Omelie 2017 di don Giorgio: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

3 settembre 2017: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 65,13-19; Ef 5,6-14; Lc 9,7-11
Brani talora difficili, proprio per questo da rileggere ed approfondire
I brani che la Liturgia ci presenta da leggere e da meditare non tutti sono di immediata comprensione, soprattutto i primi due. Lo so che basta una sola parola a suscitare in noi qualche divina ispirazione. Ma talora sentiamo il desiderio e anche il bisogno di capire di più, soprattutto quando abbiamo la sensazione che il brano possa offrirci qualche lampo più prolungato.
Quando preparo le omelie festive, la mia prima preoccupazione di fronte ai brani da commentare consiste nel cogliere nelle parole del profeta o di San Paolo o dello stesso Cristo qualcosa di nuovo, da aggiungere al cammino di ricerca, che non si accontenta mai, ma che vorrebbe, magari in modo anche azzardato, cogliere o per lo meno intuire qualcosa del Mistero che è il Divino in noi, da comunicare anche ai fedeli presenti durante la Messa.
L’atteggiamento “superficiale” di Erode Antipa
L’atteggiamento da assumere di fronte alla verità di Dio non è certamente quello di Erode Antipa, incuriosito solo perché sente parlare di un certo Gesù di Nazaret che faceva cose strepitose, come un mago con poteri eccezionali. C’era chi pensava che Gesù fosse il Battista redivivo, ma come poteva se proprio lui, Erode, l’aveva fatto ammazzare sotto i suoi occhi? E così, dice Luca, “cercava di vederlo”. E, al penultimo capitolo del suo Vangelo, parlando del processo sommario fatto a Gesù, Luca scrive: «Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo, infatti, desiderava vederlo per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da Lui» (23,8). Ecco: “sperava di vedere qualche miracolo”.
Sta qui lo sbaglio di ogni nostra ricerca della verità: vedere qualcosa di strepitoso, ovvero di superficiale, se per superficialità intendiamo tutto ciò che rimane in superficie, ovvero fuori della nostra realtà interiore. Erode “aspettava di vedere qualche miracolo”. E noi speriamo di vedere che la parola di Dio produca qualche effetto immediato, ma nel campo delle sensazioni, direbbero i Mistici, e non nella realtà interiore del nostro essere, là dove regna lo Spirito, e lo Spirito agisce da spirito, e non da mago o da giocoliere, e neppure da imbonitore che promette cose e cose, al fine di imbrogliare la gente allocca.
E qual è stata la risposta di Gesù di fronte a Erode, corrotto e curioso, che improvvisò tante domande di chissà quale genere? Luca annota: Gesù «non rispose nulla». Certi silenzi fanno più male di mille risposte dure e violente.
Gesù non risponde: perché?
Proviamo a chiederci perché Gesù talora non risponde alle nostre domande. Non è perché le nostre domande nascano da curiosità fuori posto o da pretese “superficiali”?  Non dico che siamo corrotti come Erode, ma il problema non sta qui: il potere ha la sua corruzione in quanto potere, e il potere per chi ce l’ha ingigantisce la voglia di commettere soprusi, ma noi, gente comune, forse siamo più disonesti in quanto a desideri: facciamo poco male, perché non possiamo farne di più.
E la gravità delle nostre richieste al Signore sta proprio qui: nell’ingigantire desideri e voglie di un potere che da piccolo diventi più grande. Ma, a parte questo, che è un discorso complesso e anche pericoloso da fare, il problema è sempre lo stesso: la nostra superficialità, ovvero quel voler restare fuori di noi, in un campo estraneo al nostro essere, per cui, da alieni, pretendiamo di rivolgerci a Dio come se anche lui fosse un alieno.Ma Dio dov’è? Fuori di noi? O non è dentro di noi?
Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra
All’inizio, parlavo di brani difficili da capire immediatamente. Così mi è parso leggendo il primo, tolto dal libro di Isaia o, meglio, dal cosiddetto terzo Isaia. Vale sempre la pena di ripetere: il primo Isaia è la prima parte del libro (capitoli 1-39), attribuita al profeta di nome Isaia, vissuto nell’VIII sec. a.C., mentre la seconda parte, che va dal 40 al 55 capitolo, è attribuito a un anonimo profeta, vissuto tra il VI e il V sec. a.C., dopo il ritorno degli Ebrei da Babilonia, e il terzo Isaia, che va dal capitolo 56 fino alla fine, è attribuito ad un altro profeta anonimo, vissuto durante la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e negli anni successivi, dal 520 a.C. in avanti). Dunque, il capitolo 66, da cui è stato tratto il brano di oggi, fa parte del terzo Isaia. Così possiamo capire il contesto storico del brano. E adesso ci chiediamo: di che cosa parla l’anonimo profeta di Dio? O, meglio: il profeta, in nome di Dio, a chi si rivolge?
Per capire il brano, bisogna inquadrarlo nell’epoca del profeta, e anche nel contesto letterario. Sul contesto storico, ho già detto qualcosa: siamo nel periodo del dopo ritorno dall’esilio babilonese. Passati i primi entusiasmi, c’è chi si allontana di nuovo dall’Alleanza. Il Signore, tramite il profeta, parla agli ebrei, e non a dei pagani. Ed è agli ebrei che si sono allontanati che arrivano le maledizioni divine, mentre il Signore promette ai fedeli, forse un piccolo resto, nuovi cieli e nuova terra, un’espressione che diventerà poi famosa a indicare un nuovo orizzonte luminoso, che però rimarrà sempre sullo sfondo di promessa, anche se gli ebrei applicheranno solo per loro tale promessa, come se dalla città di Gerusalemme in senso geografico dovesse partire tale rinnovamento, e anche se poi la Chiesa farà lo stesso, come se da Roma dovesse partire il rinnovamento del mondo. Entrambi, ebrei e cristiani, dimenticheranno che il Signore, tramite il profeta, parlava ai credenti, minacciando i ribelli e promettendo gioia e benessere a quanti resteranno a lui fedeli.
Se Carlo Maria Martini diceva che il mondo va difesa tra pensanti e non pensanti, forse la distinzione andrebbe maggiormente chiarita: il vero pensiero, che è l’intelletto puro, come dicevano gli antichi filosofi greci, va al di là di ogni religione, perché in gioco è l’essere umano, il quale è al di fuori di ogni credenza, ma, anche all’interno della religione, ciò che indispensabile è coltivare quell’intelletto, scintilla divina, che è dentro di noi, che ci permette di scoprire il nostro ricco mondo interiore.
I pensanti non sono coloro che usano il cervello a modo loro, e sarebbe già qualcosa, ma coloro che usano l’intelletto attivo, come direbbe Aristotele, quello cioè orientato al Divino, e non l’intelletto passivo, ovvero quello condizionato dalle cose umane. Solo l’intelletto attivo, orientato al Divino che è purissimo Spirito, ci rende liberi.

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