da AVVENIRE
4 maggio 2020
Sfruttamento.
Caporalato,
più di metà delle inchieste sono al Centro-Nord
Antonio Maria Mira
Rapporto del Centro ricerca interuniversitario l’Altro Diritto e Flai Cgil su 260 procedimenti giudiziari: 143 non sono al Sud, 163 riguardano l’agricoltura, 97 altri settori, 15 lavoratori italiani
Sono ben 260 le inchieste avviate da 99 procure sullo sfruttamento dei lavoratori dopo l’approvazione dell’importantissima legge 199 del 2016, conosciuta come “legge anticaporalato”. Illegalità diffusa in tutto il Paese, non solo al Sud. Più della metà delle inchieste riguardano, infatti, il Centro Nord. Non l’unico luogo comune da sfatare. Lo sfruttamento non colpisce solo gli immigrati e non riguarda solo il comparto agricolo. Infatti in 15 inchieste sono coinvolti lavoratori italiani. E ben 97 riguardano comparti diversi dall’agricoltura. Lo rivela il “Rapporto sul 2019 del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e la protezione delle sue vittime” elaborato dal Centro di ricerca interuniversitario l’Altro Diritto (costituito da undici atenei), insieme alla Flai Cgil. Nel documento, coordinato dal professor Emilio Santoro e dalla dottoressa Chiara Stoppioni, vengono analizzati 46 processi intrapresi da 24 diverse Procure, e altre 214 inchieste, avviate da altri 75 uffici giudiziari.
Su 260 procedimenti monitorati, più della metà, per l’esattezza 143, non riguardano il Sud. Complessivamente, tra le Regioni più colpite, oltre alla Sicilia, alla Calabria e alla Puglia, vi sono Veneto e Lombardia. Basti pensare che le sole Procure di Mantova e Brescia stanno seguendo, ciascuna, ben 10 procedimenti per sfruttamento lavorativo. Allarmante anche la situazione dell’Emilia Romagna, in cui lo sfruttamento è diffuso in tutte le province, del Lazio (in particolare della provincia di Latina), e della Toscana, dove il maggior numero di procedimenti è incardinato presso il Tribunale di Prato. Ma sempre in Toscana vengono segnalate “massicce sacche di sfruttamento” nel Chianti senese, nel grossetano e nel Pisano, “dove è frequente lo sfruttamento di cittadini pakistani impiegati nella lavorazione del cuoio”. Ci sono infine “numerose segnalazioni che riguardano l’area metropolitana di Firenze, dove si sono spostati molti imprenditori cinesi per sottrarsi ai controlli svolti nell’ambito del Piano Regionale Lavoro Sicuro2 adottato dalla provincia di Prato”.
I settori economici più coinvolti
Per quanto riguarda i settori economici coinvolti, l’agricoltura è sicuramente quello maggiormente rappresentato nelle inchieste monitorate, con 163 procedimenti, ma sono ben 97 le vicende che riguardano comparti produttivi diversi, prevalenti nel Centro e nel Nord. I settori maggiormente colpiti sono quello manifatturiero e della lavorazione dei tessuti, dell’allevamento, della pesca, della lavorazione delle carni, del volantinaggio e dell’edilizia. Significative sono le inchieste relative ai settori della logistica e del turismo condotte dalle Procure di Padova, Foggia, Rovereto, Vercelli, Siena, Napoli, Forlì, Pavia e Milano. Si registrano anche due procedimenti, di competenza delle Procure di Pesaro e di Civitavecchia, in cui i lavoratori venivano impiegati come metalmeccanici; un’indagine, di Busto Arsizio, in cui le vittime erano costrette a guidare camion in pessime condizioni per un numero di ore di molto superiore a quelle consentite; un’inchiesta di Barcellona Pozzo di Gotto, in cui si procede nei confronti del titolare di una catena di supermercati; un procedimento a Reggio Emilia a carico dei titolari di due importanti società di sicurezza attive su tutto il territorio nazionale; quattro procedimenti, nel Friuli Venezia Giulia, in cui le vittime di sfruttamento operavano nella cantieristica navale. Ci sono, invece, settori che denuncia il Rapporto, “si sottraggono al controllo, in cui invece è conclamata la presenza di sfruttamento: in primis il lavoro domestico, dove il Laboratorio è riuscito ad intercettare solo quattro inchieste in cui le vittime erano impiegate in attività di cura”.
Dall’analisi dei procedimenti giudiziari emerge che “nella maggior parte le vittime erano titolari di un contratto di lavoro utilizzato come copertura per le condotte di sfruttamento”. Ma, “a prescindere dal tipo di contratto utilizzato, le vittime lavoravano sempre per un numero di giorni e un monte ore nettamente superiore rispetto a quello previsto dall’accordo e, per l’attività di straordinario, venivano retribuite meno di quanto prevede la contrattazione collettiva o, in alcuni casi, non venivano retribuite affatto”. Non pochi i casi nei quali i lavoratori “al momento del pagamento, ricevevano effettivamente quanto indicato in busta paga, dovevano successivamente restituire gran parte del loro stipendio al datore di lavoro”.
