Omelie 2015 di don Giorgio: Sesta dopo Pentecoste

5 luglio 2015: Sesta dopo Pentecoste
Es 3,1-15; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30
Ci sono alcuni aspetti comuni nei tre brani della Messa. Uno un particolare: da una parte c’è un Dio che guarda agli oppressi così da scendere accanto a loro, e dall’altra il Signore si serve di servitori umani, umili e interessati solo alla causa dell’Umanità più integrale.
Certo, non possiamo dire che sia Mosè come l’apostolo Paolo e lo stesso Gesù Cristo siano stati umili nel senso di remissivi ciecamente a degli ordini provenienti dall’alto. Ciascuno di loro aveva una spiccata personalità, anche di autorevolezza. Di fronte ad una nobile causa, non si può tentennare, o giocare a fare il finto democratico. Se questo è il Bene comune, bisogna attuarlo, e farlo attuare, a tutti i costi, evitando il più possibile compromessi o altro, e soprattutto di cercare il consenso generale. Dovremmo rivedere quel falso o apparente concetto di democrazia, che purtroppo è presente, non soltanto tra il popolo cosiddetto bue, ma anche tra i cosiddetti intellettualoidi, soggiogati dal pensiero unico.
Mosè, il popolo e il nome di Dio
La missione di Mosè non è nata il giorno in cui il Signore lo ha chiamato sul monte Oreb. La sua vocazione è scaturita tra il suo popolo, quello ebraico, oppresso dalla schiavitù. Mosè ha visto, ha constatato di persona le angherie compiute dagli egiziani. Si è ribellato, ha ucciso un aguzzino per difendere un ebreo, e dovette fuggire, lontano, nella terra di Madian. Qui si sposa con una delle figlie del sacerdote del luogo, e vive come pastore una vita tranquilla, fino a quando il Signore non gli parlerà attraverso un roveto ardente.
Il racconto di questa “strana”, come vedremo, manifestazione di Jahvè si svolge attraverso una sequenza di particolari davvero interessanti. È una delle pagine fondamentali nella storia del popolo ebraico.
Mosè si avvicina al roveto e si chiede: “Perché il roveto arde, ma non si consuma?”. Ed ecco, mentre Mosè si pone la domanda, il Signore lo chiama: “Mosè, Mosè!”, e lo invita a togliersi i sandali per il rispetto al luogo santo. Il Signore poi si auto-presenta come il Dio degli antichi patriarchi. Mosè allora si copre il volto. Il Signore continua a parlare spiegando i motivi del suo intervento: liberare il popolo eletto dalla schiavitù egiziana. E affida l’incarico proprio a Mosè, che sul momento manifesta tutta la sua inettitudine. Ma il Signore lo rassicura: “Io sarò con te”. A questo punto Mosè osa chiedergli il nome, come garanzia davanti al popolo ebraico. Il Signore risponde dicendo: “Io sono colui che sono”.
Vorrei ora soffermarmi su qualche particolare del racconto, benché sinteticamente. Ho trovato delle spiegazioni davvero affascinanti: sui termini, sulle espressioni, sui gesti.
Il significato di alcuni termini: monte, Oreb, roveto
Alcuni fanno notare il significato del nome “monte”, in ebraico har, che ha la medesima radice di harah e “incinta”. Ad una lettura simbolica possiamo dire che nel suo incontro con Dio, Mosè sta per essere generato o rigenerato.
Così la parola “Oreb” deriva da h’arav, che vuol dire “distruzione”. Il monte della maternità è un luogo di distruzione. Come far coincidere questi due aspetti apparentemente contraddittori? L’incontro con il Signore segna per Mosè un’auto-coscienza più matura della sua missione. Questo avviene attraverso un travaglio. Incontrare Dio significa morire per poi rinascere.
Interessante è anche il nome “roveto”. Il roveto, nella Sacra Scrittura, a cominciare dalla punizione del peccato di Adamo (cfr. Gen 3,18: “Spine e cardi (il suolo) produrrà per te”), ha normalmente un significato negativo. In questo caso, però, i commenti rabbinici parlano del roveto come di una “pianta dolorosa” e ne spiegano il suo profondo senso. Ecco cosa scrive il grande Rashì: «La Torà specifica la natura del cespuglio con uno scopo ben preciso, ossia d’insegnarci qualcosa che è implicito nelle caratteristiche del roveto. Dio, infatti, accompagna il popolo ebraico anche nei periodi più “spinosi” dell’esilio ed è partecipe delle sofferenze dei suoi figli, come è scritto nel Salmo 91,15: “Io mi trovo con lui nella disgrazia”». Su questa scia, la tradizione cristiana ha visto nel roveto, “pianta dolorosa”, un’anticipazione dell’albero della Croce, pianta dalla quale si ri-velerà un Dio che partecipa pienamente al nostro dolore.
