3 aprile 2016: Seconda di Pasqua
At 4,8-24; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
“Dies domini”
Il Vangelo di oggi inizia così: «La sera di quel giorno, il primo della settimana». Per gli ebrei, e per gli evangelisti, era il giorno dopo il sabato, che successivamente verrà chiamato “dies domini”, da qui il nome “domenica”, espressione che troviamo per la prima volta nel libro dell’Apocalisse (1,10). È importante sottolinearlo, dal momento che oggi, anche noi cristiani, diciamo che il primo giorno della settimana è il lunedì, mentre la domenica sarebbe la conclusione della settimana, togliendo così al “dies domini”, memoria della Risurrezione, la sua ragion d’essere, ovvero come l’inizio di quella rinascita che è l’essenza del cristianesimo o dell’Umanità redenta da Cristo.
La settimana, dunque, per noi credenti inizia con la domenica. Ma è proprio così? Lascio la domanda in sospeso. Vorrei invece, per evitare di cadere nelle solite lamentele, elevare le riflessioni, anche rischiando di dire cose al di fuori di una lettura scontata o canonica dei Vangeli nei loro racconti sulle apparizioni del Cristo risorto.
Il racconto frammentario delle apparizioni del Risorto
Diciamo subito che, secondo gli esegeti più aperti, gli stessi evangelisti sembrerebbero in difficoltà, quasi impotenti di mettere un certo ordine alle apparizioni del Risorto. Ogni evangelista narra particolari che non si armonizzano tra di loro, per i tempi, per il numero, ecc. Eppure, anche se ciascuno a modo suo, gli apostoli sono stati testimoni diretti o indiretti di ciò è successo, già da quel primo giorno della settimana.
E a complicare le cose ci hanno pensato pure le donne che, dopo aver assistito in diretta alla morte tragica del loro Maestro (appartenevano al gruppo che aveva accompagnato Gesù nel suo ministero pubblico), sono state anche le prime testimoni della tomba vuota. In particolare una, Maria di Magdala, ha sorpreso gli apostoli, quasi umiliandoli, dicendo loro di aver visto e di aver parlato con il Signore Risorto. Subito, di corsa, Pietro e Giovanni, quasi risentiti, vanno al sepolcro, e non vedono nulla se non le bende afflosciate, l’unico segno che li ha lasciati sconvolti.
Proprio qui le narrazioni degli evangelisti iniziano a complicarsi, creando seri problemi di concordanza. Ma il problema non è questo: è invece l’apparizione in sé del Risorto che non convince, e non convince se viene presa come una reale manifestazione visibile del Risorto.
Come intendere le apparizioni del Risorto
Già l’ho detto, ma conviene insistere: il Cristo Risorto non è il Cristo morto che, il terzo giorno, torna in vita, così come ad esempio è stato per Lazzaro. Certo, gli evangelisti parlano di apparizioni del Risorto, ma, se non vogliamo cadere di nuovo nel ridicolo, dobbiamo leggerle con un occhio diverso dall’occhio curioso di chi vorrebbe conoscere quante trasformazioni Cristo ha saputo inventare. Quasi come un mago.
Come i Vangeli dell’infanzia di Gesù, soprattutto i Vangeli delle apparizioni non vanno presi alla lettera: qui il Mistero si fa ancora più fitto o, meglio, esige quell’occhio mistico che va al di là di qualsiasi cronaca.
E allora dobbiamo avere il coraggio di dire che il Cristo risorto non è il Cristo storico risuscitato. La Novità della Risurrezione sta proprio qui: è un passaggio, come ho già anticipato domenica scorsa, da una realtà esistenziale (il Cristo storico) a una realtà mistica (il Cristo della fede o lo Spirito del Cristo storico).
Il Cristo storico è morto sulla croce, ma, mentre muore, dona lo Spirito (“consegnò lo spirito”, scrive Giovanni), che è l’anticipazione della Risurrezione. Ecco perché sempre Giovanni presenta la morte di Cristo nella luce: come l’Ora in cui il Figlio di Dio viene glorificato.
Qualcuno potrebbe obiettare: “Dove è finito il cadavere di Cristo? Tutti gli evangelisti parlano di tomba vuota!”. Non entro in questa discussione, anche perché non saprei cosa rispondere. Ma forse una risposta ci sarebbe. Gli Apostoli dovevano compiere un cammino di fede prima di arrivare a interiorizzare il Mistero del Cristo risorto. Il cammino sarà lungo e tortuoso, nonostante la presenza dello Spirito che farà la sua parte, ma senza togliere la parte di responsabilità della Chiesa nascente.
E la Chiesa come testimonia il Cristo della fede?
Ma almeno si sperava che, prima o poi, la Chiesa decollasse, e invece è sembrato, almeno agli spiriti liberi, che il suo cammino si contorcesse così tanto da rendere vano ogni tentativo dei giusti di rimetterlo sulla strada maestra del Vangelo. Ma non vorrei allargare il discorso alle malefatte della Chiesa-istituzione. Vorrei rimanere nel tema del Cristo della fede. Già il fatto che il Cristianesimo sia diventato una religione fa capire quanto noi credenti siamo ancora attaccati ai segni esteriori, talora infantili, che non rivelano certo il Divino che è in noi. La Chiesa si è costruita, fin dagli inizi, una struttura dottrinale e morale con cui ha preteso di esteriorizzare il Cristo della fede attraverso una prova di forza o di potere, che ha sostituito lo Spirito, e nello stesso tempo ha schiavizzato i credenti lasciando loro un mondo di superstizioni o di illusioni, che ogni potere sa sfruttare bene al proprio fine.
L’incredulità di Tommaso
Passiamo all’episodio di Tommaso. Possiamo anche comprendere le incertezze e le titubanze degli apostoli, che continuarono a lungo nei quaranta giorni tra la Pasqua e l’Ascensione, ma chissà perché poi condanniamo con estrema faciloneria l’incredulità dell’apostolo Tommaso, dimenticando le parole di Cristo: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto». Cristo, dunque, fin da subito ci ha indicato la strada della vera beatitudine, ma noi cristiani non l’abbiamo mai presa sul serio, comportandoci esattamente come se essere beati significasse essere baciati dai miracoli, vivere di segni esteriori, di formali credenze religiose.
Dire miracolismo è dire sensazionalismo, ovvero quel mondo di “mirabilia”, cose strepitose che riguardano i sensi, le devozioni, i riti, l’apparato sacramentario, insomma quei mezzi portentosi o magici o di consenso su cui la Chiesa-istituzione si è sempre appoggiata trasformando i suoi seguaci in una massa di creduloni. Il Cristo della fede è tutt’altra cosa. “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!», oppure, per il nostro presente: “beati quelli che credono senza vedere”. L’occhio della fede è un altro: richiede interiorità, ovvero scendere in quel profondo del nostro essere, là dove si vede il fondo dell’anima.
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