mantieni l’alleanza e la misericordia, non sembri poca cosa ai tuoi occhi tutta la sventura che è piombata su di noi, sui nostri re, sui nostri capi, sui nostri sacerdoti, sui nostri profeti. siti nostri padri, su tutto il tuo popolo, dal tempo dei re d’Assiria fino ad oggi.
Tu sei stato giusto in tutto quello che ci è avvenuto, poiché tu hai agito fedelmente, mentre noi ci siamo comportati con empietà. I nostri re, i nostri capi, i nostri sacerdoti, i nostri padri non hanno messo in pratica la tua legge e non hanno obbedito né ai comandi né agli ammonimenti con i quali tu li scongiuravi. Essi mente godevano del loro regno, del grande benessere che tu largivi loro e del paese vasto e fertile che tu avevi messo a loro disposizione, non ti hanno servito e non hanno abbandonato le loro azioni malvagie.
Oggi eccoci schiavi nel paese che tu hai concesso ai nostri padri perché ne mangiassero i frutti e ne godessero i beni. I suoi prodotti abbondanti sono dei re ai quali tu ci hai sottoposti a causa dei nostri peccati e che sono padroni dei nostri corpi e del nostro bestiame a loro piacere, e noi siamo in grande angoscia”.
Una preghiera penitenziale
“Noi siamo in grande angoscia”; queste sono le parole conclusive della lunga preghiera che abbiamo ascoltato, dal Libro di Neemia.
1. In questo testo, che risale ad alcuni secoli prima di Cristo, ci troviamo di fronte a una celebrazione penitenziale, incentrata sulla preghiera. Tale preghiera è una delle più belle tra quelle tramandateci dalla pietà ebraica, insieme con i Salmi. In essa ritornano i temi centrali dell’alleanza, della fedeltà alla legge, il tema della promessa, il tema dei peccati del popolo, dei castighi di Dio, della sua inesauribile misericordia e delle sue iniziative di perdono.
Tutta la storia di salvezza è vista con uno sguardo retrospettivo che risale al primo intervento salvifico di Dio, la creazione stessa (“Tu, tu solo sei il Signore, tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli e tutte le loro schiere, la terra e quanto sta in essa, i mari e quanto è in essi…”). La storia di salvezza, che passa per Abramo, Mosè, il Mar Rosso, il deserto, è riletta come una dimostrazione concreta della pazienza e della misericordia di Dio e, insieme, della infedeltà e della ostinazione dell’uomo.
2. E noi rileggiamo questa preghiera di ventiquattro secoli fa, come comunità cristiana convocata in assemblea penitenziale; la rileggiamo ripensando alle esperienze passate della misericordia di Dio e alle nostre infedeltà. La rileggiamo soprattutto nell’orizzonte infuocato di una guerra che sta assumendo proporzioni spaventose.
Ma vogliamo rileggerla di fronte al Crocifisso, sapendo che in Gesù, morto e risorto, si è manifestata l’ira di Dio sulle infedeltà umane ed è apparsa la sua fedeltà immutabile, è apparso il suo amore misericordioso che ha vinto il peccato del mondo.
L’antica preghiera biblica ci offre dunque l’ambito della nostra preghiera di questa sera.
3. Non è l’ambito etico politico, quello dei giudizi a livello del diritto internazionale, sui temi della pace e della guerra. Su tale livello si è già detto e scritto molto e i giudizi più taglienti e definitivi sono stati pronunciati dal Papa, nella sua qualità di pastore universale, di figura al di sopra di tutte le parti, di padre che si sente corresponsabile dei futuri destini dell’umanità e compartecipe in prima persona dei suoi lutti e delle sue tragedie.
Il Papa ha detto chiaramente che la guerra non è uno strumento per superare i conflitti tra i popoli; che bisogna impegnarsi per mettervi fine; che occorre riprendere i negoziati; che la pace è ancora possibile.
Ho avuto occasione, nei giorni passati, di richiamare più volte, in altri contesti e in altre sedi, le parole del Papa sui temi del diritto internazionale e della pace. E anche noi, come Diocesi, intendiamo promuovere ulteriormente le riflessioni sulle questioni della giustizia e della pace, tra l’altro in una specifica commissione diocesana “Iustitia et Pax” che sarà luogo permanente di riferimento per quanti cercano luce e chiarezza su queste problematiche.
