Omelie 2023 di don Giorgio: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

3 settembre 2023: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DÌ S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 65,13-19; Ef 5,6-14; Lc 9,7-11
Vi è una nota dominante nei tre brani della Messa, ed è la contrapposizione. Nel primo brano, troviamo la contrapposizione tra i fedeli a Dio e i suoi ribelli; nel secondo la contrapposizione tra la luce e le tenebre; nel terzo la contrapposizione tra Cristo e Erode.
Già una riflessione: la contrapposizione, che è poi tra il bene e il male, o meglio: tra gli autori del bene e gli autori del male, sembra far parte costituzionalmente di una società che, finché ci sarà questa umanità, non sarà mai in pace interiore, in armonia profonda, ma in una perenne tensione più o meno drammatica: ci sono momenti di pace apparente (anche la cosiddetta guerra fredda è una pace apparente), e ci sono periodi, come quello attuale, in cui la perversione diabolica sembra prevalere.
Non illudiamoci: la pace definitiva, ovvero realizzata in pieno, ci sarà solo quanto Dio metterà fine a questo mondo. Il IV Vangelo è presentato da Giovanni come un ininterrotto processo a Gesù Cristo, che sarà messo su una Croce, ma Cristo, proprio sulla Croce, ci donerà lo Spirito di Vita. Ma il processo continua tra i giusti e gli ingiusti.
Certo, il problema c’è, ed è da che parte stiamo: dalla parte della giustizia o dalla parte della perversione diabolica? A dirla così, sembra che la contrapposizione sia radicale, da una parte i perfetti e dall’altra gli imperfetti. No, non è così: la contrapposizione è tra chi cerca di essere giusto e chi fa di tutto per dominare traviando gli esseri umani.
Certi limiti dell’essere umano si possono anche comprendere: siamo fragili, e perciò soggetti a sbagliare. Ma non si comprende quando si arriva a tale violenza di potere da togliere all’essere umano il suo sacrosanto di diritto a vivere in pace.
Ma vorrei dire di più. Credo che il potere dominante non sia frutto solo di un dittatore criminale, che così di punto in bianco salta sulla scena per recitare la parte del protagonista di un dramma, di cui lui stesso fa il regista indiscusso: ogni dittatore è il frutto di una società marcia in sé, di un popolo alla deriva, di una massa che crea il peggio del peggio svuotando l’essere, che poi viene riempito da una falso salvatore.
E questo, perché il popolo o la massa è una bestia che vive di carnalità, e che perciò cerca un imbonitore, uno che promette, togliendo però la sua testa.
Soffermiamoci sul primo brano: Siamo nel periodo del post-esilio, il tempo del ritorno del popolo ebraico in patria dopo la deportazione a Babilonia (siamo tra il VI e il V a.C). Gli ebrei esiliati, solo in parte, hanno accettato di tornare nella loro patria, anche pieni di sogni di grandezza, coltivati con amore durante la dura realtà dell’esilio. Ma questi sogni dureranno poco, la lezione di Dio sarà servita a ben poco.
Il capitolo precedente (64) richiama una bella lamentazione del popolo esiliato che sale a Dio come supplica, ricca di fede e carica di immagini che manifestano la coscienza della propria impurità, desolazione, umiliazione. Ma chi prega, a nome del popolo, ha una grande fiducia nel Signore. Vede povertà e deserto attorno, eppure sa di poter contare sulla promessa del Signore.
E il Signore garantisce, nel testo che leggiamo oggi, che interverrà per aiutare i giusti.
Ci sono quattro contrapposizioni sulla sorte dei fedeli e dei ribelli, a cui segue la sentenza definitiva dei rispettivi destini. Le quattro contrapposizioni, “sulla fame, sulla sete, sulla gioia del successo e sulla contentezza del cuore”, iniziano tutte con: “Ecco i miei servi”. Nel versetto 15 c’è il richiamo al destino definitivo che suonerà come imprecazione di morte contro i malvagi: nessuno più li ricorderà se non per lanciare contro di loro delle maledizioni.
