Omelie 2013 di don Giorgio: Sesta domenica di Pasqua

5 maggio 2013: Sesta di Pasqua

At 21,40b-22,22; Eb 7,17-26; Gv 16,12-22

Il brano, tolto dal libro “Atti degli Apostoli”, riporta il primo dei tre discorsi pronunciati da Paolo in propria difesa. Era stato arrestato dal tribuno romano, Claudio Lisia, per proteggerlo dalla folla, messa in subbuglio da alcuni ebrei inferociti provenienti dall’Asia Minore, con l’intento di eliminarlo. Il tribuno, dunque, fa scortare l’apostolo per portarlo sano e salvo in prigione. Paolo vuole chiarire subito al tribuno la sua vera identità, e, giunto in cima alla scala della fortezza Antonia, chiede di poter parlare alla folla. Ecco il brano della Messa.
Paolo racconta la sua storia: è un ebreo, educato nella più stretta osservanza della legge dei padri, ha perseguitato i cristiani (“Io perseguitai a morte questa Via”), “incatenando e mettendo in carcere uomini e donne”. Poi parla dell’intervento celeste che l’ha convertito alla fede in quel Gesù, nel quale ha riconosciuto il Messia inviato da Dio. E per ubbidire a un ordine ben preciso di Cristo, egli afferma di essersi dedicato anche alla evangelizzazione dei gentili.
Vorrei subito farvi notare come Paolo chiama il cristianesimo: la Via. Le traduzioni precedenti parlavano di “nuova dottrina”. Niente di più errato. Il termine “Via” per indicare il cristianesimo lo troviamo per la prima volta al capitolo 9 degli “Atti”, proprio quando si parla di Paolo che ottiene dal sinedrio il permesso di condurre in prigione a Gerusalemme  “uomini e donne appartenenti a questa Via”.
La Via: è una definizione davvero interessante del cristianesimo. Dire che esso è una dottrina, gli toglie la sua essenza, il suo valore centrale, che consiste nella stessa persona di Cristo. E Cristo è anche una dottrina, un messaggio, la Buona Novella, ma la dottrina casomai dipende da Cristo, e non viceversa. La Chiesa è arrivata al punto di identificare Cristo con la dottrina, e con una dottrina ferma, immobile, fissata in un dogma. La parola via fa pensare ad un cammino da percorrere, ad una meta da raggiungere. La via ha un punto di partenza, ma la dottrina presuppone un punto di partenza oramai scontato, e tende a farsi una via obbligata. La meta perciò sta tutta in una dottrina da applicare, da concretizzare, alla lettera. Da qui ogni tipo di fondamentalismo. Il fondamentalismo non accetta che si possa discutere, che si ricerchi ulteriormente, per rendere il cammino più avventuroso, come il cuore dell’essere umano.
E così la Chiesa è diventata dogmatica: chiusa ad ogni possibilità di ricerca, ad ogni cammino che è sviluppo, aderenza all’oggi, perciò sempre disponibile al progresso umano. Sempre attento all’evolversi della storia.
I primi cristiani avevano un’idea esatta del cristianesimo: avevano colto nel segno il messaggio di Gesù: non come dottrina da ripetere a memoria, da tradurre in un modo letterale, ma come Buona Novella. Così significa la parola Vangelo: la Bella o la Buona Notizia come Novità. Novella deriva da “nuovo”. Che non significa tanto una cosa recente, appena avvenuta. Ma come qualcosa che avviene sempre, è sempre nuova. Questo è il messaggio di Cristo, questo è il cristianesimo come Via.
La Chiesa, quando si è seduta in cattedra, e da lì ha impartito ordini morali e dottrinali, ha tradito il cristianesimo come Via.
Un altro elemento interessante da notare nel discorso di Paolo è quando l’apostolo alla fine dice che, su ordine di Cristo, anche per la ostilità dei giudei nei confronti dei cristiani, egli si è rivolto ai più lontani, ai gentili. «Ma egli (il Signore) mi disse: “Va’, perché io ti manderò lontano, alle nazioni”. Il termine “gentili”, poi tradotto con pagani, deriva da gentes: popolazioni, nazioni.
Mi sembra che la storia si ripeta anche per il cristianesimo: quando i cristiani si rendono inaccessibili, ostili, refrattari al Vangelo radicale di Cristo, allora il compito della Chiesa è quello di rivolgersi ai lontani. I vicini si fanno lontani, e i lontani vicini. Forse sarebbe più giusto dire: i primi da convertire sono i credenti che si sono allontanati dalla Chiesa. Questi sono i lontani di oggi. Ma succede che i vicini ma lontani dal Cristo radicale si credano gli unici eredi e facciano di tutto per impedire ai lontani, che se ne sono andati magari per colpa loro, si riavvicinino alla Chiesa di Cristo.
