Omelie 2018 di don Giorgio: FESTA DI TUTTI I SANTI

1 novembre 2018: TUTTI I SANTI
Ap 7,2-4.9-14; Rm 8,28-39; Mt 5,1-12a
Quanti e chi sono?
Oggi, in tutta la Chiesa cattolica, si celebra la Festività di tutti i Santi.
Quanti siano, nessuno lo sa. Nel primo brano, tolto dal libro dell’Apocalisse, troviamo scritto: “… apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… “.
Chi siano, anche questo non lo  sappiamo, ma per il fatto che il numero sia incalcolabile e che i santi provengano, come scrive ancora l’autore dell’Apocalisse, ”da ogni nazione, razza, popolo e lingua”, questo ci porta a pensare che i santi possano essere ovunque, anche tra i nostri cari, anche in casa nostra, ovvero tra la gente più comune.
Già tutto questo, ovvero il fatto che si tratti di una immensa moltitudine che è presente in ogni angolo dell’umanità e il fatto che la santità non sia classificabile o una prerogativa delle persone più eccezionali, è in pratica una contestazione della canonizzazione ecclesiastica, secondo cui una persona viene dichiarata ufficialmente beata o santa, se ha osservato durante la sua esistenza, quasi in modo palesemente eroico, certe virtù canoniche, ovvero le virtù stabilite tali dalla stessa Chiesa ufficiale.
Sì, la festa di oggi è come, paradossalmente, una rivincita del criterio di Dio sul criterio ecclesiastico. E già il fatto che la gerarchia ufficiale canonizzi solo i credenti all’interno della Chiesa cattolica è una riduzione della paternità universale di Dio.
Oggi, dunque, è la festa di tutti i santi, ovvero di coloro che hanno seguito, ciascuno su una delle infinite strade del Mistero divino, quelle indicazioni o stimolazioni di libertà, che trovano la loro sorgente nel fondo più fondo del proprio essere interiore.
Se potessimo, anche solo per un attimo, rientrare dentro di noi, nel nostro essere più spoglio di ogni condizionamento esteriore, ci scopriremmo compagni di viaggio di una moltitudine universale di altri spiriti in cammino verso l’Eterno: spiriti proveniente da ogni parte del mondo, di ogni razza, di ogni cultura e ogni credenza religiosa.
Felicità e beatitudine
Il Vangelo di oggi presenta, nella versione di Matteo, la famosissima pagina delle “beatitudini”. Per cogliere il senso più profondo delle parole di Gesù, occorre anzitutto spiegare il senso della parola “beatitudine”. Ovvero: Gesù che cosa intendeva dire con la parola “beato”?
Certamente, Gesù non parlava in greco, ma in aramaico. Ma i Vangeli ci sono stati tramandati nella versione greca. In greco, c’è la parola “makàrios”, tradotta in italiano con “beato”. Già interessante sapere che “makàrios” richiama il greco “makròs”, che significa “grande”, poi spiegheremo in che senso questo aggettivo vada inteso. Dunque, il Discorso della Montagna inizia con “makàrioi”, ovvero “beati”.
Qualche riflessione.
La beatitudine è una parola che sembra scomparsa dal nostro linguaggio quotidiano, e sostituita con altre parole, ma con significati del tutto diversi.
Eppure, presso gli antichi, la beatitudine era la condizione privilegiata dello spirito, liberatosi dell’ego, mediante la rinuncia a se stessi e il distacco da ogni condizionamento.
Lo spirito oggi è scomparso dalla classica antropologia, risalente agli antichi filosofi e allo stesso San Paolo, secondo cui l’essere umano è composto: a) di corpo: la parte più esteriore; b) di anima: la parte diciamo intermedia; c) di spirito: la parte più profonda, più interiore dell’essere umano.
Oggi si preferisce parlare di piacere (che concerne il corpo) e di felicità (che concerne l’anima o la psiche), ma nessuno parla di beatitudine, perché lo spirito è scomparso dalla considerazione della mentalità odierna. Anche la psicanalisi ne fa a meno.
Eppure, lo spirito è la parte più interiore dell’essere umano, perciò è la realtà essenziale, e la beatitudine è lo stato spirituale del vero ben-essere, ed è soltanto con la morte dell’anima come “psiche” che la beatitudine si può raggiungere. L’ha detto Gesù Cristo: “Chi ama la propria vita (in greco, psiche), la perde e chi odia la propria vita (psiche) in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25).
Si possono avere, anche se solo per un tempo determinato, perciò in modo provvisorio, il piacere legato al corpo e la felicità legata all’anima, ma la beatitudine non è qualcosa che si ha o si prova come una gioia legata ai sensi o di natura psicologica.
Dicono i grandi Mistici: la beatitudine riguarda l’essere; non si ha beatitudine, ma si “è” beatitudine.
Del resto, Matteo, a differenza di Luca, che è più radicale, spiritualizza le beatitudini. Evidenzia: “beati i poveri in spirito”.
La nobiltà dell’essere umano
Prima dicevo che il termine greco “makarios” (beato) richiama “makròs”, che significa “grande”. Ma come intendere “grande”? Non si tratta di qualcosa di eccezionale visto dall’esterno: ecco perché certe canonizzazioni canoniche si sono allontanate dal criterio di Dio di valutare la santità. Il grande mistico medievale Meister Eckhart parlava di “uomo nobile”, ma nel suo essere interiore. L’uomo è nobile quando scopre dentro di sé il mondo del Divino, e gli fa spazio, più spazio possibile.
La grandezza, dunque, non sta nella eccezionalità di un agire esteriore, ma nella spogliazione interiore, per cui Dio può agire nel profondo del nostro essere.
Spiegata la parola “beato”, credo che ora sia più facile leggere e intendere nel senso giusto le parole di Gesù, che introducono il famoso Discorso della Montagna.
Come vedete, forse dovremmo usare un altro occhio per leggere non solo il Vangelo, ma l’intera Bibbia, o la Parola di Dio. Oggi, abituati come siamo a stare all’esterno, usando gli occhi fisici o solo di una mente superficiale, ci siamo paurosamente allontanati dalla realtà divina, che agisce anzitutto all’interno del nostro essere, per poi “spiritualizzare” anche il nostro agire.

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