L’EDITORIALE
di don Giorgio
Bergoglio indecente, Delpini indecente
Chiarisco subito: l’aggettivo “indecente” non va inteso in senso moralistico, per cui non richiama sinonimi quali: sconveniente, che non osserva i comandamenti, impudico, ecc., ma rimanda al senso etimologico di indecenza, che deriva dal latino “in-decentem”, composto dal prefisso negativo “in-“, non, e da “-decentem”, participio presente di “decere”, convenire, affine a “decus”, decoro, “dignus”, degno.
Perciò, in breve, indecente lo intendo qui come non conforme alla dignità del ruolo di cui una persona è rivestita.
Certo, il decoro riguarda anche un certo modo di parlare, di gesticolare, di camminare, di porsi davanti alla gente, anche di sorridere o di piangere, di esprimere esteriormente i propri sentimenti, le proprie emozioni, la rabbia, la gioia o il dolore.
Anche questi aspetti hanno una loro importanza, soprattutto se il ruolo o la carica richiede un certo contegno, diciamo di nobiltà. La nobiltà d’animo porta ad assumere anche esteriormente atteggiamenti nobili, dignitosi, appunto decenti.
Perciò, siamo chiari: certi ruoli (si pensi a quello di essere vescovo o papa) richiedono nobiltà d’animo. Da qui, ciò che chiamiamo “autorevolezza”, la quale richiede anche un decoro diciamo estetico. Vorrei fare solo tre esempi, uno nel campo religioso, e due nel campo civile o istituzionale: Carlo Maria Martini, Mario Draghi e Sergio Mattarella.
Ma vorrei essere ancora più drastico.
Quando parla o dialoga Delpini, non mi sento in empatia, anche se quello che dice fosse buono o anche meno accettabile. Così questo papa, che, forse ancor più scadente, mi irrita quando dice cose a braccio, si intrattiene con la gente.
E non è questione di ieraticità: Dionigi Tettamanzi lo chiamavano, anche da cardinale, un “buon curato di campagna”, ma non in senso spregiativo. Non è mai stato volgare nel parlare o nel gesticolare, come invece lo sono Delpini e Bergoglio.
Si possono anche raccontare barzellette, fare battute spiritose, ma sempre con intelligenza, con un certo spirito, dicevano una volta, senza scendere sul piano della volgarità o usando un’ironia fuori posto, o scherzando su cose che meriterebbero una maggiore attenzione e rispetto delle persone a cui ci si rivolge. Non parliamo poi quando si raccontano barzellette alla berlusconi, come Delpini, che, senza rispettare la sacralità del Duomo, si permette di irridere questo o quello.
E poi ci vuole intelligenza, una fine intelligenza, nel rispondere ad esempio alle domande di un giornalista. Questo papa crea problemi quando parla a braccio. È di una banalità concertante, o meglio, forse perché parla in italiano, e allora fa fatica a dire ciò che deve dire. Ma le sciocchezze restano sciocchezze anche se si dicono in un’ottima lingua.
Ecco, ciò che vorrei dire è che certi ruoli esigono decenza, autorevolezza, competenza, compostezza, senza assumere come fa questo papa certe facce da truce.
Sì, certi ruoli istituzionali esigono decenza, che non è distacco dalla gente, ma, al contrario, quel suscitare nella gente una maggiore attenzione, soprattutto oggi in cui il mondo politico ha raggiunto livelli più alti di oscenità in tutto.
Se il tal papa o il tal vescovo sa di avere limiti, anche se sono convinto che ci si educa alle buone maniere (una volta c’erano scuole con queste finalità), deve cercare di trovare il modo di limitare i danni: non rilasciare interviste a braccio, ecc. È vero che la gente guarda alla sostanza, al contenuto, ma anche certi regali meritano una certa confezione.
E la Parola di Dio non è il più bel regalo da consegnare alla gente nel migliore dei modi? Anche Gesù si arrabbiava, sempre però con autorevolezza.
In fondo, mi piace di più un don Lorenzo Milani duro e schietto, talora irascibile, con certi modi di fare non politicamente o religiosamente corretti, piuttosto che educatori accattivanti e buoni per ogni stagione. Oggi, dopo tanti anni, i professori che ricordo con piacere sono quelli che ci insegnavano con autorevolezza, anche troppa, incutendo in noi scolari qualche timore.
Ognuno poi ha il suo stile, il suo carattere, il suo modo di fare, ma la gente capisce se dietro c’è una sostanza e una credibilità.
Delpini lo rifiuto in tutto, così questo papa, proprio perché non mi ispirano fiducia, tanto più che hanno un pubblico, quando ce l’hanno, perché quasi svanito nel nulla, che merita sempre rispetto, e non dire: “Non so che dire…”.
Aspetto dalla gerarchia della Chiesa maggiore credibilità, che è autorevolezza che proviene dal profondo del proprio essere. Se uno fa la trottola, perché sempre in giro, non ha nemmeno il tempo di assaporare qualche meraviglia divina.
Da ultimo, forse anticamente ogni missione era vista a tempo indeterminato, fino alla croce, anche perché i tempi erano diversi, e la gente accettava che il suo prete restasse nel paese, anche immobile, su un letto in attesa dell’ultimo respiro, sempre donato per la sua gente.
Oggi i preti, vescovi e papa, hanno perso ogni cognizione del “kairòs”, che è l’Eterno presente. Devono dire tutto, anche in malo modo, fare e strafare, presenti in ogni ricorrenza, quasi indispensabili distributori di qualcosa, in parole o in gesti, che hanno perso ogni significato. E per non farsi consumare dai ritmi di una società impazzita, bisogna avere l’umiltà anche di servire il regno di Dio, ritirandosi in un eremo. E noi dire stupidamente: “È volere di Dio che rimanga al mio posto!”, anche quando il mondo ti sta crollando addosso. Il volere di Dio non è la caparbietà boriosa di non mollare il posto o il ruolo. Il volere di Dio non è legato a nessuno dei suoi servi, che, in quanto servi, devono capire quando è giunto il momento di lasciare il posto a qualche altro servitore.
01/02/2025
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