4. Questa sera però tratterò con voi un tema che potrebbe avere come titolo “Un grido di intercessione”; un tema che intende entrare assai di più dentro la carne del conflitto sanguinoso che ci coinvolge. Ci poniamo perciò nell’ambito della preghiera penitenziale di Neemia: l’ambito della invocazione, della intercessione, del pentimento, della penitenza.
Ma qui nasce la domanda: non è questo un ambito sterile? non è un ambito che ci fa eludere i problemi, che li scavalca, per così dire, senza risolverli?
Certo, per chi ha poca o nessuna fede non c’è altro linguaggio che quello degli argomenti umani e in particolare, degli argomenti forti. Il credente, tuttavia, non può limitarsi a questo. Per lui e per noi, questa sera, c’è lo spazio inesplorato della fede che abbraccia e penetra ben più nel profondo delle vicende umane.
Le discussioni che si svolgono sul piano dell’etica politica o del diritto delle genti hanno sempre, come nodo di riferimento, la domanda: che cosa è giusto e che cosa non lo è? e dietro a tale domanda ne troviamo un’altra: chi è nel giusto o chi non lo è?
Domande legittime, da non trascurare. E ho prima indicato le sedi in cui, anche in Diocesi, esse saranno portate avanti. Noi, invece, affronteremo un tema che vuole fare appello, assai più fortemente, alla vostra, alla nostra fede.
Confessiamo i nostri peccati
Riprendo dunque le parole conclusive della preghiera di Neemia: “Noi siamo in grande angoscia”.
1. Io lo dico e ne do testimonianza: il mio cuore è turbato, la mia coscienza è lacerata, i miei pensieri si smarriscono. Tutti noi, senza fare eccezione tra credenti e non credenti possiamo ripetere: i nostri cuori sono turbati, le nostre coscienze: sono lacerate, i nostri pensieri si smarriscono, le nostre opinioni tendono a dividersi.
Smarrimento e angoscia che non ci coinvolgono solo sul terreno del lutto per i morti, delle lacrime per tutti i feriti, del lamento doloroso per i profughi, per i senza tetto, per coloro che vivono nell’angoscia dei bombardamenti giorno e notte.
Lo smarrimento e la divisione delle opinioni avvengono pure sul terreno delle riflessioni etico-politiche, che in questi giorni si succedono facendo balenare i più diversi giudizi.
Vorrei dire molto di più: lo smarrimento e l’angoscia toccano persino l’ambito della fede e della preghiera, che è quello che ci riunisce questa sera, perché siamo qui per vegliare, digiunare, intercedere, facendo nostre le intercessioni e le grida di tutti gli uomini e le donne, di tutti i bambini, di tutti i vecchi in qualche modo coinvolti nel conflitto del Golfo, di qualunque parte essi siano.
2. Mi domando allora con voi: perché rischiamo di essere smarriti persino nell’ambito della fede e della preghiera?
La risposta è molto semplice. Perché ci viene spontaneamente sulle labbra la domanda, quasi una protesta a Dio, come Giobbe: abbiamo già pregato, abbiamo chiesto tanto la pace, hanno pregato i nostri bambini, i nostri malati offrendo le loro sofferenze, ma tu, Signore, non ci hai esaudito!
Ecco un grande motivo della nostra sofferenza civile, umana, religiosa, che tocca il cuore della fede: perché, Signore, non ci ascolti? perché nascondi il tuo volto? eppure in te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati. Ma io grido di notte e tu non ascolti, di giorno e tu non te ne dai pensiero!
Vengono alle labbra queste parole dei Salmi, parole non inventate da noi, bensì pronunciate dai credenti di Israele di oltre duemila anni fa, che già si sono trovati davanti a Dio con questo lamento e con questa angoscia nel cuore.
