2 ottobre 2022: QUINTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 56,1-7; Rm 15,2-7; Lc 6,27-38
I tre brani appena letti sono così ricchi di spunti di riflessioni che richiederebbero ben oltre il tempo limitato di una omelia.
In ogni caso, pensiamo al terzo brano, le parole di Gesù non richiederebbero delle spiegazioni tanto sono immediate. Già i primi quattro verbi sono come una sintesi del messaggio evangelico: amare, fare del bene, benedire e pregare. Seguono alcuni esempi pratici e poi la cosiddetta “regola d’oro”: «Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro».
Forse una cosa andrebbe evidenziata: ci aiuta don Angelo Casati, quando scrive: «Il Vangelo di oggi ci chiede di mostrare un’altra faccia della vita. Che è la gratuità, la dismisura, la sovrabbondanza. Che è la faccia di Dio. Per questo Gesù racconta la faccia di Dio, perché ci lasciamo sedurre dalla sua gratuità… Se no, dice Gesù, che gratuità avete e come potete dire di essere figli di Dio? Che cosa fate in più dei pagani? Mostrate una faccia diversa… La faccia che crea una vita buona sulla terra».
Don Angelo parla di gratuità, di dismisura, di sovrabbondanza. Specifichiamo. Già gli antichi filosofi greci parlavano di Dio come Misura e non dismisura, parola che inizia con la paroletta dis- che ha senso negativo. Dio è la Misura, noi siamo la dismisura, ovvero gente che riduce o distorce la misura divina che è infinita. Noi credenti dovremmo confrontarci con la Misura divina, e capiremmo quanto ne siamo lontani.
Inoltre, dire “faccia di Dio” è un modo antropomorfico, ovvero applichiamo a Dio il nostro modo umano di parlare, ovvero il nostro linguaggio.
Dio, è chiaro, essendo purissimo Spirito, non ha una faccia o un volto, tuttavia Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio incarnato, era la manifestazione anche visibile del Padre.
Comunque, dire faccia di Dio è un modo linguistico che esprime bene l’idea di qualcosa che riguarda quella realtà interiore, che anche noi mortali manifestiamo nel nostro modo di essere e di fare. Il nostro volto fa capire tante cose, e rivela ciò che siamo anche dentro. Il nostro volto anche fisico dice tutto. Talora si ha paura a guardarci in faccia perché temiamo l’altro.
In ogni caso, in gioco c’è la gratuità, che esprime tutto il nostro essere e il nostro agire. È la gratuità che dà bellezza al nostro vivere anche sociale: nei rapporti con gli altri, così oggi deteriorati da una bruttezza sempre più insopportabile.
La gratuità non fa parte del mondo economico e neppure del nostro modo di relazionarci, che richiede quasi per legge quel dare per avere, quell’interesse reciproco che sembra la norma di un convivere non tra fratelli o amici, ma tra membri di una società finanziaria.
Gesù ci invita ad andare oltre, sempre oltre usanze o abitudini o sistemi sociali, per cui neppure il buon senso basta, se vogliamo essere figli dello stesso Dio.
E pensare che oggi sembra già tanto essere altruisti, fare qualche opera pia, dare una elemosina, ma Gesù non si accontenta, e neppure i suoi credenti dovrebbero accontentarsi, anche se fanno paura le parole di Cristo: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro». Secondo l’evangelista Matteo Gesù è ancor più esigente: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Nel secondo brano c’è un verbo che vorrei chiarire, quando San Paolo invita: «Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio».
Il verbo “accogliere” è diventato uso comune anche nel campo politico, e perciò si parla di accoglienza o di non accoglienza. Che significa in realtà il verbo “accogliere”?
Anche qui si usano parole senza carpirne il loro significato. Perciò specifichiamo il senso originario del verbo “accogliere”.
“Accogliere” e “raccogliere” sono verbi composti da un prefisso apposto a cogliere, dal latino “colligere”, a sua volta formato da “cum” e “legere”, cioè “legare insieme”.
Il significato originario di “colligere” è dunque eminentemente pratico, di radunare, mettere insieme, restringere in minor spazio ad esempio erbe, fiori o frutti, le messi, i denari, le persone, ecc.
Mentre la particella “re” preposta al verbo “accogliere” precisa solo la ripetizione dell’azione a indicare che non si tratta di un gesto momentaneo, ma continuo, la particella a- di accogliere, implica la vicinanza, il movimento verso di sé, in una relazione non tanto fisica quanto affettiva, andando poi oltre e perciò coinvolgendo il proprio essere interiore.
Possiamo quindi dire che al verbo a-cogliere sia possibile dare il significato di cogliere – nel senso di prendere – e “portare verso di sé”, in altre parole prendere con sé. Significa, pertanto, ricevere qualcuno con dimostrazione di affetto; per logica estensione significa accettarlo, approvarlo, acconsentirgli; in una parola: ascoltarlo, cioè, usare quello che fra i cinque sensi ci mette in relazione profonda con l’altro.
Qualcuno dice che non basta “vedere” l’altro, ma bisogno ascoltarlo. Ma si ascolta, quando si vede. Vorrei qui ricordare quanto nei Vangeli sia importante il verbo “vedere”. Ricordiamo l’incontro di Gesù con il cieco nato. Gesù lo “vede”, ovvero vede in lui il suo caso di bisogno. Quante volte le persone avevano visto quel cieco, ma nessuno si era fermato. Così il buon samaritano che vede il malcapitato e si ferma, a differenza del levita e del sacerdote che lo vedono, ma se ne vanno per la loro strada.
Dunque, c’è un nesso profondo, direi inscindibile tra il vedere, l’ascolto e l’accoglienza.
C’è di più. Accogliere significa anche “accorciare le distanze”, mettere a proprio agio, dare pari dignità e riconoscere i propri diritti a chi ti sta davanti, significa cioè porsi in atteggiamento empatico, entrare in una relazione fraterna.
L’accoglienza però non va confusa con l’ospitalità, che è piuttosto la messa a disposizione per benevolenza di vitto e alloggio allo straniero o al pellegrino. Si può infatti essere ospitali, ma non veramente accoglienti e si può essere accoglienti anche se non si dispone di un alloggio “ospitale”.
Come ultima riflessione: per accogliere veramente occorre non avere paura della diversità – dell’altro da sé – e cercare di vedere in essa l’opportunità che la Provvidenza ci manda per permetterci di migliorare noi stessi.
Interessante questo aspetto. Si crede di fare del bene, e ci si dimentica del bene che riceviamo, accogliendo l’altro, magari povero di cose, ma ricco di una forte spiritualità.
Il bene ha una caratteristica particolare: è reciproco, è circolare. Io ti do una cosa, e tu puoi darmi qualcosa di più profondo. Tutto naturalmente avviene nel circolo divino.
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