Molto importante è l’analisi sull’uso della violenza e delle minacce che anche se “sono quasi sempre presenti, intervengono in un momento successivo rispetto all’instaurazione del rapporto di lavoro. Si tratta, cioè, di modalità della condotta che non vengono utilizzate per persuadere il lavoratore ad accettare particolari condizioni che, altrimenti, avrebbe rifiutato; bensì di mezzi di cui ci si avvale per mettere a tacere eventuali rivendicazioni delle vittime quando, ad esempio, non viene loro corrisposta neanche la bassissima retribuzione promessa”.
Le 3 criticità nelle indagini
Il Rapporto segnala tre criticità che emergono dalle indagini. “Si registra ancora una certa difficoltà, da parte delle Procure, a procedere anche nei confronti dei datori di lavoro, quando la loro condotta si aggiunge a quella dei caporali. Gli atti esaminati, infatti, mostrano come, in questi casi, le indagini si orientano principalmente verso la condotta del solo intermediario, a meno che non emerga in maniera eclatante la consapevolezza del datore di lavoro”. Questo avviene, soprattutto al Nord, quando l’attività di reclutamento è organizzata tramite la creazione di cooperative spurie o agenzie di somministrazione, che assumono formalmente i lavoratori che in realtà lavorano per gli imprenditori. D’altro canto, sottolinea il Rapporto, “la possibilità di punire i datori di lavoro, anche a prescindere dall’esistenza di un caporale, ha permesso alle Procure di agire su contesti in cui la figura dell’intermediario è del tutto assente, come avviene nei comparti produttivi e nelle zone in cui non c’è bisogno di un soggetto che faciliti l’incontro tra domanda e offerta di lavoro o che eroghi ai lavoratori servizi accessori, quali trasporto, alloggio e pasti”.
Elemento “più preoccupante” riguarda “la mancata attivazione del percorso di protezione sociale previsto da una legge più vecchia, l’articolo 18 del Decreto legislativo 286 del 1998 “in favore delle vittime del reato di sfruttamento lavorativo aggravato da violenza o minaccia”. Infatti solo in un’inchiesta della Procura di Foggia, “è stata richiesta ed ottenuta l’attivazione del programma”, grazie al quale i lavoratori hanno potuto avere un nuovo permesso di soggiorno e usufruire di un alloggio. Infatti, spiega il Rapporto, la protezione sociale “si sostanzia in una vera e propria presa in carico delle vittime, alle quali vengono assicurate una dimora decente e un percorso, anche di formazione professionale, che le dovrebbe accompagnare verso la possibilità di accedere ad impieghi dignitosi. Questo strumento è fondamentale in un mondo in cui, spesso, chi segnala lo sfruttamento è percepito dai lavoratori sfruttati non come un alleato, ma come un nemico che toglie loro anche quel poco che riescono a guadagnare”.
Altro strumento prezioso, introdotto dalla legge 199, è il controllo giudiziario in azienda, un meccanismo che “vuole rispondere all’esigenza di evitare l’interruzione dell’attività imprenditoriale ogni volta in cui ciò possa danneggiare i livelli occupazionali, ovvero compromettere il valore economico del complesso aziendale”. Uno strumento ancora poco utilizzato: su 240 inchieste monitorate, sono solo in 7, delle Procure di Modena, Siracusa, Foggia, Bari, Ascoli Piceno e Macerata, l’azienda è stata sottoposta ad amministrazione controllata.
Questo articolo sul caporalato è una risposta a chi si domanda perché mai la Lega non abbia attivato le sue reti criminali internazionali, ad esempio quelle utilizzate per fare affari in diamanti intrisi di sangue innocente in Africa… per costruire il mito di Salvini ‘deportatore’.
Un’operazione addirittura banale, per reietti di partito abituati a mettere le mani al collo di perseguitati, donne e bambini e per un pugno di voti…
Un ‘carico’ di migranti, rastrellati nei campi di lavoro italiani, imbarcati allegando uno , due container di armi made in Italy , un tricolore, ad attenderli i mercenari inviati dai signori della guerra creati, innalzati e foraggiati dalle Spa e multinazionali, su autorizzazione e per conto delle potenze internazionali, un bel picchetto sotto al sole cocente d’Agosto per permettere la perfetta messa a fuoco degli ‘invasori’ incatenati e via, sai quanti materiali da selfie… abbastanza per mantenere due, tre generazioni di chierichetti di satana in politica al servizio dei capitalisti, ma retribuiti a peso d’oro da un popolo ormai infracidito dal materialismo, dunque spacciato, cornuto e che si mette in fila per prostituire se stesso e i propri figli in cambio di qualche ghianda…