E facciamo nostre anche le parole amare di confessione e di pentimento del profeta Neemia, che si riferiscono a un lamento dolente del popolo di Israele, in un momento oscuro della storia, alcuni secoli prima di Cristo. Sentiamo emergere in noi il grido: “Abbiamo peccato come i nostri padri! Tu, Signore, hai agito fedelmente mentre noi ci siamo comportati con empietà”.
3. Intravediamo una prima ragione del motivo per cui non siamo stati esauditi! Nelle nostre preghiere non siamo partiti da una chiara ammissione e ammenda delle nostre colpe.
“Essi – dice Neemia – mentre godevano del loro regno, del grande benessere che tu largivi loro … non ti hanno servito e non hanno abbandonato le loro azioni malvagie”.
Noi confessiamo: Ci siamo attaccati al nostro benessere, ne abbiamo approfittato in tutti i modi, lo abbiamo eretto a idolo, e poi pretendevamo che tu, o Dio, ci esaudissi, nel timore che questo benessere ci venisse a mancare Vorrei leggere una bella preghiera di Paolo VI, scritta molti anni fa, ma che si addice al nostro incontro, dove si dice tra l’altro:
“Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali… Signore, noi siamo oggi tanto armati come non lo siamo mai stati nei secoli prima d’ora e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forse anche l’umanità. Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri, e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l’equilibrio crudele dell’economia di tante nazioni potenti sul mercato delle armi alle nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali”.
Paolo VI fa dunque passare, in questa preghiera, tanti peccati sociali della nostra epoca, peccati particolarmente evidenti ma che cercavamo di emarginare, a cui cercavamo di non pensare.
Però non possiamo nasconderci come questi egoismi evidenti, che vengono a galla, abbiano origini oscure e tenebrose nel fondo dei nostri stessi cuori.
Noi non abbiamo saputo fare un esame di coscienza nel profondo.
Ha detto giustamente qualcuno: “I fiumi di sangue sono sempre preceduti da torrenti di fango”. In tali torrenti abbiamo sguazzato un po’ tutti noi umani, uomini e donne di ogni paese e latitudine: l’immoralità della vita, gli egoismi personali e di gruppo, la corruzione politica, i tradimenti e le infedeltà a livello interpersonale e familiare, il menefreghismo, l’indolenza e lo sciupio delle energie di vita per cose vane, frivole o dannose, l’insensibilità di fronte ai milioni di esseri umani la cui vita è soffocata con l’aborto, il volgere la testa di fronte alle miserie di chi sta vicino o di chi viene da lontano, il commercio della droga.
Sì, in questi torrenti di fango ci siamo lasciati coinvolgere, ci siamo magari talora anche divertiti in maniera spensierata e irresponsabile.
E poi vorremmo che Dio venisse incontro a una preghiera che spesso nasce proprio dalla paura di perdere le nostre comodità, il nostro benessere, di dover un giorno pagare di persona per i nostri errori.
4. Se oggi c’è una guerra – lo ha ripetuto il Papa – non è perché le cose si siano mosse quasi per caso o per sbaglio, pur se ci sono delle responsabilità precise, a cui nessuno potrà sfuggire. C’è una guerra perché, per tanto tempo, si sono seminate situazioni ingiuste, si è sperata la pace trascurando quelli che Giovanni XXIII chiamava “i quattro pilastri della pace”, cioè verità, giustizia, libertà e carità. Ogni colpa pubblica e privata contro questi quattro pilastri, ogni atto di menzogna, ingiustizia, possesso egoista e dominio sull’altro, pregiudizio e odio, hanno scavato la fossa e l’edificio è crollato sotto i nostri occhi.
Perché la pace è un edificio indivisibile, e ciascuno di noi l’ha distrutto per la sua parte di responsabilità.
Ogni seria preghiera per la pace deve quindi nascere dal pentimento e dalla volontà di ricostituire anzitutto nella nostra vita personale e comunitaria “i quattro pilastri”: verità, giustizia, libertà, carità. Senza tale volontà umile e sincera, la nostra preghiera e la nostra invocazione sono ipocrite.
Il dono evangelico di un cuore pacifico
Mi pare di poter portare una seconda ragione per cui la nostra preghiera non è stata esaudita.