È bastato un gesto o una parola di Papa Francesco perché si sia creata un’atmosfera del tutto particolare non solo nella Chiesa, ma nel mondo intero. Gli indifferenti, gli assenti e i lontani si sono subito sentiti in sintonia con il nuovo Pastore che, come qualcuno ha fatto notare, ha già scritto la sua prima enciclica: una enciclica non scritta, ma gestuale. Non tanto una enciclica di parole, quanto una enciclica di gesti e di segni. Sappiamo quanto i segni e i gesti talora siano molto più efficaci di tante parole. Se dovessimo raccogliere tutte le encicliche della Chiesa, riempiremmo forse tutta l’Italia. Ma non so quante parole la gente abbia letto, abbia raccolto e abbia praticato. A parte il fatto che ben poche delle numerose encicliche sono accessibili alla cultura della gente. Questo Papa colpisce perché fa gesti e dice parole che tutti capiscono. La Chiesa, lungo i secoli, si è staccata dalla gente proprio perché, come la politica, ha usato un linguaggio tecnico, professionale, teologhese, incomprensibile, per non dire disincarnato dalla realtà esistenziale.
Gesù usava le parabole e faceva gesti: si faceva capire. Che poi l’abbiamo ucciso, è un altro discorso. Anzi, proprio perché è stato chiaro e si è fatto capire, l’hanno fatto fuori.
Il brano del Vangelo di oggi ci fa ulteriormente riflettere. Prendete le prime parole: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future». Anche Gesù, dunque, con i suoi discepoli ha usato ciò che noi oggi chiameremmo insegnamento graduale, una pedagogia progressiva che teneva conto delle loro capacità culturali e religiose. Nonostante ciò, quante volte gli evangelisti fanno notare che i discepoli sul momento non capivano ciò che Gesù diceva, ma che avrebbero poi capito dopo la sua risurrezione. Che Gesù parlasse soprattutto alla gente in modo semplice, lo si contata leggendo i Vangeli: Gesù usava tutti i mezzi, inventando anche le parabole, pur di farsi capire. Certo, non era facile neppure per Gesù parlare del regno di Dio. Le parole potevano essere fraintese, intese cioè in modo del tutto errato, per non dire all’opposto del loro significato.
Sono convinto di una cosa. Il problema sta tutto nel linguaggio o, meglio, nelle parole che col tempo possono assumere significati diversi. Io posso intendere la stessa parola in un modo, e l’altro in un altro modo, e nascono gli equivoci. Soprattutto in certi campi, come ad esempio quello religioso, una parola intesa male può diventare addirittura eresia.
Col tempo, abbiamo perso il senso originale delle parole, e le parole diventano perciò di doppio significato. E non ci si intende più. Ecco perché anch’io cerco di spiegare il senso etimologico di una parola. Prendiamo la parola “regno”. Quando Gesù parlava del regno di Dio gli ebrei pensavano a qualcosa di diverso da ciò che intendeva dire Gesù. E Gesù usava la stessa parola equivoca proprio per far capire l’originalità del suo messaggio. E accettando il titolo di re, ha inteso sconvolgere tutte le categorie del regno terreno. Se il re esercita un comando, Gesù è un re che si mette al servizio degli altri. Potete immaginare un re o un onorevole del nostro parlamento che si mette a lavare i piedi di un poveraccio? Non ha fatto forse scalpore Papa Francesco che ha lavato i piedi ai carcerati, e tra questi due donne, e tra queste una musulmana? Un papa che si inginocchia a lavare i piedi dei delinquenti?
Tutti avremmo desiderato che Gesù dicesse tutto ciò che poteva dire, e leggessimo ora nei Vangeli il suo messaggio integrale. Invece no. Ha detto solo alcune cose. Quelle che ha ritenuto opportuno dire. Il resto l’ha lasciato alla venuta dello Spirito santo. Questo è il bello della Chiesa di Cristo. In questo sta la differenza tra il cristianesimo e le altre religioni. Per i musulmani nel Corano c’è tutta la rivelazione di Maometto. Noi non possiamo dire la stessa cosa della Bibbia. La Bibbia contiene solo una parte della verità di Dio. Neppure i Vangeli narrano tutto ciò che Gesù ha detto o ha fatto. Giovanni, al termine del suo Vangelo, scrive: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”.
La Chiesa cosiddetta dogmatica dimentica la parte dello Spirito santo che ha la missione di integrare il messaggio di Cristo. Certo, dobbiamo stare attenti: lo Spirito santo non parla a vanvera, o su dettatura delle anime devote che gli fanno dire ciò che loro vogliono. La profezia è il dono dello Spirito che sorprende sempre. Io credo che ciò che noi conosciamo di Dio è solo un granello della verità. Ecco perché non si può racchiudere la verità entro schemi prestabiliti. Gli orizzonti sono infiniti. Ciò che dobbiamo dare ascolto è la sete d’Infinito che è dentro di noi. La Chiesa non può proibirci di sognare, di pensare in grande, di allargare le nostre conoscenze, di ridimensionare il nostro modo di vivere la fede. 

Lascia un Commento

CAPTCHA
*