Colui che è
Sarei tentato di soffermarmi sul fatto che il cespuglio ardeva ma non si consumava, ma entrerei in un campo, quello mistico, che non si può liquidare con due parole. Preferisco invece soffermarmi sulla definizione che Dio dà di se stesso, quando Mosè gli chiede il nome. “Io sono colui che sono”. Sì, è vero che il Signore non intendeva dare di se stesso una definizione filosofica, come a dire: “Io sono Colui che ha l’essere per essenza”. Tuttavia, anche qui, i mistici hanno visto più dei filosofi. In ogni caso, gli esegeti, che sono concreti, interpretano le parole di Dio in questo senso: Dio è colui che si rende “presente a”, che è “in favore di”. La risposta di Dio andrebbe, dunque, intesa in senso esistenziale e storico. Dio è colui che si fa coinvolgere con la storia del Popolo di Abramo.
Da questo episodio, ovvero dall’incontro di Mosè con il Signore sul monte Oreb, una cosa risulta chiara: Dio è colui che libera. Il Signore non è colui che ci rende schiavi con delle norme, con delle proibizioni, con dei divieti, ma il nostro Dio è positivo, è colui che ci libera da ogni schiavitù. Forse qui la parola “essere” dovrebbe essere recuperata, in un mondo in cui tutto sembra condizionarci nell’avere, che rende schiavi.
Se il Signore dice “Io sono per…”, significa che è dall’essere che parte la nostra solidarietà, il nostro impegno per gli altri, il nostro servizio anche politico. Non so fino a che punto possa servire dire queste cose, quando la gente non vuole ascoltare questi discorsi.
Sapienza divina risiede nella unitarietà dell’Universo
Passiamo al brano di San Paolo. Giustamente qualcuno ha scritto che lo Spirito di Sapienza, perciò la Sapienza divina, ci educa a guardare il creato nella sua realtà più profonda, e non in modo meccanicistico, come qualcosa che automaticamente produce ordine, bellezza, potenza e quant’altro.
Un autore ha scritto: “Lo Spirito di Sapienza ci spiega l’Uni-verso, cioè il verso unico che hanno tutte le cose, e quindi il punto di arrivo e di partenza di tutta la realtà”. Interessante quindi il termine “universo”: tutta la realtà tende verso l’Uno.
Anche la scienza sta scoprendo sempre più questa tensione innata nelle realtà più atomiche, nelle particelle più invisibili verso l’armonia cosmica. Lo Spirito di Dio ci aiuta ancor più a metterci in questo viaggio meraviglioso. Tutto è Uno.
L’Universo non è un insieme di atomi a se stanti. C’è un qualcosa che ci lega gli uni agli altri. La Sapienza dello Spirito ci aiuta a cogliere questa unitarietà. L’atomizzazione, cioè scomporre o polverizzare la realtà cosmica nei minimi elementi a scapito dell’organicità, dell’unitarietà, è la malattia di questo secolo. Ed è questa malattia che ci sta distruggendo nella nostra fratellanza umana. La solidarietà, prima che una questione morale, è una questione di entità reale. Noi siamo fatti l’uno per l’altro, perché siamo per costituzione uniti nell’essere. Ogni forma razzista, ogni individualismo esasperato, ogni egoismo che respinge l’altro sono una violazione dell’Umanità, nel suo dna.
Il mio giogo è dolce
Il Vangelo di oggi riporta alcune parole di Gesù, che dovrebbero esserci di grande consolazione: il Signore in cui crediamo non è un tiranno o uno che si diverte a caricarci di pesi opprimenti. Già la gente è stanca e oppressa, come dice Gesù, e come si potrebbe sopportare una religione che aumenta norme e divieti, oppure predica solo sacrificio e rinunce?
Gesù è venuto per liberarci da pesi inutili, e a dirci che la cosa più bella è la libertà interiore, ovvero la leggerezza del nostro essere. Come credenti dobbiamo fare un serio esame di coscienza: il nostro problema non è quello di rendere questa nostra esistenza ancor più dura di quella che è già, ma, se dobbiamo parlare di sacrificio, è in rapporto all’essenziale. Si tratta, cioè, di togliere, di eliminare, di tagliare tutto ciò che è superfluo, inutile, accessorio, ed è questo mondo di eccesso ad appesantire la nostra esistenza.
Toccare l’essenziale della nostra vita non è gradito a Dio. Restituire vita alla nostra esistenza è andare all’essenziale, e disseppellirlo da un mondo di pesi inutili.

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