Io temo che spesso non l’abbiamo bene indirizzata. Abbiamo chiesto la pace come qualcosa che riguardava gli altri; abbiamo insistito perché Dio cambiasse il cuore dell’altro, nel senso naturalmente che volevamo noi.
In realtà, il primo oggetto della autentica preghiera per la pace siamo noi stessi: perché Dio ci dia un cuore pacifico.
“Dona nobis pacem” significa anzitutto: Purifica, Signore, il mio cuore da ogni fremito di ostilità, di partigianeria, di partito preso, di connivenza; purificami da ogni antipatia, pregiudizio, egoismo di gruppo o di classe o di razza.
Tutti questi sentimenti negativi sono incompatibili con la pace. Eppure emergono vistosamente proprio ai nostri giorni, stimolati dalle notizie, dalle immagini che vediamo, stimolati dalle vibrazioni delle voci dei bollettini di guerra, dalla curiosità stessa eccitata da un conflitto la cui tecnologia sfiora l’inverosimile.
Così, mentre preghiamo per la pace, nel fondo del nostro cuore finiamo per parteggiare, per giudicare, per auspicare l’uno o l’altro successo di guerra. L’istinto si scatena, la fantasia si sbizzarrisce, e la preghiera non tende verso quella purificazione del cuore, dei sensi, delle emozioni e dei pensieri che sola si addice agli operatori di pace secondo il Vangelo.
È esigente essere operatori di pace secondo il Vangelo; è un dono che non si compra a poco prezzo, perché viene dallo Spirito e occorre accettare di pagarlo a caro prezzo.
La preghiera vera di intercessione
Ora desidero chiedere al Signore di farci fare un altro passo avanti. Di farci intendere qual è il senso profondo di una vera preghiera per la pace, che sia una preghiera di intercessione nel senso biblico, simile alla preghiera di Abramo, alla preghiera di Gesù su Gerusalemme.
Che cosa significa, Signore, fare davvero una preghiera di intercessione? Donaci, o Spirito santo di Dio, uno spirito autentico di intercessione in questo momento.
1. Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo.
Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione.
Intercessione vuol dire allora mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto.
Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio (Signore, dacci la pace!), stando al riparo.
Si tratta di mettersi in mezzo. Non è neppure semplicemente assumere la funzione di arbitro o di mediatore, cercando di convincere uno dei due che lui ha torto e che deve cedere, oppure invitando tutti e due a farsi qualche concessione reciproca, a giungere a un compromesso. Così facendo, saremmo ancora nel campo della politica e delle sue poche risorse. Chi si comporta in questo modo rimane estraneo al conflitto, se ne può andare in qualunque momento, magari lamentando di non essere stato ascoltato.
Intercedere è un atteggiamento molto più serio, grave e coinvolgente, è qualcosa di molto più pericoloso.
Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione.
In proposito troviamo nella Bibbia una pagina illuminante. Nel momento in cui Giobbe si trova, quasi disperato, davanti a Dio che gli appare come un avversario, con cui non riesce a riconciliarsi, grida: “Chi è dunque colui che si metterà tra il mio giudice e me? chi poserà la sua mano sulla sua spalla e sulla mia?” (cf Gb 9,33-39, vers. spec.).
Non dunque qualcuno da lontano, che esorta alla pace o a pregare genericamente per la pace, bensì qualcuno che si metta in mezzo, che entri nel cuore della situazione, che stenda le braccia a destra e a sinistra per unire e pacificare.
È il gesto di Gesù Cristo sulla croce, del Crocifisso che contempliamo questa sera al centro della nostra assemblea. Egli è colui che è venuto per porsi nel mezzo di una situazione insanabile, di una inimicizia ormai giunta a putrefazione, nel mezzo di un conflitto senza soluzione umana. Gesù ha potuto mettersi nel mezzo perché era solidale con le due parti in conflitto, anzi i due elementi in conflitto coincidevano in lui: l’uomo e Dio.
Ma la posizione di Gesù è quella di chi mette in conto anche la morte per questa duplice solidarietà; è quella di chi accetta la tristezza, l’insuccesso, la tortura, il supplizio, l’agonia e l’orrore della solitudine esistenziale fino a gridare: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46).