E oggi a che cosa assistiamo? Si ricordano i malvagi, i farabutti, i ladri, i criminali, dedicando loro monumenti o vie di qualche paese o città, a perenne memoria: memoria di che cosa? Almeno si mettesse una etichetta con questa scritta: “Costui è stato un farabutto”.
Torniamo al brano di Isaia: ai servi del Signore, invece, è promesso un nome diverso nel quale si esprimerà l’inizio della nuova era, caratterizzata dalla salvezza di Dio.
Il nome di Dio garantirà la benedizione, l’accordo è pieno, la fedeltà della parola sarà senza ambiguità, il ricordo di una vita di paure e di dolori sarà dimenticato, diventando solo memoria di benedizione. “Si invocherà la benedizione del Signore e si giurerà nel nome del Dio fedele”. La promessa della salvezza futura si compirà. Ed ecco la domanda: Quando ciò succederà?
E il profeta continua: il mondo, trasformato e rinnovato dalla forza del Signore, acquisterà lineamenti cosmici di splendore impensabili (“nuovi cieli e nuova terra”).
Questo linguaggio è presente in Geremia (31,31-34), prosegue con Ezechiele (36,24-28). Un ritornello per ricordare le promesse di Dio, che tuttora rimangono ancora promesse.
È la visione di un tempo di rinnovamento e di novità totale che si annuncia al futuro per porre fine a questo mondo di sofferenza e di male.
Non a caso, nell’Apocalisse di Giovanni (Ap 21,1), si richiama lo splendido profilo di Gerusalemme «come la sposa adorna per il suo sposo nel cielo nuovo e nella terra nuova».
E il testo è anche fatto proprio da Pietro (2 Pt 3,13), e da Paolo (Rom 8,19-23). I “cieli nuovi e terra nuova” sono la svolta radicale nella storia. Il futuro si apre nella speranza: il Signore non farà mancare le sue promesse e manterrà il ben-essere promesso.
È molto interessante anche l’esemplificazione che segue al testo di oggi: cesserà la mortalità infantile: “Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni” (v 20) e gli anziani raggiungeranno e supereranno i cento anni di vita, ottenendo così la pienezza dell’esistenza.
Mentre leggiamo queste promesse, abbiamo davanti agli occhi il dramma di guerre atroci, di innocenti che muoiono. Sempre atrocità, violenze, che ogni giorno leggiamo sui giornali. Almeno una speranza teniamocela cara: le promesse prima o poi Dio le manterrà, nel frattempo non demordiamo, non scoraggiamoci nel dire ai dominatori di questo mondo: anche per te arriverà la morte, e scomparirai.
È triste vivere in una società rassegnata al peggio: è triste vivere in una chiesa che sa parlare bene e poi razzola male; è triste vivere in una società civile – siamo credenti e siamo cittadini – che è governata da impotenti, incapaci, farabutti, delinquenti.
Certo, non basta alzare la voce, la protesta, far valere i diritti dei deboli. C’è un tale vuoto da scoraggiare anche i giusti. Ma non bisogna demordere. Bisogna tirar fuori dal nostro essere interiore il meglio da contrapporre al peggio, anche se il peggio sembra diventato la normalità di credenti e di cittadini, che si sono omologati all’andazzo generale.

1 Commento

  1. Simone ha detto:

    Caro don Giorgio,
    nelle ultime righe ha riassunto magistralmente il male che mi porto dentro.
    Se anche i giusti perdessero la loro rettitudine? Se anche la Chiesa, che per me è stata sempre maestra, esempio e guida, perdesse la via?
    È proprio vero bisogna tirar fuori dal nostro essere interiore, attingere dal pozzo, per trovare forza e coraggio per affrontare inquietudini e smarrimento di questo tempo.
    Grazie e buona domenica.

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