4 dicembre 2022: QUARTA DI AVVENTO
Is 40,1-11; Eb 10,5-9a; Mt 21,1-9
Ogni anno, in questa quarta domenica di Avvento, la Liturgia ci ripresenta come terza lettura l’episodio dell’entrata di Gesù in Gerusalemme, ponendoci diverse domande, tra cui: che senso avrebbe riproporla durante l’Avvento?
Appare evidente un certo collegamento tra le due entrate: quella di Gesù quando nasce ed entra in questo mondo, e l’entrata di Gesù a Gerusalemme, a pochi giorni dalla sua passione e morte, quando, morendo, ci dona il suo Spirito, per la nostra vera rinascita.
Ma forse la Liturgia vuole evidenziare lo stesso stile: Gesù entra in questo mondo in modo umile e pacifico, come quando è entrato a Gerusalemme, cavalcando un umile asinello, come un re pacifico.
Ma vorrei soffermare la vostra attenzione sul primo brano. Si tratta dei primi undici versetti del capitolo 40 del libro di Isaia, capitolo che è l’inizio della seconda parte fino al capitolo 55, che gli esegeti ritengono opera del secondo Isaia, o Deutero-Isaia, cioè come il prodotto di un autore anonimo, ispirato da Dio, vissuto un paio di secoli dopo l’Isaia classico, vissuto nell’VIII a.C.
L’autore anonimo, o secondo-Isaia, rivolge il suo messaggio agli ebrei esuli in Babilonia, esortandoli a prendere coraggio e a rientrare nella terra dei padri per ricostruire la nazione, in seguito all’editto del 538 a.C., con cui Ciro il Grande, il nuovo dominatore assiro, permetteva agli ebrei di tornare in patria.
Il capitolo 40 inizia con lo stesso verbo ripetuto due volte: “Consolate, consolate il mio popolo”. Il duplice invito a consolare fa da contrasto al duplice castigo, di cui si parla dopo. Più si è castigati più si ha bisogno di essere consolati.
Come non sentire il bisogno di una particolare consolazione, in un momento, come l’attuale, in cui si è depressi, quasi castigati da emergenze naturali e da emergenze ad opera di una incomprensibile perversione umana. Incomprensibile per modo di dire, visto che dovremmo sapere che il male nelle sue origini proviene sì da lontano, ma che si incarna ogni giorno in un potere, di cui gli artefici siamo anche noi.
Si è tentati di colpire duramente il male e i suoi artefici, e, siccome tutti ne siamo coinvolti anche per una certa rassegnazione e assuefazione, sentiamo il bisogno di essere consolati, al di fuori delle promesse politiche o delle promesse di una religione che parla solo dell’aldilà come premio per i giusti, che però in questa vita subiscono angherie e incomprensione proprio da una chiesa che parla di cielo e vive da struttura carnale.
Ma come consolare questo popolo alla deriva o sfinito sotto i colpi di una violenza inaudita?
Occorre consolarlo perché torni a casa, perennemente esule in una perenne Babilonia, terra di schiavitù e di sopraffazione, ad opera di quella insipienza che offusca gli occhi, ottenebra l’intelletto, blocca la libertà dello spirito.
Al tempo della deportazione in Babilonia, non tutti gli ebrei tornarono in patria, molti preferirono rimanere in esilio, avendovi trovato una buona sistemazione. Così succede sempre, anche per quanti vivono fuori di casa, fuori del proprio sé interiore, vivono in esilio, ma per loro l’esilio è diventato la propria casa, ed è faticoso far loro capire che devono tornare a casa, ovvero nel loro sé interiore.
Ed ecco una delle pagine più note, ripresa anche nel Vangelo di Matteo, ma con una rilettura un po’ differente. Matteo la applica a Giovanni che predica nel deserto, mentre secondo il profeta anonimo la voce che grida è forse quella di un membro della corte celeste, un angelo, alla cui presenza sembra trovarsi il profeta. Non grida nel deserto, la punteggiatura è un po’ diversa. Il testo originale dice: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore…”. In Matteo invece si trova: “preparate la via del Signore”. Non sono sfumature di poco conto, ma una diversa visuale della fede del credente.
In ogni caso, soffermandoci sulla visione del profeta anonimo, potremmo parlare di un riferimento alla vicenda storica del ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese.
Si apre la strada gioiosa del ritorno a Gerusalemme, raffigurata simbolicamente come una via “processionale”, cioè come una di quelle strade perfettamente piane e rettilinee poste davanti ai templi nell’antico Vicino Oriente. Anche da lontano si vede già la meta che spinge quasi ad accelerare il passo dando fiducia al pellegrino.
Dunque, la strada è già lì pronta per essere percorsa, oppure, così sembra di capire nella rilettura di Matteo, tocca al credente togliere gli ostacoli, gli impedimenti, tutto ciò che rende difficile il cammino del pellegrino?
Vorrei fare questa semplice riflessione, al di là delle varie interpretazioni degli esegeti.
Di per sé, non tocca a noi segnare la strada, aprire strade nuove, ma il nostro impegno sta nel togliere tutto ciò che copre la “strada” che è del Signore. Togliere per scoprire. Non si toglie per far soffrire il pellegrino. Si toglie perché il pellegrino percorra la strada, senza farsi distrarre da mille cose.
Vorrei chiarire una cosa. Non è esatto dire che i credenti sono fortunati perché conoscono già la strada che conduce al Signore. Forse i credenti credono di conoscerla, ma in realtà è una strada che è tracciata da una religione che conduce il credente all’idolatria, ovvero alla adorazione di un dio costruito come idolo dalla stessa struttura religiosa. Il compito casomai della religione dovrebbe consistere nell’aiutare ogni essere umano a scoprire la vera strada che conduce al Bene Sommo Dio, che è Dio. E questa strada è nell’essere di ciascuno.
Se io sono fuori del mio essere, quindi immerso in una società che è carnale, non potrò mai “scoprire”, ovvero conoscere la via che mi conduce al mondo del Divino.
Credenti e non credenti corrono lo stesso rischio: quello di percorrere una strada che conduce lontano dal Bene Sommo. Entrambi sono fuori del proprio essere, in un modo o nell’altro. Dunque, il problema non è religioso, credere o non credere in un certo Dio, e neppure del tipo moralistico, ovvero comportarsi bene. Il problema, usando una parola difficile, è ontologico, ovvero riguarda il nostro essere: ciò che siamo.
Possiamo anche dire che per tutti, credenti e non credenti, il problema è filosofico, se per filosofia s’intende la scoperta dell’essere, di ciò che siamo, e in particolare per i credenti il problema è mistico, se per mistica intendiamo la scoperta della sorgente del nostro essere, che è il Bene Sommo.
Avvento: tempo in cui siamo alla ricerca della Sorgente divina che è in noi. Bisogna però tornare o ritornare in noi. Tornare a casa, se per casa s’intende il nostro mondo interiore.
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