Questa è l’intercessione cristiana evangelica. Per essa è necessaria una duplice solidarietà. Tale solidarietà è un elemento indispensabile dell’atto di intercessione. Devo potere e volere abbracciare con amore e senza sottintesi tutte le parti in causa. Devo resistere in questa situazione anche se non capito o respinto dall’una o dall’altra, anche se pago di persona. Devo perseverare pure nella solitudine e nell’abbandono. Devo avere fiducia soltanto nella potenza di Dio, devo fare onore alla fede in Colui che risuscita i morti.
Tale fede è difficile, per questo l’intercessione vera è difficile. Ma se non vi tendiamo, la nostra preghiera sarà fatta con le labbra, non con la vita.
Naturalmente un simile atteggiamento non calpesta affatto le esigenze della giustizia. Non posso mai mettere sullo stesso piano assassini e vittime, trasgressori della legge e difensori della stessa. Però, quando guardo le persone, nessuna mi è indifferente, per nessuno provo odio o azzardo un giudizio interiore, e neppure scelgo di stare dalla parte di chi soffre per maledire chi fa soffrire. Gesù non maledice chi lo crocifigge, ma muore anche per lui dicendo: “Padre, non sanno quello che fanno, perdona loro” (Le 23,34).
2. Se una preghiera non raggiunge questa duplice solidarietà, se intercede perché il Signore soccorra l’uno e abbatta l’altro, ignora ancora il bisogno di salvezza di chi è eventualmente nel torto, di chi ha scelto contro Dio e contro il fratello, lo abbandona, non gli mette la mano sulla spalla, e la sua non è una preghiera di intercessione.
Nella misura dunque in cui facciamo delle scelte esclusive nel nostro cuore, e condanniamo e giudichiamo, non siamo più con Gesù Cristo, nella situazione che lui ha scelto, e dobbiamo dubitare della validità e della genuinità della nostra preghiera di intercessione.
3. Vorrei far notare che questo mettersi in mezzo non va concepito come un mezzo tattico, tanto per superare un’emergenza. È chiamato a diventare un modo di essere di chi vuole operare la pace, del cristiano che segue Gesù. Non abbiamo il diritto di restare in una situazione difficile solo fino a quando è sopportabile. Occorre volerci restare fino in fondo, a costo di morirci dentro. Solo così siamo seguaci di quel Gesù che non si è tirato indietro nell’orto degli ulivi.
4. Noi ci accorgiamo che una vera intercessione è difficile; può essere fatta solo nello Spirito Santo e non sarà necessariamente compresa da tutti. Ma se un desiderio essa suscita è questo: di essere in questo momento nei luoghi del conflitto, nelle strade di Bagdad o di Riad o di Bassora, nelle strade di Tel Aviv, dove cittadini inermi sono minacciati e uccisi. Stare là in pura passività, senza alcuna azione politica o alcun clamore, fidando solo nella forza della intercessione. Stare là, come Maria ai piedi della croce, senza maledire nessuno e senza giudicare nessuno, senza gridare alla ingiustizia o inveire contro qualcuno.
Se la guerra sarà abbreviata, e noi lo chiediamo con tutto il cuore, uniti insieme con il Papa, se la forza dei negoziati soverchierà di nuovo – lo speriamo presto – la forza maligna degli strumenti di morte, ciò sarà certamente anche perché nei vicoli delle città dell’Oriente, nei meandri attorno alle moschee o sulla spianata del muro occidentale di Gerusalemme ci sono piccoli uomini e piccole donne, di nessuna importanza, che stanno là, così, in preghiera, senza temere altro che il giudizio di Dio; prostrati, come dice Neemia, davanti al Signore loro Dio, confessando i loro peccati e quelli di tutti i loro amici e nemici, finché non si avveri la profezia di Isaia: “In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: ‘Benedetto sia l’Egiziano, mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità’” (Is 19,21-25).
Carlo Maria card. Martini
GRAZIE DON GIORGIO PER AVER PUBBLICATO QUESTO SPLENDIDO “GRIDO DI INTERCESSIONE” DEL CARD. CARLO MARIA MARTINI.
GIUSEPPE RIVA GALBIATE
Del resto molto attuale, attualissimo…